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Cinema

Choppers & beatniks: l’America e i gruppi di Roger Corman (I)

Sixties. L’autocritica dell’America e la “crisi morale” che ne derivò, della quale parlò JFK in riferimento particolare alla questione razziale — che sembrava essere sul punto di esplodere come una delle bombe che bruciarono le rocce di Alamogordo — era ormai tutta nel ricambio generazionale e nel rifiuto del sistema capitalista e delle sue regole, nel rifiuto dell’establishment,nel rifiuto della politica interventista americana.

L’ideologia del consenso, che aveva seppellito la voce degli studenti durante tutta l’era Eisenhower, iniziava a mostrare profondissime incrinature nel ritorno di questi alla durissima lotta per i diritti civili, ai sit-ins di protesta e alle dure repressioni poliziesche, alle manifestazioni e alla musica antiatomica e pacifista, ai Freedom Rides verso “le terre dove l’orologio si è fermato”, verso quello stesso Sud di sempre, spaventosamente razzista e sudaticcio (luogo cinematografico della mente, il “Sud”, e del sudore ancor prima che del razzismo, quasi quest’ultimo fosse conseguenza del primo come espressione fisiologica d’un “forte sentire” l’odio; luogo americano dove il segno definitivo, che connota sia “il negro” sia il “razzista”, o lo sbirro a servizio del razzista del Mississipi o della Louisiana, è proprio il gocciolare che proviene dalla potente sudorazione…).

Immagine articolo Fucine MuteCon le fucilate di Dallas del 1963, quelle dal vecchio deposito librario — assieme a quelle che provenivano chissà da dove, chissà da dietro quale steccato, e che la commissione Warren non volle vedere… — sembrava una volta per tutte spegnersi la grande illusione delle nuove generazioni. Jacqueline che sulle ginocchia, disperata e inorridita, cerca di reggere il capo del marito presidente, è l’immagine che torna definitivamente, ancora oggi. Poi venne il sangue nero di Memphis, la fine di quell’incredibile “I have a dream”, e la rivolta. Quindi fu il turno del sangue più fresco, quello del giovane avvocato contro la mafia, Bob Kennedy, ucciso a pistolettate nell’estate 1968.
Le tragedie si susseguirono, dunque, una dopo l’altra e la fiducia nel sistema democratico svanì all’improvviso. Furono gli intellettuali, di destra (pochi) e sinistra (tanti) aventi punto di riferimento in Irving Kristol e Noam Chomsky, ad attaccare con forza la lobby di potere politico collusa alla mafia della C.I.A., dei settori deviati dell’esercito e dell’industria militare. Fu l’attacco diretto, coraggioso, la critica più potente ed efficace della politica dei “nuovi mandarini”, incapaci e disonesti. Il verdetto di Carl Oglesby, militante radicale bianco degli anni sessanta, non concedeva appello: “…noi americani non siamo un popolo che autogoverna, e non lo siamo mai stati…” (cit. in Piero Bairati, “Gli orfani della ragione”, Firenze, 1975, pp. 171-172). La crisi di fiducia nelle istituzioni e nella rappresentanza politica era completa, così come lo stesso mito dell’America della classe media, della società senza classi, che ormai pareva dimenticato. La crisi economica-occupazionale e la guerra in Vietnam (1957-1973) determinarono il logoramento definitivo: la società del consenso si frantumò nel macrocosmo impazzito del dissenso giovanile, del paleoinduismo e della controcultura che sfociò nell’ hippismo.

 

 

I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked, dragging themselves for an angry fix…

Si dimostrò, tramite ricerche demoscopiche, la portata della rivoluzione ideale negli americani tra gli anni ’60 e i primi anni ’70: dai valori dell’etica protestante si passò al culto dell’individualismo più sfrenato e della realizzazione personale, oppure al neo-associativismo, al tribalismo che ricercava la purezza, la lontananza, la fuga e che, in quanto tale, proponeva il mito — per dirla con Zolla — dell’uscita dal mondo e dello stupore infantile, alla ricerca delle proprie radici, del proprio essere spirituale. Ancora una volta, quindi: dell’individualismo, che poi è sempre alla base della mistica orientale che la contro-cultura americana sembrò accettare senza pregiudizi ma tra mille paradossi.

 

 

… who bared their brains to Heaven under the El and saw Mohammedan angels staggering on tenement roofs illuminated…

 

 

 

Il rovente panorama letterario statunitense degli anni ’60 nasce sulla scia del romanzo beat, sul terreno della critica alle istituzioni e della denuncia del disagio e del malessere che riguarda gran parte della nazione. L’affresco totale, globale, disperato del grande “posto nella mente” (appunto…) che è l’America di “Little Big Man” di Berger o di “Last Exit to Brooklyn” di Selby, ritorna fortissimo anche nel cinema.
Franco La Polla indica quale sia stata la vera, reale qualificazione caratterizzante il prodotto letterario (Kerouack, ma molto prima Lee Masters, Hawthorne, Twain, Whitman) e cinematografico “affrescale” americano (tutto Altman, ma anche il britannico Jack Clayton di The Great Gatsby, e poi il Martin Scorsese di Boxcar Bertha, Coppola, e Bogdanovich, ecc.): innanzi tutto il fatto di essere prodotto non alternativo ma “sostitutivo”, completo, e che “copra la maggior gamma possibile di qualificazione caratterizzante”, ed in secondo luogo, quello di presentare e mettere in atto quella dissoluzione del personaggio, ricercata fortissimamente anche dal nuovo cinema americano degli anni ’60, nella costruzione di anti-eroi (ebrei, indiani, neri) o nell’assenza del personaggio (La Polla cita “Trout Fishing in America“, di Brautigan, dove il personaggio sarebbe “la trota”, ma molto più verosimilmente l’America stessa), che giustifichi tramite la propria assenza (dei veri e propri “personaggi cometa”) la presenza dell’affresco, della totalità, della globalità del quadro .

