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Cinema

Truman Show: sedotti (ancora) dal Grande Fratello?

Immagine articolo Fucine MuteNon paragonerei le gesta di Truman — come è stato fatto un po’ dappertutto — all’urlo disperato lanciato contro l’invadente società dei media, quella stessa che osserva, immortala, seziona e dispiega i suoi infiniti sguardi sul mondo che così sembra esser privato di ogni libertà, che è raccontato in ogni sua più profonda e privatissima piega. Ma alle soglie del terzo millennio si può ancora affrontare dialetticamente il rapporto uomo-società, grande fratello-piccolo uomo? In altre parole, si può concepire un potere che dall’alto verso il basso controlla chiunque senza che si possa fare il contrario?
L’idea di un ente superiore e malvagio che osserva e spia l’insieme dei singoli individui, impotenti attori del malvagio teatrino predisposto anche da Weir, è ormai destinata alla storia così come ogni residua contrapposizione romantica fra eroe e società. Non si è sottratta alla morte nemmeno l’immagine di quegli occhi attenti ed inespugnabili del grande fratello che possono guardare e non essere guardati,che possono spaziare liberi sulle macerie delle libertà altrui. Dicevamo di una dialettica oramai archeologica, se applicata ad una società investita dalla vorticosa circolazione di informazioni ed immagini, in quel villaggio che già un vecchio pioniere scandinavo aveva definito come globale (1). In questo nuovo e più democratico spazio, centro e periferia si sovrappongono, osservatori ed osservati si confondono, tutti ci guardiamo e tutti siamo guardati, in un reciproco rimbalzar di sguardi.

Ma varie sono le considerazioni che si possono fare al riguardo, numerosi, fitti ed intricati i contributi possibili, e ciò perché la rivoluzione culturale e tecnologica di fine secolo ha avuto e sta avendo sull’umanità conseguenze socio culturali mai viste prima. L’uomo del terzo millennio, con la creazione di un nuovo mondo in rete, sta realizzando una nuova dimensione fisica dalle infinite potenzialità, dagli inesplorati risvolti. Sta ridisegnando il proprio territorio all’interno del quale proiettare la propria esistenza. E questo spazio è anche antropologico perché traina con sé un vivere sociale, delle convinzioni e delle credenze collettive che generano, trasportate da venti che alimentano e trasportano facili entusiasmi, nuove e giovani correnti di pensiero, nuove e nascenti culture informatiche. Non ultime certe forme di teologia tecnologica. Scrive Neil Postman:

Sta avvenendo la divinizzazione della tecnologia, il che significa che la cultura cerca le proprie giustificazioni nella tecnologia, trova le proprie soddisfazioni nella tecnologia, e prende ordini dalla tecnologia. Questo richiede lo sviluppo di un nuovo genere di ordine sociale, e conduce necessariamente alla rapida dissoluzione delle credenze tradizionali.(2)

Immagine articolo Fucine MuteCiò che è importante è quindi questo infinito gioco di sguardi che costella ogni momento della vita di ogni utente, ogni suo singolo movimento e fluttuamento nelle infinite galassie del cyberspazio. La posta in gioco è lo statuto esistenziale di ogni uomo, è questo che sta cambiando. Ma il discorso non vale solamente per l’universo appena descritto, per questa nuova dimensione artificiale, ma anche per il mondo reale, mondo che sta facendo i conti con il continuo e consistente contributo dei media. Nella società delle immagini l’umanità sta imparando a raccontare e a raccontarsi, a mostrare e a mostrarsi, sempre, ovunque, e senza avere la percezione e la consapevolezza di farlo, perché non c’è più differenza fra la vita ed il racconto della vita, perché vivere è far vedere. A livello di esistenza quotidiana si sta radicando l’educazione alla cultura delle riprese, abbondano le continue videoriprese amatoriali e familiari a cui soprattutto i più piccoli si stanno abituando, nelle famiglie più che riunirsi per sfogliare album fotografici ci si ritrova per assistere alle proiezioni dei propri filmati. A livello più macroscopico e generale il meccanismo è lo stesso, per cui l’immensa babele televisiva sottesa alla nostra esistenza ci fa partecipi di tutto ciò che accade sulla terra. Sono sparsi dappertutto gli operatori della CNN che filmano e riprendono tutto ciò che accade, che ci raccontano le stragi del Kossovo e gli scontri in Medio Oriente arrampicandosi sopra i cumuli di cadaveri, perché questo è l’unico modo per farli esistere, perché come dice un grande cineasta sudamericano parlando di teatro e di cultura al “cogito ergo sum” cartesiano si è sostituito il più attuale “appaio quindi sono” (3)del mondo mediatico.

