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Cinema

Andrew Eaton

Il Cinema inglese: riflessioni e tendenze.

Chiara Barbo (CB): Prima di arrivare al cinema lei ha fatto un percorso comune a molti altri registi e produttori inglesi, un percorso che spiega già molte cose riguardo allo stretto rappporto che tradizionalmente c’è in Gran Bretagna tra cinema, teatro e  televisione.

Immagine articolo Fucine MuteAndrew Eaton (AE): Sì, io ho iniziato a lavorare in teatro quando il teatro permetteva ancora di sperimentare molto, di realizzare idee originali e innovative. Poi sono passato alla BBC e dal 1995, per nove anni, ho lavorato come produttore e regista di documentari e di serie televisive.
Ero già amico di Michael Winterbottom da molto tempo, e nel 1981/82 abbiamo realizzato insieme Family, per la BBC appunto, che ha avuto un certo successo. Sono stati degli anni molto importanti e con Michael ci siamo anche divertiti molto. Ed è questo il bello: io e Michael siamo prima di tutto amici, oltre a condividere le stessa idea di cinema.

CB: Com’è nata la Revolution Films?

AE: Nel 1995 abbiamo fondato insieme la Revolution Films, anche se io ho lavorato anche con qualche altro regista, come Mark Evans, e Michael ha lavorato con altri produttori, come nel caso di Welcome to Sarajevo.
Guardando i film di Michael Winterbottom e vedendo il nome della nostra compagnia, uno penserebbe a delle persone particolarmente alternative, trasgressive. La verità è che entrambi siamo della persone molto noiose, temo. E riguardo al nome Revolution Films, la storia è piuttosto banale perché avevamo pensato di chiamarci “Revelation Films”, ma quando siamo andati per registrare il nome della compagnia abbiamo scoperto che qualcun altro aveva già registrato lo stesso nome così, lì per lì, abbiamo semplicemente cambiato un paio di vocali! Sarà una delusione ma la scelta del nome non ha niente di politico, è stato più che altro un incidente…

CB: Come nasce l’idea di realizzare un film?

AE: Io e Michael lavoriamo insieme. Pensiamo a idee e libri che ci piacciono, in cui crediamo. Cerchiamo di fare il film che a noi piacerebbe andare a vedere.
Io cerco di controllare l’idea del film per tutta la durata della lavorazione, e questo è importante, è sempre qualcosa di tuo. Ovviamente, lavorare ad un film tratto da un’opera letteraria insieme con l’autore stesso del libro è sempre più difficile perché bisogna sempre mediare maggiormente e arrivare a dei compromessi. L’idea non è più solo tua.

CB: Secondo lei, quali sono le caratteristiche principali del cinema inglese contemporaneo? Ci sono delle tendenze comuni?

AE: Credo ci siano due caratteristiche, due tendenze principali. Una è quella che si rifà alla tradizione realista, il cinema di Ken Loach e Mike Leigh principalmente. L’altra è quella che vende all’estero: i film in costume di Merchant & Ivory, I film che si rifanno alla storia nazionale inglese, un po’ epici, come Chariots of Fire, per esempio.
E poi ci sarebbe un terzo aspetto, più legato alla televisione che ha una tradizione fortissima nel nostri paese: il documentario e i docu-dramas.

CB: Lei ha citato Ken Loach e Mike Leigh, registi che nei primi anni Ottanta sono passati, come molti altri, dalla televisione al cinema. È invece Chariots of Fire di Hugh Hudson, il film che, piaccia o no, ha dato inizio alla rinascita del cinema inglese, sia da un punto di vista economico che di notorietà all’estero. Ma com’era effettivamente, secondo lei, il cinema inglese degli anni Ottanta, quello che ha dato inizio alla cosiddetta British Renaissance?

Immagine articolo Fucine MuteAE: Credo che negli anni Ottanta non ci sia stata una vera Renaissance. Negli anni Ottanta noi abbiamo fatto alcuni bei film, o meglio, alcuni registi hanno fatto alcuni bei film, ma abbiamo fatto soprattutto moltissimi brutti film. In realtà, quello che è stato iniziato negli anni Ottanta, è sbocciato, in un certo senso, solo da pochi anni a questa parte. I processi sono lunghi, ci sono voluti dieci anni per maturare un nuovo tipo di cinema.
Negli anni Ottanta ci sono stati alcuni bravissimi e, a mio avviso, importantissimi registi che credo siano, oltre a Loach e Leigh, Neil Jordan, in una certa misura Stephen Frears, e produttori intelligenti come David Puttnam.
E poi negli anni Ottanta la televisione, la BBC e Channel 4 ,nata proprio in quegli anni, hanno fatto un lavoro straordinario, realizzato film, dramas e docu-dramas intelligenti e coraggiosi. Adesso il livello della televisione è precipitato.