Spostandoci in campo teatrale, il Paradise Now! del Living Theatre e dei suoi attori-non personaggi decreta il fallimento dell’esperimento di Beck e Malina contro l’Ordine Estetico. Ancora una volta, è l’insuccesso: la Rivoluzione (estetica, culturale, politica…) non c’è, non è mai stata. Il risultato è solo un’alternativa alla Rivoluzione stessa. Le avanguardie propongono la commistione e il superamento delle forme di espressione artistica, nella pratica forzata dell’happening e dell’event, nell’Off-Off Brodway e nel Neo-Baroque Theatre di Kaprow, Oldemburg, Dine ecc.

È in una tale, spezzettato tourbillon mediale, culturale e artistico che la critica americana e francese scopre che il segno è lasciato in profondità, invece, da Roger Corman, tycoon del nuovo cinema indipendente americano.
RC infatti sta, proprio in quegli anni, diventando il punto di riferimento e di svolta del cinema americano grazie alla sua grande capacità di lavorare sul linguaggio e sui generi del cinema classico. Lo studio dei fondamenti linguistici elementari, abbinato alla coscienza radical e alla visione realista e pessimista (si parlò di “realismo pessimistico” anche per la linea politica estera più longeva e vincente negli States, quella voluta da Henry Kissinger) fanno di Roger Corman il regista-padre per tutta la schiera di autori indipendenti americani da allora in poi di maggior successo (Coppola, Scorsese, Bogdanovich, Demme, Hellman, Hopper, Dante, Arkush, Bartel, Rothman ecc.).

Il segno è importante e profondo perché il cinema di Corman è sin dalle origini cinema dei gruppi, solitamente di giovani.Non personaggi veri, dunque, ma gruppi di giovani, a sostegno d’una reale volontà di coralità dell’autore, che è volontà affrescale e che fa del cinema di Corman un esempio di cinema che per certe caratteristiche potremmo definire “classico” (non in senso casettiano ma, per capacità affrescali, vicino a quello del classico assoluto: azzardo, H. Hawks; basta pensare a Air Force, film nel quale, attraverso la rappresentazione del cameratismo militaresco e virile dei componenti dell’equipaggio aereo, Hawks delinea una straordinaria gamma di sfaccettature di caratteri umani nazionali). Alla tendenza letteraria “moderna”, invece, della quale si è accennato, Corman non è interessato a fare diretto riferimento, ma alle linee direttive di questa si adegua proprio nella ricerca della dissoluzione del personaggio nel quale è stata, per contro, innestata la rabbia, il disagio, l’essere perduto e ribelle dei giovani americani della nuova generazione. Dissoluzione e rinnovamento della forma e dei metodi per fare cinema, quindi, attraverso il recupero di forme classiche: il metodo è, ancora una volta, radical and conservative, definizione sincera del carattere dello stesso Corman, che ci proviene da sua moglie Julie.
L’integrità del personaggio, che diviene ovvia materializzazione dell’io — narrante, concretizzazione dello strumento atto a disporre gli accadimenti, si conserva solo in Vincent Priceche però è il divo in assoluto, in eccedenza, direbbe Carmelo Bene, teatrale, istrione, superlativo quanto controllato e aristocratico nei film poeiani. Per il resto abbiamo i gruppi, ed i personaggi perdono totalmente significato (a fatica, infatti, ricorderemo i nomi dei personaggi di film di Corman che non siano quelli altisonanti e nobili dei film poeiani).

Si possono indicare, così, vari tipi di gruppi che sono protagonisti delle storie narrateci da Corman:

a) gruppi giovanili a bordo di bolidi; per la maggior parte si tratta di delinquenti o sbandati motorizzati (soprattutto motociclisti): vedi Teenage Doll, The Young Racers (1962, I diavoli del Gran Prix), The Wild Angels (1966, I selvaggi), alle prese con disoccupazione, frustrazione, alcolismo, devianza sessuale;

b) gruppi di giovani artisti falliti, o di beatniks, che hanno fallito l’aggancio con una dimensione umana di successo e di equilibrio e che quindi si presentano come alienati, nel tentativo di rifugio nel Tempo Sacro, nel “tempo fermo”. Tra questi ricorderei: A Bucket of Blood (1959), The Trip (1967, Il serpente di fuoco) e il film sull’estetica del combattimento nel cielo di Von Richtofen and Brown (1970, Il Barone Rosso);

c) gruppi di guerriere e guerrieri pop-mitologici, come le vichinghe di The Viking Women and the Sea Serpent (1957, La leggenda vichinga) o i cittadini di Thenis contro il tiranno, guidati da Atlas (1960, Atlas, il trionfatore di Atene);

d) gruppi di sopravvissuti — quindi neoprimitivi — all’olocausto nucleare che c’è stato, come i personaggi in lotta per la donna e la discendenza di The Day the World Ended (1955, Il mostro del pianeta perduto) ma anche The Last Woman on Earth (1960), Prehistoric World-Teenage Caveman (1958), senza dimenticare Gas-s-s-s… Or It Become Necessary to Destroy the World in Order to Save It (1970), film della palingenesi che vede come unici sopravvissuti al massiccio uso di gas letali e militari i giovani;

e) gruppi appartenenti alla comunità scientifica in lotta — per evitare la catastrofe — contro l’invasore spaziale o i mostri, animali e uomini atomizzati dalle radiazioni di qualche esperimento militare di tipo nucleare (profetici e realisti, date le sconvolgenti rivelazioni del Dipartimento di Stato americano); o ancora, i mostri che nascono a causa di interventi biogenetici, come accade in It Conquered the World (1956), Attack of the Crab Monsters (1956) e Frankenstein Unbound (1990, Frankenstein oltre la frontiera del tempo );