Ecco perché in questo deserto di direzioni e ideologie non è quindi pensabile che trovino spazio le inquietanti presenze orwelliane, ecco perché va decostruita l’antiquata dicotomia Grande Fratello che osserva-uomo che è osservato. A questo modello ne va sostituito un’altro circolare, all’interno del quale A e B stanno in un rapporto di dinamico equilibrio.
Ma allora perché Truman scappa, perché è infelice se sta vivendo in uno spazio dalle regole così giuste? Egli non fugge per combattere il sistema in se stesso, ma perché non accetta il fatto che i media invadano ogni momento della sua esistenza, anche il più intimo. In palio non ci sono le regole del gioco, ma il loro utilizzo: la tecnologia deve vivere ma senza entrare nel fondo della vita di ogni uomo, senza ingabbiarlo. Ora ogni persona ha la grande possibilità di comunicare con chiunque scavalcando qualsiasi struttura spazio temporale, ma ciò non lo deve privare di una sua più intima ed intoccabile comunicazione umana di nicchia, vitale, necessaria. Oggi più che mai è necessario trovare l’equilibrio fra il mondo informatico, possibile nuovo eden tecnologico, e quello corporeo, delle relazioni umane, del quotidiano. Solo questo permetterebbe all’uomo di poter scegliere i propri spazi vitali, scegliere se comunicare al globo, se imboccare un’autostrada telematica, oppure se preferire il proprio vicino. Privato di questo precario bilanciamento egli arriverebbe al punto di frapporre tra sé ed il suo prossimo, anche il più vicino, il filtro del media. Questo è il punto essenziale, non è pensabile vivere solamente nel computer, vivere solamente nella televisione, in una parola essere costretti per esistere ad entrare nel meccanismo della tecnologia. L’equilibrio sta nel vivere con la tecnologia, a fianco ad essa, non in essa.

Immagine articolo Fucine MuteTruman rischia di impazzire perché non parla con la moglie, ma con una venditrice di prodotti alimentari o igienici, perché lui comunica vita, lei spot pubblicitari, lui parla ad una persona, lei alla TV. Un attento uomo di cultura americano disse che se arrivassimo a questo punto le luci del mondo smetterebbero di luccicare, il mondo arriverebbe al capolinea e con esso la civiltà umana oramai totalmente disumanizzata (4). Ciò perché questa continua necessità e volontà di raccontare, aspetto questo di per se stesso assolutamente non negativo né positivo, rischia di soffocare il raccontato. Rischia cioè di strangolare la vita corporea e “tradizionale”, per dirla come il già citato Postman, degli “integrati al sistema”.

Ed è proprio per questo motivo, per far sì che non scenda il sipario, che Truman si dà alla fuga. Non altro.

Note bibliografiche

1) M. McLuhan – B. Powers, Il villaggio globale. XXI secolo: trasformazioni nella vita e nei media, 1992.

2) N. Postman, Technopoly: the surrender of culture to technology, 1992, in Dery Mark, Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio, 1996.

3) F. Solanas, La nube, presentato a Venezia nel 1998.

4) J. Condry, Nove milioni di nomi di Dio, 1993.

The Truman Show; regia: Peter Weir; cast: Jim Carrey, Ed Harris, Laura Liney, Natascha McElhone; USA; distribuzione UIT; 1998; 103’.

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