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Cinema

Salò, l’ultimo film di Pasolini

Rivedendolo, l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, benché mutilato di alcune sequenze — dovute al periodo di segregazione cui fu costretto per circa un anno e due mesi — non sembra aver perso affatto la capacità di suscitare quell’imbarazzo e quel disagio, al momento dell’analisi critica, che avevano già circoscritto la sua prima fugace apparizione.
A dire il vero, qualche ripensamento c’é stato, più a favore che non a sfavore. Ma è proprio l’insufficienza dell’indagine o, meglio, l’incapacità di separare — ancora oggi — l’opera dal suo autore, a sottolineare la notevole mancanza d’obiettività.
Né, d’altra parte Moravia, con il suo allora puntuale intervento su L’Espresso — il film era appena stato rimesso in circolazione sugli schermi —, ha saputo fare luce sui risultati e sui significati di questo film.
Al contrario, con ingiustificabile presunzione, quasi potesse essere lui l’unico a parlarne, si è lasciato prendere la mano da una sua visione strettamente riduttiva; credendo, invece, di ampliarne e svilupparne i concetti basilari.
E neppure Morandini (che, su Il Giorno del 10/3/1977, si era affrettato a dichiarare: “Sul film avevo una riserva di fondo: la trasposizione del romanzo di Sade ai tempi della repubblica di Salò mi sembrava pretestuosa. Credo di avere capito meglio il significato dell’operazione, collegandola con quel discorso sulla morte di un popolo, sul ‘genocidio’ antropologico dell’Italia a opera dello ‘sviluppo’ acritico della società dei consumi, che Pasolini aveva condotto, con continue variazioni e crescente pessimismo, negli ultimi anni”), neppure Morandini, individuando nella “soppressione (l’assenza) della Madre e del Cristo, due figure costanti del cinema pasoliniano”, uno dei punti essenziali alla comprensione del film, ha saputo fare di meglio.
Né, come altri hanno fatto, parlando di Salò come di un’opera “riuscita e significativa”, si può sostanzialmente essere d’aiuto all’interpretazione dell’opera pasoliniana. Molto meglio aveva fatto Grazzini, a suo tempo, con tutti i suoi dubbi e le sue incertezze, le sue ipotesi e le sue controipotesi: se non altro, aveva mostrato il coraggio dell’uomo indifeso, privo di quei mezzi idonei per penetrare in una materia tanto complessa, quanto desueta, che comunque si sforzava d’indagare, con la ragione inderogabile del costante bisogno di ricerca.
Perché, anche se l’intelligenza di Pasolini non può essere posta in discussione, non è detto che le sue intuizioni debbano essere, a tutti i costi, non solo indiscutibili ma anche e sempre geniali.
Certo, già la partenza, lo stimolo stesso alla preparazione del film, può essere una spia rossa d’allarme: “Salò è un pretesto”, aveva infatti dichiarato in un’intervista a Marco Olivetti (su Sipario, giugno-luglio l975), “un simbolo, rappresenta un rapporto sessuale dei nostri giorni: il sesso in questo film, sia pure in modo onirico e stravolto, diventa la metafora di ciò che oggi il potere fa dei corpi; quella mia antipatia del modo di conciare i propri corpi dei giovani d’oggi, è in fondo la radice prima dell’ispirazione di questo film”.
Proprio in questa “radice prima dell’ispirazione”, a nostro parere, si può ravvisare una sorta di squilibrio critico per cui lo sviluppo della tematica si ritrova nell’impossibilità di un’inquadratura organica, che dovrebbe stare invece a sostegno della difficile trasposizione sadiana nelle giornate di Salò. Come sarebbe stato possibile conciliare, per un impulsivo quale era sempre stato Pasolini, De Sade, Salò e la sua “antipatia” verso i giovani?
Certo: l’intenzione era ambiziosa, persino grandiosa.
Ma il rischio era forte.
La “visceralità” pasoliniana, poi, avrebbe saputo disporsi razionalmente di fronte alle motivazioni ideologiche? Oppure non le avrebbe travolte, spostando (inevitabilmente) il bersaglio in direzione opposta?