f) gruppi di gangsters, fuorilegge che l’autore presenta con piglio psicoanalitico e derisorio, nel presunto rispetto della Storia pur facendosene beffe, deformandone la figura per la loro vigliaccheria e per ciò che realmente si cela psicologicamente dietro la loro violenza, come accade in The St. Valentine’s Day Massacre (1967, Il massacro del giorno di San Valentino), The Creature from the Haunted Sea (1960), Machine Gun Kelly (1958, La legge del mitra) , I, Mobster (1958, La vita di un gangster) e Bloody Mama (1970, Il clan dei Barker);

g) gruppi di galeotti e/o eroi di guerra (alla Sven Hassel, per intenderci), sin dal primo film alla cui regia Corman è accreditato, e cioé Five Guns West (1955, Cinque colpi di pistola ), eroi che ritornano quasi eguali a se stessi con gli eroici capitanati da Raf Vallone in The Secret Invasion (1964, Cinque per la gloria); in Ski Troop Attack (1960), da cui derivano la dirty dozen di Aldrich, le “aquile” capitanate da Burton in Where Eagles Dare (1969, Dove osano le aquile), e i Kelly’s Heroes (1970, I Guerrieri) di Brian G. Hutton, tutti esempi del cinema d’eroi americano e inglese (vedi anche The Devil’s Brigade, 1968, La brigata del diavolo , di Andrew McLaglen, GB);

h) gruppi di donne evase, fuggiasche, ribelli che inaugurano il genere W.I.P. (Women In Prison), come per Swamp Women, del 1955; oppure le giovani delle gang femminili delle Vaudelletes, delle Vedove Nere e le “ragazze del circolo universitario”, rispettivamente di Teenage Doll (1957) e Sorority Girl (1957). Tutte queste, più genericamente, sono espressione della figura del capovolgimento, della rivoluzionaria, della “donna con pistola”, della “donna fallica” di cui parlano Paul Willemen e David Will in “Roger Corman. The Millenic Vision” riprendendo il concetto del “phallus trickster” (imbroglione del fallo) che fu dell’antropologo E.R. Leach (in “Rethinking Antrophology“, ad esempio).

L’elenco potrebbe, tuttavia, presentare altri tipi di gruppi e comunque non vuole porsi come definitivo. Le tematiche, dopo tutto, si intersecano e si compenetrano ed è molto difficile — anzi, per certi versi strumentale — pretendere di distinguere la bloody mama Barker dalle donne fuggitive e ribelli delle gang. D’altro canto Teenage Doll è un titolo che torna necessariamente in almeno due dei raggruppamenti previsti, senza che per questo la cosa ci crei troppi problemi metodologici e di coscienza. Come dice Federico Chiacchiari (in “The Raider of the Lost Horror“, contenuto in “Corman 1“, catal. retrosp. Bergamo Film Meeting 1991, a cura di Emanuela Martini,pag. 63.)

“…Due decenni prima di Spielberg e Lucas, Roger Corman ha mixato insieme cinema, fumetto, fotoromanzo, rock’n’roll e letteratura “bassa”(horror, gialla e di science-fiction) con i temi di quella che sarà la “cultura giovanile” degli Anni Sessanta, cioé i devianti, i voyeur e lo sguardo, la società claustrofobica, le droghe, la libertà sessuale…”, e lo ha fatto continuativamente, in maniera tale che risulta difficile categorizzare tematicamente, e per generi, i suoi film.

Ci proviamo, dunque.

Immagine articolo Fucine MuteIl percorso prevede per forza un punto di partenza e uno d’arrivo. All’inizio dei gruppi c’è quella Comunità espressa dalla famiglia, dal villaggio, dal piccolo centro urbano che vuole tra gli esseri umani che ne fanno parte l’unione naturale e ininterrotta, la solidarietà diffusa e solida. È il caso dei Barker, e di tanto cinema dell’epopea rurale americana, con i suoi scontri e le sue atrocità — e del Sarafian di The Lolly Madonna War (1972, E la terra si tinse di rosso), ad esempio, o di Scorsese in Boxcar Bertha (America 1929: sterminateli senza pietà) — e di molto cinema gangsteristico classico (ovviamente Le Roy, Wellman, Hawks), dove il conflitto con il sociale deriva dalla trasformazione poderosa, dal sopraggiungere della città, della Società  dove alla solidarietà si sostituisce lo scambio, all’unità la diversità, all’affetto il confronto competitivo, antagonistico, e la logica della sopraffazione violenta e criminale. Il punto d’arrivo, innegabilmente, è lo stesso nonostante le strade siano due: da una parte c’è il salto di qualità dei vari Piccolo Cesare — Scarface — Capone, Dillinger, Bonnie e Clyde (dalla povertà al Potere, alla Ricchezza, o alla fama o addirittura al Mito), e dall’altra la fuga disperata verso l’annientamento e la rimozione degli Hell’s Angels cormaniani, o la rabbia giovane dei due protagonisti della folle corsa all’omicidio nelle Badlands (1973, La rabbia giovane) di Terrence Mallick.

A stabilire tutti i record di incassi, e a fissare il nuovo mito cinematografico/la nuova forma cinematografica sono, tuttavia, i film (e saranno innumerevoli…) che abbinano l’elemento giovanile al dinamismo cinematico e alla libertà violenta, arrogante e dissipata sulle due ruote. The Wild Angels dà il via al nuovo filone motoristico americano.
Prima considerazione: il concetto di “gerarchia” o di “autorità” viene qui rigorosamente rigettato dai personaggi dei gruppi cormaniani e a loro non appartiene alcun concetto d’autorità. È ciò che accade, ad esempio, nel mondo del lavoro (ecco perché, all’inizio di The Wild Angels, assistiamo al licenziamento di Loser), o nel rapporto conflittuale e generazionale con i genitori (vedi il muro di incomprensione che c’è tra Sabra e sua madre in Sorority Girl). Questi personaggi, tuttavia, ricreano nei loro gruppi una struttura gerarchica, verticistica e alternativa. Gli Angels, ad esempio, rispettano ciecamente i ruoli che il nuovo gruppo, la gang o meglio, il cartello ha assegnato ad ognuno di loro.

