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Omnia

Mai e non ancora…

(cinema postmoderno...)

Immagine articolo Fucine Mute

(O-sceno, fuori scena, fuori orario, fuori sync: al telefono, enrico ghezzi per il suo intervento al convegno triestino “Postmoderno?”, del 28 e 29 novembre 1998)

Una sorta di post-improvvisazione, tra l’altro non ci siamo capiti, ma è giusto non capirsi. Avevo proposto come forma più estrema e realizzabile il video… saltata la mia registrazione a Roma, di notte, a causa di cavetti, sempre questi problemi, cavetti… qualunque corpo anche questo nuovo, elettronico, si sfascia in cavetti difettosi, batterie che col freddo durano un quarto e comunque già doversi portar dietro le batterie, le batterie, va bene… suonarle, le batterie.
Allora avevo proposto che un’altra persona, a caso, Alberto Farassino, diventasse il video, molto più avanzato, perfetto, tridimensionale, per leggere, o anche ridire, vagamente, un non testo. Invece mi pare di capire che siamo al solito fuori-sync, che scoprii poi per caso, incontrai proprio in un intervento televisivo di Lyotard, che fece scalpore, che chiese per una breve intervista di apparire fuori-sync, lievemente sfasato. Ma perché lievemente? Il fuori-sync, di cui non mi diletto, ma cui mi abbandono spesso, è proprio altri tempi, non lo stesso tempo, un po’ scorticato, un po’ spostato un po’ morso e mosso… è proprio un altro tempo, un altro corpo. Spesso.
Allora post-improvvisazione. Post-improvvisazione perché non credo all’improvvisazione, l’improvvisazione è forse il massimo, invece, della programmazione, non propria, non di sé e da sé: di sé e da altro. L’improvvisazione è una sorta di sbobinatura a opera di sé: nell’improvvisazione ci si sente davvero una sorta di strumento, di strumento in atto. In quel momento si coincide con un testo che si dipana mentre ci dipaniamo. Quindi l’improvviso dell’improvvisazione è l’improvviso accedere a un sé che funziona automaticamente, a una sorta di pilota automatico, al sé automa… quasi il contario di quella vagheggiata, agognata o mitizzata creatività, oppure esattamente la stessa, terribile, cosa.
Parlo, aggirandomi fuori dal “Postmoderno”, perché credo che il termine stesso di postmoderno — nel cinema poi mentre appare — dovrebbe avere, non il coraggio, ma la decenza di dissolversi. Così non è: c’è molto cinema nel quale, a voler essere piattamente pignoli e pedanti, possiamo rintracciare evidenti segni del “postmoderno”. Ma siamo certi che questo sia cinema post-moderno? Cioè il postmoderno non è il momento catastrofico in cui il linguaggio deve ammettere di non potersi esercitare se non rigiocandosi secondo altri codici? Come insegnò già anni fa un film non straordinario, ma più avanzato di qualunque Blade Runner , come Babe, il maialino, dove il linguaggio doveva esser sempre rilanciato per essere compreso da altri codici, da altri cifrati, triggered,  linguaggio di linguaggi, sempre. Sempre.
Come ci insegna, ci consegna, anche, così, nel senso della prigione, la pubblicità, da sempre scrigno o cella di molti linguaggi… ammassati.