CB: Ma qual è stato il reale peso e significato che un certo cinema, quello di Loach, Leigh e Frears, per intenderci, ha avuto negli anni Ottanta?

AE: Quel cinema ha avuto molto peso sui registi più giovani, e forse su un’audience all’estero. Sicuramente non sull’audience britannica che è, per quanto riguarda il cinema e la storia del cinema, assolutamente ignorante. Se tu vai per la strada in Italia e chiedi alla gente se ha mai sentito nominare Fellini o Antonioni, la maggior parte delle persone ti risponderà di sì. Qui nessuno ha idea di chi siano Lindsay Anderson o Tony Richardson.

CB: E il cinema degli anni Novanta?

Immagine articolo Fucine MuteAE: La situazione è molto diversa rispetto al decennio precedente. Per me Trainspotting è, in assoluto, il film più importante e significativo del nuovo cinema inglese: è un film che parla dell’epoca contemporanea, della cultura britannica, bella o brutta che sia; è pensato per un’audience giovane, ed è assolutamente riuscito in tutto questo. Dopo questo film i giovani in Gran Bretagna vanno a vedere film inglesi un po’ più spesso. In parte My Beautiful Laundrette di Frears era stato qualcosa di simile, almeno nelle intenzioni e in riferimento a quel determinato momento storico, ma non aveva avuto molto successo di pubblico. Inoltre aveva incassato molto poco.
Full Monty ha anche qualcosa di tutto questo ma mi sembra si rifaccia, in un certo senso, alla tradizione della Ealing comedy, ha in sè qualcosa della tradizione realista, è abbastanza tradizionale, anche nel modo in cui è girato, intendo. Trainspotting invece è diverso: c’è il realismo della storia raccontata, ma il modo in cui è girato è immaginativo, assolutamente non realista, la tecnica di regia in questo caso risponde alla domanda di evasione del pubblico che, generalmente, non va al cinema per vedere cose che vive ogni giorno, raccontate in modo “tradizionale”. Per quello in Gran Bretagna c’è la televisione, che da sempre ha fatto proprio questo molto bene, ed è seguitissima.
La mia delusione è che, pero’, il cinema inglese oggi è ancora troppo poco coraggioso, non rischia nulla. È abbastanza inconsistente. Di buono c’è che i registi hanno più fiducia, e forse anche il pubblico. Manca ancora la passione…

CB: Quale dovrebbe essere e quale potrebbe essere il ruolo del cinema inglese oggi (se c’è un cinema inglese)?

AE: Innanzitutto sarebbe bene che gli inglesi fossero più interessati al cinema inglese. Che ci fosse più passione sia tra il pubblico che tra quelli che in cinema lo fanno. E più dinamismo. E poi oggi forse il cinema potrebbe riempire il buco che da un po’ di tempo sta lasciando la televisione, che non è più quello che era solita essere. Il cinema inglese ha sempre avuto tre grandi maledizioni: il teatro, la pubblicità e la televisione. Adesso quest’ultima è decisamente scaduta, e in parte anche il teatro, quindi qui c’è la buona occasione.
Il problema con la pubblicità è che è un settore in cui la Gran Bretagna è all’avanguardia. Abbiamo dei pubblicitari bravissimi che guadagano molti soldi, e i giovani preferiscono lavorare nella pubblicità che nel cinema. Ma io sono ottimista riguardo a quello che si può fare con il cinema. E poi il cinema dovrebbe anche far riflettere, pensare. Per esempio, qualche hanno fa abbiamo girato un film in Irlanda, Resurrection man, che ha provocato un profondo e acceso dibattito in Irlanda, e questo è stato importante. Il problema del cinema è che spesso contiene visioni e affermazioni troppo semplicistiche.

CB: E l’industria cinematografica inglese, oggi rispetto a dieci o quindici anni fa?