In The Wild Angels, la figura del capo, che è detentrice della forza fisica, della personalità più forte, della capacità decisionale, è incarnata dall’Heavenly Blues interpretato da Fonda la cui parola è legge assoluta, e lo stesso schieramento dei motociclisti, nelle posizioni fisse che caratterizzano paramilitarmente la loro continua transumanza, lo evidenzia chiaramente. Ancora una volta, la fuga dal sociale confluisce nel sociale, e la “nuova comunità” non è mai alternativa alla prima ma solamente espressione di rapporti di forza che la prima vorrebbe rimuovere, nascondere. Il clan, la tribù rinascono dal crollo della famiglia, e dallo sguardo imbarazzato e divertito del bambino sul triciclo, rimproverato dalla madre nelle prime scene del film per il suo tentativo di fuga. In Corman “la rivolta… è contro la repressione socio-culturale delle pulsioni, delle aspirazioni infantili divenute poi adolescenziali…” (“Diario di California” di Edgar Morin, pag. 105.).

Vediamo, dunque, di analizzare i primi due gruppi di cui si sono enucleate le caratteristiche principali nell’elenco già descritto, tenendo sempre ben presente il concetto che il regista ha voluto esprimere in ognuno dei film presi in considerazione: quello della comune ricerca della libertà individuale attraverso la frantumazione delle tavole della legge sociale, che porta sì ad un sistema nuovo, ma che diviene spesso eversiva, criminale e autofagocitante, imperfetta più del suo modello, degenerata come accade con la legge della consanguineità nel “maso chiuso” dei Barker o degli Usher, autonomi dal mondo esterno o circostante. In entrambi i casi, come si vedrà, si rappresenta il ritorno ad un vecchio tipo di sistema, familiare o tribale, perdente perché superato, avversato in quanto infantile, non sociale.

La comune sorte del gruppo cormaniano di giovani è il tentativo di fuga dalla Storia. Il destino d’ogni sforzo per il rinnovamento al di fuori della Storia è la sconfitta. Con ciò, Corman non nega il valore della ribellione al sistema, ma come ha fatto nei confronti dell’industria del cinema, afferma la necessità del superamento delle vecchie strutture attraverso il mantenimento delle stesse.

a) Sui “chopper”, alla ricerca d’una via di scampo.

“Non c’è un posto dove andare”.
(Heavenly Blues — Peter Fonda in The Wild Angels ).

1947. I ragazzotti ubriachi d’un club motociclistico californiano (Corman dice che erano già Angels…) entrano ad Hollister, piccola e tranquilla cittadina vicina al luogo del raduno annuale del”capitolo” della zona. Alcuni di loro, particolarmente fuori di testafanno irruzione nei ristoranti e nei locali del posto, portando il panico tra la popolazione, certamente poco abituata ad un tale casino. Il racconto su Life non si fa attendere, e dopo una settimana appare il servizio su quei giovani che Frank Rooney avrebbe poi descritto nel suo resoconto romanzato dei fatti di Hollister per la rivista Harper’s, col titolo “The Cyclists’ Raid“. Fu Stanley Kramer a decidere di farne un film e ad affidarne la regia a Laszlo Benedek.

Nello stesso anno, il 1953, il comitato della “House Un-American Activities” interveniva citando in giudizio l’autore del racconto originale.
Sto ovviamente parlando del film che ha dato il via all’avvento del motociclista fuorilegge, ribelle e giovane nel cinema americano. Il film doveva intitolarsi “Hot Blood”: divenne poi The Wild One (Il selvaggio)
(si veda, a questo proposito, la magnifica cronaca dei fatti in “I film di bikers”, di Greg Hinderycks, contenuto in “Innamorati e lecca lecca. Indipendenti americani anni’60“, a cura di Emanuela Martini per Lindau).

Il salto per arrivare a Roger Corman, tuttavia, è piuttosto lungo.
Dice Corman nella sua autobiografia (R. Corman — J. Jerome, “How I Made a Hundred Movies in Hollywood and Never Lost a Dime“, ed. Random House, Inc., New York & Random House of Canada, 1988, Toronto):

“Mi stavo portando al largo, lontano dalla corrente hollywoodiana principale; l’istinto del filmaker, come le mie posizioni in politica, stava divenendo sempre più radical”.

È il momento della decisa presa di posizione politica, del cinema “liberato”, di un cinema completamente diverso da quello proposto da The Wild One, che Corman reputa “vuoto di senso, gratuito, ma soprattutto… enormemente invecchiato”.
Dopo le difficoltà incontrate con un film tanto anomalo e coraggioso, quanto bello come The Intruder (1960, L’odio esplode a Dallas), e le titubanze che derivarono dal buon successo di critica ma dallo scarso incasso del film, Corman decide, a distanza di anni, di tornare al più freddo, obbiettivo e lucido realismo e lo fa riprendendo e dando nuovo vigore al genere JD (juvenile deliquency) che era stato di The Wild One ma anche di Highway Dragnet (1953) di Nathan Juran (prodotto da Corman), o di Teenage Doll (realizzato da Corman), un genere che abbinava il discorso sulle tematiche giovanilistiche con il senso di ribellione e la criminalità giovanile — si veda, ad esempio Reform School Girl (1957) di Edward Bernds e The Cry Baby Killer (1958), prodotto da Corman per Allied Artists, con la firma di Jus Addiss, film che ha lanciato Jack Nicholson — .

