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Omnia

Internet e il vetro: le tecnologie della trasparenza

Preambolo. Pre-ambulare significa visitare temporanemante uno spazio, guardandosi magari distrattamente attorno, in attesa di qualcosa. Se si indossano dei vestiti, il preambolo diviene vestibolo, il luogo nel quale le si dismette, come i pregiudizi. Innanzi all’entrata di una casa. Il preambolo serve come preparazione al centro della discussione, e — anche — come sua introduzione. Come s-vago, come giro attorno.

Il mio preambolo parla dell’ambiguo e contradditorio rapporto, fondamentale in ogni nostro atto e concezione, fra contenitore e contenuto. Veicolo del pensiero e pensiero, ad esempio. Corpo e anima. Scrittura e pensiero. Macchina ed energia. Coppie che passano attraverso il sapere occidentale (e non solo occidentale: si pensi infatti all’iconografia orientale, che abbina e non lascia mai l’uno senza l’altro, la divinità ed il suo veicolo) — verrebbe da dire — da sempre. Il veicolo e il suo contenuto. Il vaso, ancora, “veicolo”, diviene metafora del corpo e dei suoi flussi. Da esso si “versa” l’anima ed il sangue: gli organi sono immaginati come “piccoli contenitori” alchemici, dove gli umori stillano, distillano, evaporano, fluiscono.

Ancora oggi pensiamo alle vene e parliamo di “vasi” sanguineii.

ziberna-2.jpg (17082 byte)Il vaso del preambolo è quella tecnologia che ci parla del paradosso non risolvibile fra la conservazione e la messa in moto, il consumo (guardiamo la vetrinificazione di Internet). è per questo che il veicolo, vaso innanzitutto, appare contemporaneamente, si pensi solo al caso esemplare della scrittura, come il luogo ove qualcosa deve essere conservato (portato oltre, mantenuto e salvato, portato ai posteri, tradizione) e luogo della dissipazione e del commercio (duplicazione, falsificazione, messa in vendita, tradimento). La scrittura viene concepita come veicolo. E come tale: tecnologia della trasparenza impossibile. Giacché il veicolo, per il fatto stesso di dover conservare (mettere in mostra in un futuro) deve coprire e velare. L’ermeneutica si affatica attorno a questo.

Analizziamo per un attimo l’evoluzione del luogo, tenendo sullo sfondo la dialettica che possiamo chiamare “del vaso” e alla quale preferirei dare il nome di “tecnologia della trasparenza”. Tanto per intenderci: guardiamo il contenitore e cerchiamo di passar-oltre, ad osservare il contenuto. Da questo ritorniamo poi indietro e mimiamo — operando in questo modo — l’andirivieni ed il “tra/fficare” del commercio: pensiamo al contrapporsi continuo, nella mente del commerciante, della cassa/forte e della liquidità. Di ciò che “tiene” e di ciò che “svapora”. Pensiamo al suo desiderio del far vedere e alla sua contemporanea smania di raccogliere e conservare gelosamente. La storia del luogo, in questo senso, è esemplare.

I beni, all’inizio della storia e di ogni storia stanno al suo centro: lì si raccoglie la narrazione e la vita del gruppo. Metaforicamente e realmente, il bene capitale sta innanzitutto ammucchiato. Il suo vaso, allora, è la casa. è la cassa. Il primo bene: i suoi abitanti, nudi. I personaggi possono essere — forse — di un racconto. Gli uomini, le vite, il nucleo delle narrazioni, si svelano e si mantengono attorno al centro dell’abitazione, una capanna o grotta — poco più. La seconda grande invenzione della storia, dopo il vaso che ci contenga, fu probabilmente legata alla capacità di non tanto utilizzare o addirittura ri-creare vasi di questo tipo (capanne, ripari), ma di renderli trasportabili. L’idea del conservare le merci ed i beni, fossero anche ed ancora solo degli uomini, presuppone infatti il “dinamismo” del contenuto: il fatto che — per sua natura — ciò che va conservato lo va appunto in funzione del carattere evanescente e “liquido” suo proprio. Il suo incessante fluire, come la vita. Naturale predisposizione a spostarsi. E così l’uomo si mise — talvolta — la capanna sulle spalle: è l’inizio del vaso come lo intendiamo. Il vaso si esplicitava e andava a tema.

Raccogliere (creare tecnologia della cattura), mantenere (creare tecnologia della conservazione) e consumare (creare tecnologia dell’uso). Questi tre sono uno e appaiono poco più di uno all’uomo non troppo tecnologico: riappariranno uno milioni di anni dopo, qui ed adesso (pensiamo al tema della nostra breve discussione, teniamo un occhio su Internet mentre parliamo apparentemente d’altro!). Il tesoro, raccolto al centro, diventava — ora — un oggetto che si portava appresso il suo vaso. Con l’espansione fantastica del vaso di terracotta, la meraviglia dell’antichità, le merci si mettono in cammino.

