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Cinema

Il cinema inglese e la working class (I)

La working class non corrisponde esclusivamente al proletariato o a quella che noi intendiamo per “classe operaia”, bensì “è formata, genericamente, da tutti coloro che devono lavorare per vivere” (1) all’interno di un’economia di mercato regolata da leggi feroci e basata su un iniquo rapporto tra datore di lavoro e lavoratore. In senso moderno nasce con lo svilupparsi della società dì massa e dei consumi, e cambia con i mutamenti politici ed economici. Cambia anche l’immagine che ha di sé e quella che ne danno i media.
Un sincero interesse verso la working class si afferma solo nel secondo dopoguerra quando i Laburisti sono al governo e il Welfare State è al suo apice. Le tematiche sociali quindi — grazie anche alle politiche sociali e alle agevolazioni economiche a favore delle classi meno abbienti — entrano anche nel cinema in modo più attento che in precedenza. La cultura della working class diviene soggetto dei film. Viene sfatato il mito del “buon proletario” tipico del cinema precedente e, ai temi della fabbrica, degli scioperi e della lotta per la sopravvivenza, si aggiungono quelli del pub e delle partite di calcio, che sono un po’ il Leitmotiv di questo cinema fino ai nostri giorni. I protagonisti dei film non necessariamente suscitano simpatia nello spettatore: non c’è nulla di poetico nella loro vita e spesso niente di eroico nelle loro azioni.

In Gran Bretagna la working class vive la sua condizione di estremo disagio economico-sociale, dovuto anche al ridimensionamento della potenza britannica, con laceranti contraddizioni. Paradossalmente, nonostante le condizioni economiche sempre più precarie, rimane la più fedele alla corona. La coscienza di classe sembra ancora essere privilegio di pochi: bisogna attendere la fine degli anni Sessanta perché emerga in modo più radicale e organizzato.
In generale, una simile mancanza di coscienza di sé, alimentata dalle conseguenti posizioni contraddittorie, è un nodo irrisolto e importante per l’intera società inglese, tanto che Alberto Crespi, in un interessante saggio sulle caratteristiche principali della cultura proletaria nel cinema inglese, sostiene che proprio “questa contraddizione insita nella working class è alla base di tutta la violenza repressa che gli inglesi hanno scatenato negli ultimi quarant’anni”(2). E questa violenza si è vista anche nel cinema. A partire proprio dagli hooligans delle periferie metropolitane che seguono uno sport proletario per eccellenza che viene ad essere pressoché l’unico diversivo a un’esistenza monotona e deprimente. In più di un film viene citato il City, seconda squadra di Manchester, di formazione proletaria, che dalla sua fondazione ad oggi non ha mai vinto niente. A noi può sembrare strano, ma il solo nome del City può commuovere i suoi tifosi, storicamente proletari anch’essi, che, come questa squadra, si sono sempre trovati dalla parte degli sconfitti.

I temi legati alla working class e i motivi ricorrenti in certa cinematografia inglese sono anche altri, come vedremo nei diversi momenti politici e sociali che verranno analizzati nelle righe successive. E altra è la rappresentazione della working class fatta dal cinema nei diversi momenti; anche se, almeno fino alla “British Renaissance” degli anni Ottanta, il binomio cinema inglese/realismo o cinema inglese/classe operaia è più apparente che reale, è più una questione estetica che ideologica (nel senso positivo del termine), è soprattutto, come sostiene Raymond Durgnat, “quel gusto tutto inglese per il sudiciume di questo mondo, delle strutture sociali che stridono e si contorcono le une contro le altre per produrre migliaia di situazioni scabrose…”.
In effetti, la presenza della working class nel cinema inglese è stata quanto mai contraddittoria, tanto che la stessa critica cinematografica inglese passa, con estrema naturalezza, dal considerare lo spirito realistico ed operaista come elemento sincero e fondante del cinema nazionale, al ritenerlo assolutamente fasullo e solo funzionale a determinati momenti storici. Una tale differenza di valutazione è motivata dal fatto che il cinema realista è solo un filone del cinema inglese e, anche al suo interno, ha vocazioni, intenti o pressioni affatto diverse. Nel valutare quindi il cinema realista e in particolare quello sulla working class, è necessario tener conto di come il realismo possa limitarsi a una semplice scelta estetico-stilistica oppure riesca a coinvolgere la sfera politico-ideologica; come possa passare da un carattere di denuncia a quell’atteggiamento pedagogico-paternalista, sempre molto presente nelle istituzioni britanniche; come, infine, possa essere sincero risultato di una tradizione nazionale oppure rivelarsi mera scelta di mercato per differenziarsi dal prodotto statunitense.

Ci sono comunque stati, e ci sono adesso, alcuni autori che, scostandosi da quella che era una tendenza generale, di costume e di opportunità, sono sinceramente e coraggiosamente interessati alle condizioni e alle sorti della working class, facendo dei propri film importanti strumenti di educazione e responsabilità sociale, anche seguendo con tenacia e amarezza quello che ci sembra essere il triste declino (almeno fino ad oggi) della working class britannica, sfumata in una generica e indistinta low class.
Forse può valere un po’ per tutti, l’amara riflessione di Ken Loach, uno degli ultimi “arrabbiati”, quando sostiene che “la coscienza pubblica sembra essersi addormentata… la classe operaia è debole, disorganizzata. Oggi la classe operaia non sale sulle barricate” (3).