AE: Oggi ci sono più soldi per fare film. Ci sono le coproduzioni, ci sono i soldi della National Lottery; il governo laburista ha fatto qualcosa anche se non tanto come ci si aspettava, purtroppo. Ma manca ancora l’idea che il cinema sia anche un’ industria, in cui bisogna investire per poter guadagnare. I produttori si aspettano di guadagnare moltissimo con poco, soprattutto dopo lo straordinario successo di Full Monty. Ma quello è stato un caso, un’eccezione. Nessuno se lo sarebbe aspettato. Il prossimo anno sarà difficilissimo in questo senso: non è possibile eguagliare il successo di Full Monty.
Un altro problema è la distribuzione: abbiamo una pessima distribuzione in Gran Bretagna, i film inglesi vengono molto penalizzati, soprattutto da quando non ci sono praticamente più le art houses (n.d.r. i cinema d’essai) e sono stati aperti molti multiplex, dove i film inglesi solitamente non vengono distribuiti. Anche il nostro ultimo film, I want you, è andato malissimo;, chiaramente io non posso affermare che il motivo sia stato solo questo ma…
Il fatto è che è molto difficile bilanciare il lato artistico con quello commerciale, ma non è impossibile. E poi bisogna “educare” il pubblico, investire in questo senso. E credo dovremmo investire di più sulla cultura locale, fare film su quello che conosciamo bene. Non voler fare gli americani a tutti i costi, e fare i film pensando potenzialmente ad un pubblico americano, com’è stato per Sliding Doors, per esempio, che è un film che avrebbe potuto essere assai migliore se non fosse stato snaturato in questo senso, un film inglese pensato per un pubblico americano e testato da un pubblico americano. E poi noi dovremmo imparare a fare meglio un po’ di marketing.

CB: Com’è, secondo lei, il cinema inglese rispetto al resto del cinema europeo? Ci sono delle caratteristiche particolari, tipicamente inglesi?

AE: C’è il problema che in Gran Bretagna non vengono distribuiti film stranieri o quasi. È anche una questione di educazione: nelle scuole si dovrebbe iniziare a fare vedere un po’ di cinema straniero (e non americano, voglio dire). Temo che gli inglesi siano un po’ xenofobi, e non solo nel cinema. Basta pensare che siamo i peggiori in Europa nell’imparare le lingue straniere!
Siamo un po’ una via di mezzo tra il cinema statunitense e quello europeo, e dovremmo guardare un po’ di più al cinema europeo e non il contrario, come stiamo facendo.
Di positivo credo ci sia il fatto che abbiamo dei bravi attori, e poi è stimolante fare film in Gran Bretagna da un po’ di tempo a questa parte, perché ci sono molti registi, direttori della fotografia, scenografi, ecc. stranieri, che quindi portano con sè diverse culture e diverse tecniche. Bisogna imparare a usare bene le peculiarità di ognuno. Gli americani sono stati molto bravi in questo.

CB: Quali sono i registi che, secondo lei, nei loro film rappresentano meglio la vita, le persone oggi in Gran Bretagna?

AE: Negli anni Ottanta sono stati Loach, Leigh e Frears e, in modo diverso, Nicholas Roeg che è forse meno rappresentativo e un po’ eccentrico, ma che io ammiro molto. Molti altri registi inglesi come Alan Parker e Ridley Scott non facevano film inglesi, ed erano quelli che avevano più successo e che hanno lavorato fuori dalla Gran Bretagna. Oggi direi sicuramente Michael Winterbottom e Danny Boyle. Boyle ha una tecnica straordinaria, anche se ha fatto anche un film non molto riuscito come A life less ordinary, perché ha voluto fare un film a metà fra inglese e americano. Michael Winterbottom è un regista molto bravo: è intelligente e ha molta immaginazione, ed è molto sincero, racconta e mostra le cose cosi’ come sono, fa un film perché ci crede veramente.

CB: Il film a cui state lavorando adesso…?

AE: Si chiama Old new borrowed blue, ed è quasi finito. È una commedia romantica girata in Irlanda la scorsa estate, e speriamo che possa essere presentato a Berlino. è interpretato da Christopher Eccleston, Dervla Kirwan e Ivonne Attal. E poi c’è un film girato a Londra, ancora senza titolo, che dovrebbe uscire in autunno del prossimo anno.

Commenti

Un commento a “Il Cinema inglese: riflessioni e tendenze.”

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