È stupefacente osservare che nulla di più comune, ove vi sia stata l’umanità, è il ritrovamento di vasellame. I beni, infatti, iniziano ad avere la strana pretesa di “disporsi”. Di mettersi a disposizione (degli altri) e di disporre di sé. Di vivere autonomamente e metaforicamente “viaggiare”. I beni vogliono “disporsi” ad ogni angolo. In ogni angolo della casa, innanzitutto, e poi del mondo. “Mondo” che ha “quattro angoli”, sui quali forse si regge, e dove si possono disporre moltissimi oggetti. Gli oggetti stessi, faticosamente, diventano “dispositivi”. Tecnologie della “disponibilità”.

Nell’atto stesso di rendersi disponibili, le merci si mettono in cammino: la nostra storia impossibile — qui — s’interseca con quella della via e della strada e con la sua evoluzione: il luogo, da vaso per il mantenimento, da tecnologia della conservazione, muta in canale, si “svasa”, si oblunga, e diventa tecnologia del trasporto, della messa in moto.

Il negozio, allora: all’inizio timido di sé. Inconsapevole del suo futuro, adolescente immaturo, si immagina (se stesso) come una casa. Niente di più. La porta rimane tale e niente indica che quella casa sia un negozio nel senso moderno del termine. Le case sono ancora casse (“vediamo” Internet quattro anni or sono?). Quando — lentamente — il commerciante s’ingegna ad apprendere il proprio ruolo e la propria dinamica, ecco che si rende necessaria la fiera. Andare fiero e andar per fiere. Il leone e la competitività. Il disporre di sé (la figura del commerciante come individuo autonomo dal feudo, dal padrone e padrone della propria vita) e il disporre la propria casa, le proprie casse. Far viaggiare e mostrare i propri beni. Il concetto di caleidoscopio nasce — può essere suggestivo — qui; da una posizione centrale, guardando attorno, dalla quale ammirare le merci esposte attorno. La casa e la sua evoluzione, la cassa, devono far “luogo” ad una trasparenza di nuovo tipo: esporsi e disporsi. Attorno. La lanterna magica ed il cinema, l’idea “osservativa” dell’azione e del suo svolgersi, l’idea che la dinamica va osservata, fanno capolino nella storia. Ogni atto del conservare e del rimettere in moto, del “girare” e “fissare”, ogni idea cine-matografa, è una contradditoria tecnologia della trasparenza. E ne assume tutta la contradditorietà.

Il vetro e la tecnologia della trasparenza scalzano rapidamente il cuoio, la creta, l’argilla ed il mattone (scalzeranno addirittura l’edificio di cultura per antonomasia, la biblioteca): la cassa non è più fatta per la mano, ma per l’occhio. Un nuovo organo guida il pensiero e la vetrina ne è la sua metafora, attraverso un gioco di parole “più chiara”.

Nella vetrina si vede tutto ciò che la tecnologia della trasparenza, al suo inizio, ha di contradditorio e misterioso da dire: far vedere, esporre e contemporaneamente conservare, proteggere. Il vetro meraviglia tutti. I contenitori di ciò che è destinato ad essere rapidamente consumato, diventano in un scintillio, di vetro. (E la porcellana? Chiamata non a caso l’oro bianco, nel ‘700 fece impazzire per le sue straordinarie qualità i potenti di tutta Europa: solido e liquido vi si ritrovano. Gli elementi magicamente sembrano esservi riuniti: aria, acqua, fuoco e terra. Contenitore e contenuto. Collezioni di vasi “vuoti” e trasparenze impossibili, vetrificate, vetrinificate si moltiplicano).

Voglio mostrare una cosa però, o indicarla: l’idea “fotogrammatica” della vetrina. Ecco una super-tecnologia della trasparenza. La foto mostra la capacità della fissazione della luce. Mostra e ambisce a mostrare, nella sua bellezza, la salva-guardia (salvare e guardare, questi i due compiti: salvare e consumare) del tempo e di ciò che — la cosa più evanescente — lo passa, la luce, il raggio di luce. “Fissiamo”, con una foto, un’immagine. Affinché “non si perda” e d’altra parte, lo si sa da tante parti, “la cosa” venga “perduta” nel suo commercio e duplicazione. Ma l’idea di negozio come vetrina, ad un tempo tecnologia della conservazione e del consumo, ideata per l’occhio e fotogrammatica, non può che — necessariamente — marcare il passo. Cioè marciare o, voglio dire, “battere il tempo”. Il cinema e la tecnologia della “passeggiata”, l’800 e l’inizio del ‘900, si accompagnano. I fotogrammi dispongono l’azione in una successione. La via, puntellata di vetri e vetrine, foto dell’essere, concepisce sé per quello che solo oggi iniziamo ad intendere con chiarezza: spezzone filmico.

I fotogrammi, i negozi con le vetrine, iniziano ad inanellarsi, a mettersi e disporsi secondo precise sequenze logiche. Le vie divengono trame: quando e se io corressi per una strada, sguardo alle vetrine, mi accorgerei dei filmati che vi sono incastonati e di come essi “rappresentino” una storia. Ne posso misurare addirittura la coerenza strutturale, posso viverele come vere trame. (Apro una parentesi: non è un caso che il “negotium” dell’angolo sia tipicamente il “bar” ed il punto di ristoro. Vi è una ragione “economica” che si spiega non solo nella possibilità di raddoppiare la clientela, cosa che avrebbe spinto parimenti altri negozi ad occupare i nodi, gli intrecci delle strade, quanto nella caratteristica “nodale”, la predisposizione e naturale funzione di pausa del flusso e creazione dell’intreccio, sociale e reale, del luogo “incrocio”. Vi si raccoglie la storia, vi si prepara “la svolta”. Predispone all’idea dei primi e secondi tempi: al riposo e al consumo che vi è connaturato).