Immagine articolo Fucine MuteDi questo vecchio-nuovo filone, di volta in volta e soprattutto nelle vesti del produttore, Corman avrebbe approfittato con sottogeneri di successo tipo women-in-prison (The Big Bird Cage, di Jack Hill e Caged Heat di Demme), o wild racers, dove ai bikers si sostituiscono le gang di automobilisti, come in Hot Car Girl (1958, Giovani Delinquenti), di Bernard L. Kowalski, T-Bird Gang (1958), di Richard Harbinger , o The Wild Ride (1960) di Harvey Berman, tutte produzioni cormaniane.
È il momento, dunque, di The Wild Angels (1966, I selvaggi), costato 360.000 dollari per un incasso di 25 milioni circa (il dato proviene da “The Films of Roger Corman“, di Ed Naha, pag.64). The Wild Angels ebbe l’attenzione di Variety, del New York Times, di Newsweek e di molte altre testate importanti; sul film i pareri sono contrastanti e spesso fortemente marcati dal punto di vista ideologico, tutt’altro che teneri con il regista di Detroit, per il quale, comunque, è giunto il momento della visione obbiettiva, attraverso la quale gli esistenti e i fatti della storia derivano dal collage di frammenti della realtà bruta, gli Angels sono realmente gli Hell’s Angels di Venice e il film è l’opera che deriva dall’averci lavorato in mezzo, assieme a loro, quasi si trattasse di un americano cinèma vérité fatto di sbronze, sesso, motori, perversione.

Gli Altri.

Corman li descrive senza assumere le posizioni moralistiche che erano state del film di Benedek. Dipinge gli alienati antieroi delle motociclette customized così come li ha conosciuti la prima volta, ripresi da una foto della rivista Life apparsa nel gennaio del 1966, mentre gli Angeli si recano al funerale di uno dei loro membri, cosa che tornerà efficacissima in The Wild Angels e che sarà tra le più belle del film. La scena finale del funerale, con la lunga colonna di moto a passo d’uomo, è momento determinante: il funerale, infatti, rappresenta con il gioco (che nel film si esplica nell’esercizio del sesso e della lotta/caccia) l’unica occasione ritualizzata di massima necessità sociale che lo spettatore può cogliere tra gli Angeli. È il rito di compensazione che deve ristabilire la solidarietà reciproca, che è necessario dopo che un membro dell’organismo sociale — che è la gang — si è spento nel momento della massima esuberanza virile, di massima vitalità.

Scrive Emanuela Martini che gli Hell’s Angels, belli e giovani-quasi tutti, e arroganti, ignoranti, quindi frustrati, violenti, con le insegne naziste (calottine della Wermacht, swastikas, elmetti prussiani, croci uncinate ecc.ecc.) sono il ritratto semi-documentaristico di loro stessi, e cioé d’una gang cercata in tutta la città di Los Angeles, incontrata per caso ed assunta in blocco al Gunk Shop sulla Western Avenue. La sceneggiatura — “la storia degli Angeli e non la prospettiva della città su di loro”, come dice Corman — è frutto del lavoro di Chuck Griffith e della successiva rilettura di Peter Bogdanovich, che fu anche assistente alla regia del film, nonché il bersaglio delle ire di quegli Hells Angels, che stufi di obbedire a Roger, lo picchiavano per sfogarsi con “la seconda persona più importante che avessero a disposizione, che non fosse Roger”.
Attraverso The Wild Angels corre la storia del cinema americano moderno, quella dei ribelli in comunità, ed è davvero possibile tracciare una linea immaginaria che parta da The Wild One e passi per The Wild Angels e Easy Rider , Skorpio Rising , The Wild Bunch (1969, Il mucchio selvaggio), Boxcar Bertha (1972, America 1929: sterminateli senza pietà) e Sugarland Express per arrivare a The Warriors (1979, I guerrieri della notte). I ribelli qui sono branco, segno fondamentale per la costruzione del linguaggio pop e moderno. Il nuovo linguaggio porta alla scoperta di un destino comune, di una comunanza essenziale tra esseri umani. Il messaggio proviene dal solito presupposto: l’inutilità del tentativo di fuggire la Storia e il suo ciclo. Come in Last Woman on Earth , o in Sorority Girl , e in Bloody Mama. E in The Red Baron and Brown. O meglio: come in quasi tutti i film di Roger Corman.

Attraverso l’odio, la violenza, la brutalità, il cinismo, la perfidia, Corman mette in luce il mostro che vive in ciascuno di noi…

Così scrive Turroni su Filmcritica, recensendo il film: in realtà non c’è nessuna indulgenza, nessuna simpatia o condanna nei confronti dei giovani motorizzati e selvaggi, né la volontà di costruire il mito, così come invece farà Hopper con Easy Rider. La coerenza tipica dell’auteur schiaccia ogni spunto spettacolaristico, lasciandoci tuttavia alcune scene bellissime di corsa in motocicletta o di orgiastico sfogo, che non appaiono mai gratuite, mai esibizione. La trama:

Immagine articolo Fucine MuteHeavenly Blues è il capo d’una gang di motociclisti fuorilegge di Venice, in California. Il suo amico Loser è tremendamente incazzato per esser stato derubato della moto, che sembra esser divenuta preda d’un gruppo di messicani di Mecca. Fissato il premio (una scopata con Mama Monaham, la più corpulenta delle tante “sdraie” del gruppo…) per chi arriverà primo alla cittadina del deserto, sede della gang dei messicani, gli Angeli partono alla ricerca del bolide sottratto. Una volta rintracciati e picchiati i ragazzi messicani, il gruppetto di Angels si imbatte in un ostacolo imprevisto: due cops che intervengono. Loser ruba una moto della polizia e viene inseguito in una lunga e avvincente corsa tra le colline da uno dei due poliziottimotociclisti, che gli spara colpendolo un attimo prima di finire fuori strada, in un burrone. Loser, ferito, viene arrestato da altri poliziotti e portato in ospedale. Gli amici decidono di provare il tutto per tutto e di rapirlo dall’ospedale per restituirlo alla libertà, nonostante le sue condizioni siano davvero critiche. Mentre mettono in atto il loro proposito vogliono stuprare un’infermiera, ma Blues interviene.
Senza le cure mediche Loser muore. Gli Angels decidono di seppellirlo nella sua città. Durante il sermone, il prete officiante il funerale decide di rimproverare i bikers e prova a cambiarne le convinzioni più radicate. Blues, che in quanto capo è preso principalmente di mira dal religioso, decide di trasformare la cerimonia in un orgia. È un ribellarsi di fronte ad argomentazioni di certo più solide delle sue. Poi gli Angels si avviano verso il camposanto, in fila, sulle loro moto, mentre si vanno formando due schiere di cittadini inferociti. Sarà un bambino a lanciare la prima pietra, ed a scatenare la folla. Gli Angels scappano, mentre Heavenly Blues, che ad un tratto, drammaticamente, ha capito tutta la futilità insita nel suo e nel loro modo di vivere, decide di rimanere accanto alla salma dell’amico sino all’arrivo della polizia.