Immagine articolo Fucine MuteI quattro aguzzini, in contrapposizione alle giovani vittime, non simboleggiano affatto il Potere, né la sua “anarchia”; rappresentano quattro esseri impotenti, frustrati, incapaci di un qualsiasi tipo di rapporto. E le vittime, pur con tutte le attenuanti della loro condizione di sottomessi, non possono certo rappresentare — tantomeno attraverso il sesso — la “metafora di una proposizione di Marx, della mercificazione dei corpi da parte del potere”, come era appunto nelle intenzioni di Pasolini.
Aguzzini e vittime, in sostanza, soffrono d’una medesima alienazione: l’estraneamento dal proprio corpo. Due vittime, dunque, con un unico strumento di oppressione-rivalsa: il sesso. E su di esso, ovviamente, si riversa non l’odio di un antagonismo di classe, e neppure l’odio del potere — a che gli servirebbe: al potere serve lo sfruttamento, il servilismo, la mercificazione, appunto; solo attraverso la coercizione, infatti, può sostenersi al di sopra dei suoi salariati -.
Si riversa, invece, l’odio degli impotenti, l’odio di chi non sa usare i suoi mezzi — le vittime — per i suoi vitali benefici.
Ecco, in sintesi, gli errori di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Per essi, la metafora della “mercificazione dei corpi da parte del potere” si trasforma, quindi, in esclusiva rappresentazione del Sesso: sesso con la esse maiuscola anche perché, tramite De Sade, è proprio il sesso, alla resa dei conti, ad essere posto sotto accusa. Il Sesso (impotente) dei carnefici (il Male) in antagonismo con il Sesso (sano) delle vittime (il Bene?): questo risulta il solo, possibile significato del film. E, senza indagare oltre, tale contrapposizione si coagula nel sentimento di morte che il Sesso, sia esso impotente oppure sano e virile, si dovrebbe portare appresso per natura. Dunque, il Sesso vissuto come elemento di morte, come condanna, come espiazione, per essere tale, lo si deve assumere sotto spoglie edonistico-religiose, cioé come impedimento al piacere in quanto lussuria e quindi peccato. Il Sesso, insomma, come contro-natura.

Dai tempi di Freud, tante scoperte sono state fatte, specie nel campo della sessualità. La stessa (così detta) perversione sadiana, in fondo, fa parte di un meccanismo che esige in qualsiasi forma il piacere sessuale. Il piacere come liberazione, come naturale espressione di una necessità biofisiologica.
Invece, Pasolini ne ha stravolto tutti i connotati. L’ha ridotto a maledizione — non importa se biblica oppure, come anche Moravia ha sostenuto, consumistica -.
Peccato: un artista che aveva tanto magistralmente rappresentato il complesso di Edipo è caduto, purtroppo, nel tranello di una visceralità inesorabile. Inesorabile, per di più, perché anche e soprattutto estetica.
Come lo dimostrano certe sequenze filmiche da grande maestro. Tali e tante da distanziarsi, creando fra loro un più o meno ampio abisso, da quelle di gran parte dei troppi registucoli al servizio del disimpegno e della diseducazione etico-culturale.

Con L’Espresso del 6 novembre 1998 è stato distribuito Salò o le 120 giornate di Sodoma, il film che Pier Paolo Pasolini lasciò, si disse, come testamento. In realtà, questo suo ultimo film, pur non potendo essere considerato un capolavoro, non può essere neppure un “testamento”; se mai, il risvolto più angosciante di un’esistenza vissuta nella denuncia di un potere che lo stava dilaniando. Siamo grati a L’Espresso per averlo rimesso in circolazione, permettendoci di “rivisitarlo” a distanza, con occhi meno commossi e stravolti dalla straziante ed orribile fine che il suo autore, ora possiamo dirlo, si è quasi registicamente costruito, da grande e geniale artista, per lanciarsi nell’immortalità. (n.d.a.)

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