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Palcoscenico

Judith Malina

Beat Generation & Living Theatre

confessioni e testimonianze

Lorenzo Acquaviva (LA): Come è avvenuto l’incontro con Julian Beck e la conseguente formazione del Living Theatre?

Immagine articolo Fucine MuteJudith Malina (JM): Nel 1947 regnava un grande entusiasmo negli Stati Uniti ma questo momento estatico, come si è verificato in altre simili circostanze dove non c’era un sufficiente fondamento sociale, si è presto dissolto. A quell’epoca l’arte non aveva ancora assunto una forza etica, politica, sociale, ma aveva soltanto funzione di intrattenimento.
Devo dire che in tal senso si è andati peggiorando visto che ora c’è una vera e propria industria dell’entertainment che non lascia spazio all’inventiva e alla creatività dell’arte. Io all’epoca mi ero laureata alla scuola di teatro di Erwin Piscator, uno dei fondatori del teatro politico moderno assieme a Bertold Brecht. Fu proprio entrando in contatto con il teatro commerciale di Broadway che mi resi conto della distanza tra ciò che avevo studiato con Piscator e quel mondo. Nel frattempo incontrai Julian Beck, un giovane pittore della scuola espressionista astratta, che aveva esposto alcune opere alla galleria di Guggenheim.
Io, che allora avevo diciotto anni, mi sono messa a discutere con lui su cosa volesse dire fare teatro in quel momento e quale senso avesse.
Da allora nacque il nostro sodalizio. Eravamo molto influenzati dal teatro del dopoguerra in Europa: ci piacevano Jean Cocteau, Gertrude Stein e Pirandello stesso. Decidemmo di mettere in scena tutti questi autori cogliendo la possibilità, tramite la poesia, di dare un senso politico al teatro anche se non in una maniera scoperta, perché all’epoca il teatro politico era considerato propagandistico, con molto disprezzo verso qualsiasi ideologia, che rimaneva una parola sporca.
Allora Julian ed io abbiamo deciso di creare un piccolo teatro, senza risorse, senza mezzi, senza nient’altro che le nostre forze, assieme ad un gruppo di amici. Quel lavoro di ricerca continua tutt’ora: sulla realtà dell’attore, sul rapporto spettatore-attore, sulla possibilità per il teatro di avere un impatto culturale e sociale.

LA: Puoi ora parlare del clima culturale esistente attorno ai beats?

JM: Il movimento, che non era così sviluppato, era di tipo letterario, politico, culturale e facendosi forte di varie esperienze non dava importanza al fatto se una persona fosse uno scrittore o facesse parte di un gruppo che protestava contro l’esercito: così confluivano nello stesso movimento il lavoro del Living, la danza di Merce Cunningham o la pittura di Robert Rauschenberg. Eravamo tutti coinvolti in un cambiamento che naturalmente è cominciato in tono minore ma che poi è diventato sempre più forte, fino al punto che la nostra teoria non fu in grado di sostenere l’azione, cosa che ci ha indotto a nutrire la speranza che i più giovani, i quindicenni di oggi, sarebbero stati pronti a fare il prossimo, decisivo passo.

LA: È ancora possibile la rivoluzione anarchica non violenta?

JM: Non solo credo sia possibile ma che anzi sia assolutamente necessaria, se vogliamo salvare il pianeta e l’umanità intera dalla catastrofe sia ecologica che militare. La bella rivoluzione anarchica non violenta, vale a dire una vera inversione di rotta nel comportamento da parte dell’uomo, dobbiamo farla senza porci l’interrogativo se ciò sia possibile.
Non possiamo continuare ad incrementare le spese per l’armamento, e contemporaneamente sostenere una politica di sfruttamento del pianeta…

LA: Il teatro può davvero fare tutto questo e dare un contributo effettivo al cambiamento?

JM: Io penso che soprattutto  Internet rappresenti il medium della grande trasformazione. Ritengo comunque che il teatro possa fare la sua parte dando un’impronta umana a un qualsiasi processo intellettuale e politico proprio perché il teatro non è un medium puro, avvalendosi di una comunicazione diretta verso i propri spettatori. È quanto mai urgente e necessario dar corso ad un cambiamento veramente profondo per la qualcosa Internet resta uno strumento insostituibile.