Ogni ammiccamento, ogni mito ribelle, viene dimenticato; nessun messaggio politico si nasconde tra le righe, nessun sogno ideologico scorre nelle vene di The Wild Angels : nessuna morte eroica ci riempie il cuore. Non c’è nessun grande amore (le donne sono solo un oggetto di piacere, ed anche la divetta Nancy Sinatra/Mike scompare nell’affresco…). Il sentimentalismo di maniera, con le donne, è cancellato. Ogni immagine di dolcezza, è abbandonata: ricordiamo solamente la smorfia di dolore e disperazione di Diane Ladd/Gaysh al funerale del proprio uomo. Siamo ben lontani da ciò che sarà per Easy Rider (1969) di Dennis Hopper, film manifesto dell’utopia on the road pacifista ed anarchica, eppure compromesso con il formalismo decadente che, invece, Corman tenta di rimuovere. In The Wild Angels non troviamo l’estetismo del film di Hopper, che pure è regista cormaniano per origine artistica e per tematiche. L’unico obiettivo di Corman è quello di descrivere la realtà di questi dropouts, senza voler esserne filtro borghese alla visione. Corman è già, per rigore ideologico, il Geoffrey Wright di Romper Stomper (1992).

spanu-8.jpg (9377 byte)La condanna degli Angels è tutta nella constatazione della loro sconfitta. Così come Corman ha detto in sede di conferenza stampa alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia del 1966, la violenza degli Hell’s Angels, la necessità di essere liberi in qualsiasi cosa facciano, il rifiuto della società contemporanea e la fuga continua lungo le strade americane sono tutti aspetti d’una reazione all’impossibilità di far parte di quella stessa società. La fuga, il rifiuto, l’oltraggio prevedono la necessità dell’imposizione d’una disciplina inconsciamente desiderata, e la coazione, quindi, a darsi una struttura sociale e gerarchica ben definita.

Il messaggio che scaturisce non può essere considerato ideologicamente: come dice Corman, non c’è condanna o apologia di fascismi, capitalismi, comunismi, democrazie o cose simili:

“Queste persone sono il prodotto della società in cui vivono…Vedendo queste persone e cercando di capire che cosa fanno e cosa vogliono fare, anche se si tratta di ribelli che si lanciano contro la società, si possono leggere gli aspetti della società in cui anche queste persone vivono…Il punto centrale è la società moderna e tecnologica. L’uomo di oggi vive in una società dove sembra non vi sia lavoro per chi non è specializzato…Eppure la società non si accorge di questo segmento di persone che si allontana dalla società stessa pur continuando a viverci, perché fatto di semplici, non intelligenti, ignoranti, non specializzati…Queste persone rappresentano la grande parte della nostra società, della società contemporanea, e nello stesso tempo non possono farne parte a causa delle leggi che detta la stessa società …”.

La posizione intellettuale è già chiara: l’osservazione intelligente dei fatti del mondo determina la visione, che è finalmente liberata, priva di vere e proprie considerazioni ideologiche; il film inizia con un licenziamento: l’abbandono del posto di lavoro è la traccia del disagio, dell’incapacità di adattarsi, di sopravvivere convenzionalmente all’idea di economic growth, di crescita economica senza limiti cui sembrava strettamente connessa una società che si pensava avrebbe abolito le classi garantendo mobilità sociale a tutti i cittadini. Heavenly Blues (il nome del personaggio, scelto da Peter Fonda, sta ovviamente per un miscuglio di droghe) è il capo d’un gruppo di balordi, che nella visione cormaniana appartiene a quei 40 milioni di americani disagiati e in ribellione strisciante o evidente nella civiltà del benessere, e dei quali si parlava già allora (si pensi, che so, a “The Other America” di Michael Harrington). La sua scoperta (quella di Blues) è la scoperta traumatica — ma è generalmente la scoperta di tutti i personaggi delle teenagers gang – che non c’è più un posto dove andare.

Sin dall’inizio il progetto The Wild Angels ha portato innumerevoli problemi a Corman ed alla produzione. Sin dall’inizio, ad esempio, esisteva il problema del compenso dei motociclisti per l’utilizzo del loro nome. Nessuno di essi poteva accampare diritti di proprietà, e tuttavia l’American International Pictures decise — saggiamente, visto lo sviluppo degli eventi che avrebbero visto gli Angels chiedere, anche tramite minacce gravissime ai danni dello stesso Corman, la ricompensa di due milioni di dollari — di eliminare del tutto il nome del gruppo dal film: così la pellicola divenne, da Hell’s Angels on Wheels, prima Angry Angels, poi All the Fallen Angels ed infine The Wild Angels. Tutti i riferimenti al fatto che i personaggi principali fossero Hell’s Angels vennero cancellate dalla sceneggiatura.

Charles “Chuck” Griffith, vecchia conoscenza della factory cormaniana firmò una prima sceneggiatura.

“Scrissi The Wild Angels quasi come un film muto. Non c’erano più di 120 linee di dialogo. La mia storia metteva in parallelo il poliziotto motociclista e i bikers, evidenziando come tutti fossero mossi dagli stessi stimoli…”.