Tutto ciò per mostrare come la e le tecnologie della trasparenza operino nel nostro quotidiano, e non vi abbiano finito di lavorare ed evolversi, nella loro contradditoria esperienza del conservare e dissipare. Del man/tenere (ben stretto e chiuso, sotto-chiave come ogni valore e bene) e disposto e pre-disposto per l’occhio, per il suo sguardo (vetrina e scaffale). Guardiamo allora ad Internet.

Guardiamo ad Internet non solo perché essa è stata indicata nel passato come “l’autostrada” informatica (e come tale luogo di attraversamento e consumo) quanto perché essa è un’ovvia evoluzione della vetrina. In internet noi vediamo cosa possa diventare un documento, un’informazione, quando deve sottostare alla legge dell’esposizione, della “passerella” (ecco alla ribalta — fra l’altro — un altro termine economico del dispendio e della disponibilità/disposizionalità delle merci: farle camminare attorno ad un pubblico fermo) e della vetrina. Proviamo a pensare come organizzare una vetrina per un testo. A mettere dei testi in vetrina. Forse le librerie ci aiuteranno. E forse no. Povere libererie, infatti. Credono ancora di essere delle biblioteche dell’oggi!

Internet è una sequenza di vetrine (naturalmente se osserviamo il fenomeno “web”). Collegate da cunicoli. Ciò che passa spesso inosservato è però che il fattore economico (dell’economia dell’informazione) la attraversa senza fermarvisi. Alla vetrina non corrisponde un negozio, un luogo del patteggiamento.

L’otium viene ripagato abbondantemente dalla rete e dalla sua struttura: chi credeva di lavorarvi nell’ottica e attraverso l’ottica del bibliotecario, ha sbancato e fallito amaramente. Internet è cinematografica, sequenza in movimento di vetrine: veicolo economico che prospera nella dialettica complessa del mantenere e dissipare: la trama, in Internet, è tutto o quasi. Il web, il ragno, va da molto tempo al cinema e sa molto del concetto di trasparenza.

Per il web, la trasparenza unita alla resistenza, la capacità di non essere opaco ed oscuro eppure di fermare, di bloccare, è vita. La metafora della navigazione è poi quella che fa capo alla “rotta”. La “rupta” è infatti l’interruzione e il piccolo cabotaggio, la fermata rapida per le piccole necessità e rifornimento, la tappa che il navigante fa sui siti. Il navigante — credo — passeggia attraverso un film, successione di fotogrammatiche presenze e assenze. La “tappa” (etimologicamente il “deposito”) è — attraveso una finzione — il “tappo”, il luogo di chiusura e avvio, la cerniera, lo svincolo, il bar.

A questo aspetto legato all’otium, alla raccolta ed accesso all’informazione, a luogo della preparazione alla decisione, allo “s/vago” (al vagare senza meta ma in vista e funzione economica della creazione di una meta), all’inter/vallum, non fa seguito il “negotium”, la negazione e sorpassamento della prima fase, dell’otium. Dietro la vetrina, non c’è quasi mai negozio, stentiamo ancora a vederlo. Non siamo abituati alla trasparenza e alle sue forme.

La mano ed il consumo non appartengono, non si riconoscono ancora nella vetrina. Non tocco e non entro nella vetrina. Oltre la vetrina, il nulla o quasi. Ci saranno persone che ameranno toccare la carta dei libri ancora per decenni. Che visiteranno le biblioteche riponendo fiducia in un’idea di “cassa” e di “casa” solo immaginificamente diversa da quella vetrinificata. Ciò che chiamiamo internet è ancora legata e ideata, ancorata e immersa nella metafora novecentesca della passeggiata s/vagata: volete che vi dica cosa penso dell’interattività presente oggi sul web? Ho visto vetrine di negozi molto più animate.

Facciamo un esempio: la vetrina è anche “vitro”. Esame microscopico, estensione dell’occhio al microcosmo, al virus, alla trasparenza e resistenza che l’invisibile — paradossalmente — oppone alla ricerca. E vetrino, esposizione e mercificazione, studio, pianificazione e progettazione dell’esistenza futura: conservazione della specie e sua mutazione. Sono tutte tecnologie del vetro, della trasparenza e del vaso. Pensiamo infine all’architettura: tecnologia del vaso che ci accoglie e ci dissipa. Abbiamo visto palazzi con vetri trasparenti, uffici della visibilità, e palazzi con vetri a specchio, uffici dell’invisibilità. La “trasparenza”, nella sua valenza cinematografica, come sequenza economica della vetrina che proietta la vita espostavi, è infine ed innanzitutto, non dimentichiamolo, non a caso.

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