Il cinema utile

Fin dagli esordi la working class è stata presente nel cinema inglese, sia come soggetto filmico, che come destinatario al quale l’industria cinematografica intendeva rivolgersi.
In Gran Bretagna le organizzazioni operaie e il movimento sindacale sono stati infatti molto presenti, non solo nel panorama politico e sociale, ma fin da subito nel circuito dell’industria cinematografica, con forme cooperativistiche e con la produzione del cosiddetto “cinema utile”, alternando momenti di collaborazione con le istituzioni, ad altri di forte scontro, qualora l’atteggiamento di queste ultime fosse decisamente strumentale e populistico verso le classi medio-basse.
Già dall’inizio degli anni Venti, la Gran Bretagna attraversa un periodo di pesantissime contraddizioni sociali ed economiche, che culminano nello sciopero generale del 1926 e si risolvono con la sconfitta delle Unions e la paralisi economica conseguente il crollo della borsa di Wall Street. I disoccupati sono più di due milioni, le campagne si spopolano e le grandi città accolgono, nelle loro sterminate periferie industriali, centinaia di migliaia di operai, le cui famiglie sperano nei servizi pubblici e sociali di uno Stato già fortemente assistenzialista.

Il “conservatorismo manageriale” di Neville Chamberlain, le commissioni speciali per l’educazione e l’assistenza e il riformismo illuminato di certi intellettuali, contribuiscono, per ciò che riguarda il cinema, alla nascita del Movimento Documentarista, anche se con scarsissimo approfondimento delle cause di questa grave crisi e senza intenzione di proporre soluzioni concrete. Tutto si risolve nell’uso di un medium (il cinema appunto) che, per sua stessa natura, può arrivare alle masse altrimenti irraggiungibili, sollevarle dal loro abbruttimento morale, nobilitando e idealizzando il loro lavoro quotidiano, e così informarle che “il Governo sta lavorando per loro”. Per molti anni si fa sentire nel cinema questa tendenza ufficiale moralizzatrice, che lascia comunque inesplorato un sofferente continente sommerso.
Fino a metà degli anni Venti, la partecipazione del Governo alla cinematografia era stata minima; successivamente il cinema viene usato per diffondere una politica basata sul consenso, tramite un apposito ministero. Fortunatamente i cineasti coinvolti in questa sperimentazione, nel caso specifico quelli appartenenti al Movimento Documentarista, come John Grierson e Robert Flaherty, hanno ben più alte motivazioni e una forte consapevolezza artistica ed espressiva derivante dalle avanguardie (in particolar modo quella sovietica). Purtroppo l’atteggiamento decisamente paternalistico adottato dal Governo Conservatore verso le classi medio-basse e, genericamente, riguardo alla questione sociale, fa sì che risulti ambigua anche la posizione del Movimento Documentarista.
Grierson stesso, pur insistendo sul concetto di responsabilità del cinema, non è un socialista; piuttosto la sua ideologia è debitrice a un concetto religioso ormai in declino, che ha prodotto un immenso vuoto spirituale. Per lui, il miglioramento dev’essere apportato dallo Stato e da alcune imprese capitalistiche con forte senso civico. è lo Stato a dover modellare le diverse forme di educazione, avendo anche tutto il diritto di trasformare quest’ultima in propaganda. Tutto questo rende, inequivocabilmente, i documentari griersoniani degli ottimi strumenti di propaganda, volti a livellare le differenze e a negare, alla base, la coscienza di classe e le tensioni economiche ad essa sottese. Così le vittime del sistema di mercato diventano eroi…

Queste produzioni, naturalmente, vengono fortemente incoraggiate, per poi passare sotto la guida del Ministero delle Poste e Telecomunicazioni. L’avvento del sonoro è importante non solo da un punto di vista estetico. Si possono far parlare gli operai, si possono sentire i suoni e i rumori dell’Inghilterra industriale. Uno dei primi capolavori in questo senso è, senza dubbio, Night Mail (t.l. Posta notturna), di Basii Wright e Harrv Watt, del 1936: un resoconto del servizio notturno del treno postale da Londra alla Scozia. L’avvento del sonoro inoltre, porta i cineasti ad occuparsi maggiormente di critica sociale — anche se solo per breve tempo — ad occuparsi del problema degli alloggi, della vita in miniera, della miseria dell’Inghilterra industriale.
Intanto sono sempre più pressanti il controllo e l’intento propagandistico del Governo. L’indagine sociale è semplice populismo; celando malessere e ingiustizie, “l’uomo operaio” diventa un eroe da nobilitare.
Negli anni Trenta esiste comunque l’”altro cinema”, fatto da piccoli gruppi ma all’interno di un circuito molto ristretto: un’espressione piuttosto radicale del Movimento dei Lavoratori, che si oppone alle politiche del Governo e al sistema capitalista. Dal canto suo, la borghesia al Governo, controllando un sistema economico basato sulla subordinazione e sullo sfruttamento del lavoro, teme una presa di potere da parte di un partito di lavoratori, visto l’impulso dato dalla rivoluzione del 1917 alle idee comuniste e socialiste in tutta Europa. Questa paura è inoltre accresciuta dallo sciopero generale del 1926 e dalla crisi economica conseguente il crollo di Wall Street del 1929.

Viste le condizioni non è possibile tollerare un’eccessiva libertà di opinione, in particolare in quei media che riescono a raggiungere le masse!
L’atteggiamento e gli esiti della censura si possono dedurre dal rapporto presentato dalla commissione per la censura cinematografica nel 1937: “… non c’è un solo film proiettato oggi nei cinema di questo Paese che abbia a che fare con una delle questioni scottanti del momento.” Come esempio dell’intervento censorio, può valere il film tratto da una famosa opera di Walter Greenwood, Love on the Dole (t.l. L’amore nella disoccupazione, pubblicato per la prima volta nel 1933 e visto come una chiara presa di posizione della working class sull’esperienza generale della disoccupazione e della carestia), che non passa al vaglio della censura nel 1936.

(fine prima parte)

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