Corman evitò accuratamente le polemiche che ne sarebbero venute contattando Peter Bogdanovich e dandogli il compito di riscrivere la sceneggiatura. Il risultato fu il film prototipo per l’intero genere motociclistico a venire: le riprese sulle strade, utilizzando il grandangolo (un 18 o un 25 mm) diverranno tipiche per innumerevoli autori del genere. Nel solo 1967, dopo The Wild Angels vennero The Rebel Rousers (1967, Il risveglio del ribelle) di Martin B. Cohen, Hell’s Angels On Wheels (1967, Angeli dell’Inferno sulle ruote) di Richard Rush, Born Losers (1967, Violence) di T. C. Frank, Wild Rebels (1967, Il credo della violenza) di William Grefe e il Devil’s Angels (1967, Facce senza Dio) di Daniel Haller, altro collaboratore di Corman (film questo che si basava su un’altra sceneggiatura di Griffith, e che presentava John Cassavettes nella parte di Cody, capo degli Skulls).

Immagine articolo Fucine MuteIl ciclo dei bikers reinventato rese estremamente bene dal punto di vista finanziario: nel 1968 ci fu la svolta al femminile (anche questa estremamente cormaniana). Venne prodotto The Mini-Skirt Mob (1968, Senza sosta) di Maury Dexter, e nel 1971 arrivò il cattivissimo e warholiano She Devils on Wheels, prodotto e diretto da H.G. Lewis, dove la violenza sulle due ruote è descritta nei colori saturi e kitsch del trash fotograficamente vicino al tremendo Pink Flamingos. Nel 1970 furono prodotti altri film di successo: l’incredibile Satan’s Sadists, e Hell’s Bloody Devils di Al Adamson, Angels Hard as They Come di Joe Viola, ma anche Angel Unchained (L’angelo scatenato) di Lee Madden, film con il quale si inizia a porre in contrasto Hell’s Angels e hippies, cosa che poi definitivamente distrusse qualsiasi tipo di “status” controculturale che il tutto il cinema di quegli anni aveva attribuito agli Hell’s Angels (anche a causa delle immagini rivelatorie del film documentario dei Rolling Stones, quel Gimme Shelter dei fratelli Mayles, dove le barbare tecniche di sicurezza messe in atto dagli Angels ad un concerto degli Stones vennero riprese per la prima volta).

È giusto ricordare anche alcuni film che possono aver influenzato il Roger Corman di The Wild Angels, come ad esempio l’eccezionale Motorpsycho! (1965) di Russ Meyer, dove la piccola gang di motociclisti assassini stupra e uccide le tettone che trova sulla propria strada, o anche Skorpio Rising (1963) di Kenneth Anger, film che Corman, all’epoca di The Wild Angels, sosteneva di non aver visto (ma c’è da credergli?).

La scena n. 24 di The Wild Angels presenta uno scontro verbale tra Loser, Blues e un operaio. Motivo dell’accesa discussione sono le croci celtiche e le svastiche presenti sulle divise dei due Angels. L’operaio rimprovera i due giovani di non conoscere il significato di quei simboli:

“E che sarebbe quella croce di ferro? Sei uno di quegli angeli da strapazzo?…Be, se foste stati ad Anzio sapreste cosa vuol dire quella ferraglia, e non andreste in giro ricoperti di croci e svastiche…”.

E poi, alla scena 30, ancora:

“Li facevamo fuori, i tipi come voi ricoperti di quella sporca ferraglia…”.

I due Angels, di fronte ad un uomo che li deride infuriato non hanno il coraggio di replicare. L’operaio è l’unico di fronte al quale gli Angels indietreggeranno . L’uomo che li affronta è il “Padre” che non capiscono, ma per il quale nutrono rispetto e timore, l’uomo cioè che ha vissuto l’esperienza della guerra e del lavoro, che conosce realmente i significati della simbologia e delle insegne degli Angels, la cui fermezza nel condannare i “cattivi miti” dei due bikers deriva dalla consapevolezza dell’ ipocrisia e dalla colpevole ingenuità nell’utilizzo di questi simboli. Lo scontro fisico non c’é probabilmente perché Loser e Heavenly Blues intuiscono la ragione dell’operaio nel condannare il segno della loro ribellione, che è ribellione non sincera. Se di fronte al pastore della predica finale la rivolta diverrà l’ammucchiata annichilente, iconoclasta e deicida, e se nella “casa del Padre” la brama di libertà assoluta e cieca porterà alla simbolica morte del predicatore, che và a finire nella bara perché questi è solamente ciò che rappresenta, e cioé, ancora, il “Padre” (all’invocazione del prete:”…Figlio mio, io…” Blues replicherà immediatamente con brutalità: “Non sono figlio tuo!”), è vero invece che con l’operaio, nel suo essere simbolo stesso della comunità, il rifiuto e il gesto di rivolta non può essere così netto. Il predicatore non offre dialogo, ma condanna e sottomissione, che proviene da verità che non scaturiscono dalla sua bocca, ma che bensì si pongono come legge assoluta, e che quindi non possono essere accettate, né comprese se non nella sottomissione totale. L’operaio, come i cittadini del paesino della scena del funerale, appartiene invece a quella società che non transige sulla ribellione dei figli, ma che non riesce a soffocarli: la loro risposta ai giovani in motocicletta è la “cacciata” che avviene nell’esercizio dell’unico linguaggio che gli Angels capiscono: la violenza. Il rigetto dell’organismo diverso è completo, ma non avvilente come quello del predicatore. Tuttavia Blues, dopo l’esperienza della morte dell’amico, si arrenderà all’istituzione e alla Storia. È proprio l’esperienza della morte (che nel gruppo tribale è ritualizzata) che segna il distacco dalla dimensione infantile della fuga dai vincoli sociali, e che determina la crescita dell’adolescente. Blues, il capo, abbandona il gruppo. La situazione è la stessa in film che hanno segnato un epoca, come in Rebel Without a Cause (1955, Gioventù bruciata) di Ray, o Saturday Night Fever (1977, La febbre del sabato sera) di Badham.

L’urlo liberatorio di Fonda, e la giostra psichedelica e anarchica dell’orgia nella chiesa che segue, si spengono in un batter d’occhio.