Allora il codice postmoderno non è forse il virus dell’autodistruzione del linguaggio, dell’emergere — mentre ora passa un motorino — dell’emergere di un’istanza di annullamento, non tanto delle forme, ma di annullamento dei passaggi intermedi, proprio dei codici di lettura? In qualche modo è come se il postmoderno evocasse per contrasto una sorta di banale auroralità, gettandosi e riconoscendo l’eterno ritorno citazionale, l’inevitabilità del calarsi in un calco come, di nuovo, è un film, è il grande film di Kiarostami, anche per questo il Sapore delle Ciliegie, perché è davvero il film del ridepositarsi nel calco fotodrammatico, in quel caso, lo scavo tombale di sé, dove ri-trovarsi in quel segno preparato da sempre che è il sé in cui cambiarsi per l’eternità, rimutarsi in se stessi. E questo non può essere detto, questo può solo essere trovato, può avvenire; ma il parlato, non tanto la vulgata, il postmoderno pensato, detto, scritto non può che essere vulgata, non può che essere triviale ghirigoro, non può che essere falsa mascheratura del barocco, persa ogni tragicità. Il Postmoderno è Spielberg, Spielberg è più postmoderno di Blade Runner; di nuovo, Spielberg è più postmoderno del film Dark City, che poi è un film notevole, ed è notevole proprio nel giocarsi come genere, nel darsi dei codici di genere anche postmoderni, che infatti arrivano ad una pre-fantascienza, la fantascienza che da almeno 50 anni, molto prima di Truman Show, induce il virus del postmoderno, 40 anni prima di Lyotard.
Il postmoderno che si compiace di ritrovarsi, il postmoderno che, per esempio, in modo tutto sommato perfetto in quel piccolo film che è Truman Show, arriva a consolarsi di una sua visibilità, di un riconoscimento della vita come spettacolo dentro però dei limiti, dei limiti da cui si può fuggire, dei limiti che si possono oltrepassare — pensiamo all’enfatico finale — mentre già nel film l’unico momento geniale è il dopo limite, che è la pura interruzione, l’intervallo, l’intervallo che c’è nello zapping, nel passaggio da un momento all’altro, da una pulsazione all’altra dello stesso spettacolo. Allora se il postmoderno è riconoscimento di questa pulsazione, è evidente che si muta di colpo in una sorta di rinascita della tragedia, rinascita ironica quanto si vuole, rinascita ebbra, e poi follemente conscia della propria ebbrezza; ma il postmoderno come catalogo, come serie di citazioni, come codici in parata è molto facile che si avvicini proprio al concetto militare di parata, di esibizione di forze, di saperi di forza, di esibizione di linguaggio, di perdita proprio in questo dell’eventuale elemento di gioco molto spesso pronato, portato avanti, esibito sullo stendardo. E invece il gioco in questo si perde, diventa sfarzo di forza, e non tentativo di inabissarsi nel gioco di questa parata di forme, nel gioco della forma, nella sua frattalità. Allora la frattalità-fatale, la frattalità-fatalità cui porta inevitabilmente, che riconosce, inevitabilmente, dall’inizio, il postmoderno, dovrebbe essere simile ad una sorta di piccolissima o gigantesca virgoletta invisibile, per cui il postmoderno è infine lo sguardo, uno sguardo di malinconia infinita, che è quello probabilmente inventato, inventato nel senso di trovato, trovato come in un cassonetto della spazzatura da cui esce una macchina, una macchina fotografica particolare, trovato dai Lumiere, quello per cui è, questo sguardo, non più nostro per sempre, non più finto e nostro come in tutte le tecniche artistiche individuali o più collettive fino ad allora, fino a oggi praticate, inventate, sognate, dai graffiti nelle caverne che oggi ci appaiono di nessuno. E quindi fin dall’inizio è di nessuno, questa macchina, anche se noi ci accaniamo perfino nei deliri postmoderni a trovare gli autori più consci… e allora il regista postmoderno sarà magari Kubrick, come è in modo fin troppo evidente e direi da sempre lo è in Fear and Desire, Paura e Desiderio, già come lo sarà Spielberg in Saving Private Ryan .

Mentre la malinconia è iniziale e impersonale, proprio la malinconia del riconoscere in questo sguardo macchinale un destino da cui proviene il nostro stesso sguardo, il destino di uno sguardo non nostro — di nuovo, pensiamo alla cosa che un po’ sconcerta, un po’ appare banale dopo il videogioco iniziale che è poi infine il momento più sensoriale, invece, più forte, strong, dell’ultimo film di Spielberg…- ecco, quando poi alla fine del film ci rendiamo conto che lì, in quel video-giocarsi, di suono digitale, di impazzimento di cellule, di corpi che saltano, era saltato, fin troppo correttamente, già il soggetto, si era perso il soggetto e tutto il film è un falso flashback, forse di un morto, anzi sicuramente di un morto… Il problema del soggetto filmico è sempre di uno spettro, è sempre di qualcuno che non vive o è già vissuto o semplicemente lì aleggia. Allora il postmoderno diventa così radicalmente, dovrebbe essere, il tramonto della forma invece che il riconoscere del lussureggiare di forme, o anche semplicemente del lussureggiare limitato di forme, una giungla infine catalogata o, comunque, che sappiamo com’è finita, come giardino edenico per qualche dio crudele o amoroso; e invece, troviamo, infine, il vivo e il morto insieme, in questo giardino: quello che vediamo e quello che non vediamo. Il massimo del postmoderno è una sorta di cinema che non esiste, un insieme di Bresson, di Lumière, di Kubrick, di Lynch, di Cronenberg, dove la macchina, oltre a manifestarsi, si dissolve.
Infine “Postmoderno” vorrebbe dire la ripresa dei primi vagiti di un bimbo che nasce e poi, subito, autocancellata, come in certi romanzi virali di Gibson. Arrivare di nuovo al frame vuoto, sapendo che è un frame, che non è una salvezza dalla forma, ma semplicemente che è la forma, le forme, comprese quelle dei soggetti: i paesaggi, le persone, i volti, gli elementi, sono essi stessi, non per eccesso di consumazione, nel cinema, nel breve secolo del cinema, ma grazie al cinema, riconosciuti fin da subito nel loro generarsi, mutare continuo, nel loro carosello di parata.
Davvero il postmoderno dovrebbe essere il, finalmente — vedrete, vedremo, vedrò — nulla, come i living dead, che non sono.

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