LA: I beat si possano considerare politici oppure sono stati solamente un’elite intellettuale? Se vogliamo, tranne Corso e Cassady, gli altri, come Ginsberg, Kerouac, Burroughs, Ferlinghetti, sono di estrazione piccolo o medio borghese…

JM: II pensiero e l’azione di Ginsberg sono stati sicuramente di matrice politica, tanto è vero che è stato tenuto ossessivamente sotto controllo da parte dei servizi segreti americani; presso la CIA esiste un vasto dossier dal quale risulta che egli è stato tenuto sotto osservazione fino alla fine dei suoi giorni, perché considerato un elemento impegnato contro il governo americano; Burroughs da parte sua faceva un altro tipo di ricerca, e non si occupava di discorsi politici.

LA: E per quanto riguarda Corso, Kerouac…

Hanon Reznicov (HR): “Bomb” di Corso è una delle più grandi poesie politiche di tutti i tempi.

JM: Julian Beck una volta ha domandato a Jackson Pollock se avesse mai dipinto qualcosa in senso specificatamente politico e lui gli ha risposto che non è possibile fare una linea senza dipingere qualcosa. Con ciò voglio dire che tutto è politico e la sessualità di Burroughs, per esempio, è rivoluzionaria proprio in questo senso. La rivoluzione però non è solamente ammainare una bandiera per innalzarne un’altra; la rivoluzione è cambiare i nostri valori e credo che Kerouac, Corso, Burroughs abbiano fatto questo, abbiano profondamente scosso i nostri valori di base: sessualmente, politicamente, visualmente, così come la pittura li ha mostrati.

HR: C’era poi questo sfondo, quello dell’America di Eisenhower, in cui regnava un conformismo sfumato così come, temo, regni oggi in Italia.

LA: In pratica loro hanno fatto quello che avrebbero dovuto fare i filosofi e i politici.

HR: Sì. Quello che in Francia hanno fatto Sartre, Gide e Camus, in America secondo me l’hanno fatto i beat s.

LA: A proposito della Francia, potete fare un resoconto della vostra esperienza francese?

Immagine articolo Fucine MuteJM: È stato un momento storico molto vivace. Avevamo pensato che fosse veramente possibile prendere la città e operare tutti quei cambiamenti che si erano ipotizzati.

HR: Anni dopo, Daniel Cohn Bendit, uno dei leader del Movimento, continuava a dire che “se ci avessero dato almeno un martire, la rivoluzione l’avremmo fatta”.

JM: Credo che quel momento, di grande speranza, ci abbia dato molte lezioni. In quella circostanza abbiamo partecipato all’occupazione del teatro nazionale, l’Odeon, dando vita ad una lotta fantastica attraverso l’organizzazione di un forum dove le persone, a turno, prendevano la parola, continuamente, giorno e notte; poi la scena è cambiata quando la strada è diventata un campo di battaglia con feriti, e J.L. Barrault, che era una persona splendida, perse il suo posto per essersi rifiutato, all’ordine del ministro della cultura Malraux, di spegnere le luci del teatro dove si trovavano duemila persone.
Era, quello, un momento di grande speranza ma anche di poca chiarezza di intenti da parte nostra tanto è vero che la situazione si è ulteriormente deteriorata quando i Katangai, un gruppo maoista molto violento, hanno preso in mano la situazione ricorrendo all’uso della forza.
Il problema del ’68 consisteva principalmente nel fatto che avevamo una visione chiara, derivataci anche dalla poesia, dalla musica, dalla beat generation, sul come vivere. Non sapevamo come realizzarla senza una guida sicura che ci dirigesse verso lo scopo: ad esempio eravamo consci che nel rapporto tra studente e insegnante il professore non avrebbe dovuto esser considerato mai un semidio, e che se non diceva la verità non avrebbe meritato rispetto alcuno. Ma non sapevamo come procedere verso questa nuova visione delle cose. Questa visione è ancora integra in ognuno di noi, ma non abbiamo, purtroppo, alcuna strategia per cambiare le cose e non ci resta che affidarci ai giovani d’oggi con la speranza che possano concretizzarla, svilupparla o raggiungerla senza avere troppa nostalgia per il passato e per la beat generation in particolare.

LA: Ormai è tutto fashion, moda…

JM: Dobbiamo preservare tutto ciò, dobbiamo impedire che tutto questo background venga utilizzato solo dalla musica commerciale o dall’industria degli abiti e dalla moda, e dobbiamo ricordare che è stata l’idea che abbiamo avuto su un altro modo di vivere. Questo è espresso nei romanzi di Jack, nella poesia di Gregory e Allen, è un urlo contro il sistema che avevamo nel 1950 e che continua ancora adesso.