“Ecco noi vogliamo essere liberi! Vogliamo essere liberi per…fare quello che vogliamo. Vogliamo essere liberi di andare sulle nostre moto senza essere inseguiti dagli uomini!”.

La ribellione degli “angeli dell’inferno”, come dice lo stesso Blues, è rivolta verso la vita, e ciò che accomuna tutto il gruppo a Loser, che è morto, sta nel fatto che:

“…la vita gli ha fatto sempre pagare il prezzo più alto senza dargli niente in cambio!…”.

La necessità non è nella fuga, ma nel ritorno. Non si desidera la ribellione, la solitudine, la caduta, ma bensì il riassorbimento dignitoso in quella società che li ha esclusi e cacciati, e nella quale la tragedia deriva molto spesso — e Corman ce lo fa ben capire — dalla mancanza di occupazione.

 

The Wild Angels è uno dei film più scarni, rigorosi e dinamici (la macchina a mano incalza e corre, vertiginosa e sgradevole) dell’autore americano. Le corse in moto alla ricerca perenne della frontiera, attraverso le magnifiche brulle vallate e i tornanti di colline blu e livide (quelle stesse descritte da Monte Hellmann) a cavallo delle Harley Davidson sono dipinte nelle tetre tinte marvelliane dei quadri di Frank Frazetta; a noi tutti spettatori che contempliamo la sarabanda di rossi, bianchi e neri, colori artificiali e sporchi d’un nazismo pop, completamente americano (la fotografia è di quel Richard Moore che lavorerà per Huston, Pollack, Rosenberg e Newman), rimane lo stordimento di cui sono causa questi “giovani esseri primitivi, crudeli, selvaggi, molto belli e molto sensuali, ottusi e stupidi…” e inedite “…aperture prospettiche di sconvolgente modernità”(Giuseppe Turroni, “Americana 1“, Bulzoni 1978, pag. 33.) evidenziate, soprattutto, nella tangibile perfezione d’un film che è un’epoca.

(Fine prima parte)

Roger Corman nasce a Detroit il 5 aprile 1926 da William e Ann. Studia tra Stanford e Boulder, laureandosi in ingegneria. Presso la U.S. Electrical Motors di Slauson si impiega come apprendista ingegnere industriale: dopo tre giorni si licenzia.

Dopo un periodo di studio della letteratura a Oxford, e dopo aver avuto la possibilità di diventare un contrabbandiere di macchine fotografiche Leica (tra la Germania e Parigi), o di carichi d’oro (da portare in Iran in automobile), intraprende deciso la strada del cinema. Inizia alla Fox, come fattorino.

corman2.gif (12226 byte)Diventa quasi subito uno script-analyst, lavora per la KLAC TV, poi come agente per la Dick Irving Highland Agency. Dopo una visita al Salton Sea, un lago salato vicino Palm Springs, decide di scrivere una storia da vendere ad Allied Artists. Il film che ne deriva si intitola Highway Dragnet (1952, F.B.I. Operazione Las Vegas) di Nathan Juran. Inorridito dal trattamento riservato alla sua storia, Roger fonda la Roger Corman Production, la prima produzione della quale sarà The Monster from the Ocean Floor (1953), di Wyott “Barney” Ordung.

Ha così inizio la carriera del produttore, che assieme al fratello Gene, in associazione spesso per American International Pictures di Sam Z. Arkoff e James Nicholson, produrrà e realizzerà più di trenta film low budget.

Corman è uno dei padri del nuovo cinema americano. Ha praticato tutti i generi cinematografici, fondato 4 case di produzione, scoperto e lanciato talenti artistici di prima grandezza, come F. F. Coppola, M. Scorsese, J. Demme, J. Dante, J. Nicholson, R. De Niro, P. Fonda, ecc.ecc. Ha firmato da regista una sessantina di film, tra i quali alcuni classici della fantascienza, come Not of this Earth (1956, Il vampiro del pianeta rosso), It Conquered the World (1956), The Wasp Woman (1959), X – The Man with X – Ray Eyes (1963, L’uomo dagli occhi a raggi X); film di rock’n’roll e scontri tra bande giovanili, come Rock All Night (1957), Teenage Doll (1957), Carnival Rock (1957), Sorority Girl (1957, La ragazza del circolo universitario); film di gangsters, tra i quali Machine Gun Kelly (1958, La legge del mitra), The St. Valentine’s Day Massacre (1966, Il massacro del giorno di San Valentino) e Bloody mama (1970, Il Clan dei Barker); horror demenziali, come The Little Shop of Horrors (1960, La piccola bottega degli orrori) e A Bucket of Blood (1959).

corman3.gif (11581 byte)Tra i non addetti ai lavori Roger Corman è conosciuto principalmente per la bellissima serie di film dedicati a Edgar Allan Poe, che cito tutti: House of Usher (1960, i vivi e i morti), The Pit and the Pendulum (1961, Il Pozzo e il Pendolo), The Premature Burial (1962, Sepolto vivo), The Tales of Terror (1962, I racconti del terrore), The Raven (1963, I maghi del terrore), The Terror (1963, La vergine di cera), The Masque of the Red Death (1964, La maschera della Morte Rossa), e The Tomb of Ligeia (1965, La tomba di Ligeia). The Haunted Palace (1963, la città dei mostri) fa parte della stessa serie, ma è tratto da “Lo strano caso di Charles Dexter Ward”, di H.P.Lovecraft.

Corman ha realizzato almeno altri 4 film fondamentali per la storia della New Hollywood: The Wild Angels (1966, I selvaggi), The Trip (1967, Il serpente di fuoco), Gas-s-s-s! Or It Became Necessary to Destroy the World in Order to Save It (1970), e Von Richtofen and Brown (1970, Il Barone Rosso). Attualmente si dedica unicamente alla produzione (con almeno un centinaio di film all’attivo), e vive tra l’Irlanda e gli Stati Uniti.

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