HR: Una delle figure che corrisponde ai beat s, qui in Italia, è stato Pasolini il quale, credo, condividesse una certa onestà “beat”, una certa trasgressività, anche sessuale. Ho incontrato un giovane, qui in Italia, che non sapeva come era morto Pasolini, e gli ho spiegato un po’ le sue idee aggiungendo che per essere gay era stato addirittura espulso dal partito comunista; egli mi ha espresso la sua incredulità precisando che oggi semmai si viene espulsi più facilmente per essere rimasti comunisti.

LA: Negli anni ’50 e ’60 quale era la presenza fisica dei beats nei readings e la loro reperibilità editoriale?

HR: Avevano un’apertura e una disponibilità abbastanza accettabile.

JM: Abbiamo fatto insieme una tournée di reading s.

HR: Nel ’78, mi ricordo, abbiamo fatto una tournée di readings di poesia organizzata dall’ARCI assieme ad Allen Ginsberg, Peter Orlowsky, Gregory Corso, Julian Beck e Judith Malina nonché Fernanda Pivano, che faceva traduzioni; all’epoca io guidavo il pulmino.

LA: Una cosa penso sia tipica della società americana — ma forse appartiene a tutte le società attuali — che è quella di commercializzare l’immagine. L’esempio più eclatante, forse, riguarda Jack Kerouac, il quale era quasi obbligato ad essere personaggio di se stesso, ad essere “Jack Kerouac di On the road”, ubriacandosi, dicendo determinate cose, assumendo un certo atteggiamento.

liHR: Questo fatto ha delle radici profonde in America. All’epoca della Guerra del Golfo abbiamo presentato uno spettacolo su un testo di George Washington, dal titolo “Regole di civiltà e di comportamento di cento compagnie in conversazione”, che è in sostanza un elenco di 110 regole di comportamento. È un testo rivelatore perché tratta sempre e unicamente dell’apparenza: l’unica cosa che conta è ciò in cui crede la gente, non importa quale sia il valore morale dell’azione, non importa il suo significato ma soltanto la figura che ti fa fare con gli altri. Tanti anni fa l’America aveva già considerato il presidente come un’immagine, come icona svuotata di etica e morale, comprendendo che l’importante non sono le azioni ma come si proietta una certa immagine sulla gente.

JM: La situazione contingente vuole sempre, assorbire, categorizzare tutto, divorare, fagocitare. Abbiamo divorato anche la beat generation, come fosse un qualsiasi prodotto alimentare. Tuttavia è molto difficile farlo con gli anarchici, perché è molto difficile accettare gli anarchici; perché gli anarchici vogliono distruggere la struttura stessa della società, le sue basi. Anche Allen era anarchico, ma lui ha detto anche di essere anarchico perché il suo cuore era anarchico, non il suo cervello.

HR: Moravia ha scritto che l’artista deve essere anarchico perché l’arte è legata all’assoluto, e l’anarchia è una filosofia dell’assoluto. L’uomo politico, invece, deve essere socialista, meglio se comunista, perché la politica è legata al relativo, così come il socialismo è più adatto alla filosofia politica.

LA: La cultura ufficiale americana ha sempre cercato di assorbire alcune vostre manifestazioni di protesta attraverso atteggiamenti che andavano dal tentativo di ridicolizzazione nei vostri confronti e nei confronti della cultura beat, tacciati di ingenuità, di utopismo, alla paradossale etichettatura come violenti, come quelli che andrebbero contro la società e la pace comune.

HR: Il modo più dannoso di attuare un progetto rivoluzionario è abbracciare una moda per uno, due o al massimo tre anni. Quando, dopo due o tre anni, quella stessa moda non è più proponibile commercialmente, anche il progetto è destinato al fallimento. Questo accade perché la società deve “consumare” cose nuove, ha bisogno di creare più prodotti, più consumo, ecc. Così è successo anche per il Living Theatre, a cui nel ’68 era stata addirittura dedicata la copertina del “Time Magazine”: ma solamente perché era il fenomeno del momento ed era, quindi, commercializzabile, digeribile. Una volta digerita, l’idea è mutata.

LA: L’America degli anni ’50 com’era, come si viveva, quali erano le speranze?

HR: Mi ricordo che negli anni ’50, quando ero bambino a Brooklyn, c’era un ottimismo molto diffuso e forte. I componenti della mia famiglia non erano dei rivoluzionari ma dei democratici che pensavano che l’Olocausto e la seconda guerra mondiale fossero esperienze mai più ripetibili.
Erano state istituite le Nazioni Unite e si pensava pertanto che questo sarebbe stato il forum del futuro, dove si potevano risolvere i problemi mondiali. L’uso pacifico del potere atomico, il potenziamento dei diritti civili, dei diritti dei neri, la conquista dello spazio, il progresso tecnologico, il boom economico… non c’erano limiti. C’era finalmente la possibilità di comprarsi la casa! C’era anche tanta ingenuità, tranne che tra di loro, tra gli artisti e gli scrittori del movimento Beat e del Living Theatre — veri e propri veggenti che avevano intuito come le cose non stessero andando proprio così bene…

JM: Noi non abbiamo mai creduto che la società, così com’era, potesse aumentare il suo potenziale positivo; abbiamo visto, invece, una società malata che ritenevamo fosse nostro dovere cercare di cambiare. Penso che anche ora ci sia tanto da fare. Manca un certo impeto entusiasta che noi avevamo e che ora è forse andato perduto: ma è per questo che esiste l’arte e per questo che abbiamo ancora bisogno dell’artista. Il cambiamento deve essere parallelo e contemporaneo tra quello individuale e quello sociale, senza che vi sia mai un ripiegamento su se stessi, una chiusura sterile in una ricerca esclusivamente personale. L’interesse in un mutamento più compiutamente collettivo, sociale, deve rimanere.

LA: All’inizio, il Living Theatre si pose come un gruppo d’avanguardia; poi, con “The Brig”, diventò più compiutamente uno strumento di denuncia, rivoluzionario, subendo nei suoi componenti l’esperienza della prigione, dell’esilio volontario. Cos’è cambiato all’inizio degli anni ’60 per diventare così rivoluzionario?

Immagine articolo Fucine MuteJM: Julian ed io siamo stati sempre anarchici e abbiamo sempre pensato che avremmo dovuto nasconderlo, e che a questo riguardo, sempre, avremmo dovuto indorare la pillola. Ma quando il movimento si è orientato politicamente — perché l’ambiente era più politico — i movimenti giovanili più politicizzati ci hanno dato un’ispirazione, come d’altro canto spero sia accaduto con la nostra opera per loro. Abbiamo pensato che non era più il caso di nascondere la nostra vera natura politica ma che fosse giunto il tempo di sostenere con forza le nostre idee: siamo pacifisti, siamo anarchici, vogliamo cambiare il mondo, vogliamo che il denaro, l’arrivismo, le frontiere, la nazione, la prigione, il sistema poliziesco non siano alla base del mondo. Quando abbiamo cominciato a dire questo, è cambiata naturalmente la nostra forma di esposizione politica.
Nel 1961 lo sciopero generale che abbiamo progettato per la pace ci ha costretti con naturalezza ad un impegno direttamente politico; in quel periodo, però, tutti i nostri sponsor e le persone che ci appoggiavano finanziariamente e il cui nome era inserito nel programma di sala, ci hanno detto “Julian, Judith voi siete meravigliosi, vi ammiriamo molto per quello che fate ma, per favore, togliete il mio nome dal programma”. Ad un certo punto noi siamo stati praticamente costretti a diventare apertamente politici, smettendo di nasconderci, perché ciò era necessario per il cambiamento storico, per realizzare i nostri obiettivi.

LA: E l’avete pagata anche con la prigione!

JM: Anche questo, sì; perché se volevamo opporci alle grandi forze era inimmaginabile che queste non reagissero. Dovevamo scegliere quanto sacrificarci, abbiamo sperimentato spesso la prigione. Essere pacifista fa grande paura alle persone, forse più che essere anarchici, perché essere pacifisti vuol dire essere vulnerabili, non essere armati in un mondo armato.

Nei primi anni il Living rappresentò in posti di fortuna, se non nello stesso appartamento dei due fondatori, un ampio repertorio molto originale e caratterizzato da un’eccezionale densità di strutturazione linguistica. Prese vita così un teatro poetico, che insisteva particolarmente su temi pirandelliani di coincidenza fra vita e rappresentazione culminato nell’opera di J. Gelber “The connection”. Intanto Beck e la Malina avevano conosciuto le posizioni di A. Artaud sul teatro della crudeltà e introdotto Brecht nel loro repertorio.
In seguito alla pressioni della polizia, il gruppo si trasferì in Europa. Qui vennero presentati “Mysteries and Smaller Pieces”, una sorta di manifesto teatrale incentrato sui concetti di creazione collettiva, corporeità come liberazione, teatro come luogo di meditazione. Seguirono “Frankenstein”, “Antigone” ed infine “Paradise Now”. A quest’ultima opera, che coincise con l’esplosione del Living fuori dall’istituzione teatro nelle strade del maggio francese, nel tentativo di fare dell’azione teatrale uno strumento di liberazione per tutti seguì la diaspora del Living e il costituirsi in diverse parti del mondo di piccolo nuclei di teatro-azione.

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