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Cinema

Alla ricerca dell’idea migliore (I)

Discutendo di cinema e di come scriverlo

Il gabbiano di Cechov

Voi questa mattina avete visto il film Bianca, di Nanni Moretti. Non vorrei fare una lezione, perché non sono un professore… ma vi racconto un po’ di cose su questo film, che è un film al quale sono molto legato perché sostanzialmente è il primo film che ho scritto. Prima avevo lavorato a una sceneggiatura solo in un’altra occasione, con Marco Bellocchio, quando Bellocchio aveva deciso di fare una versione cinematografica de “Il gabbiano” di Cechov. Però in quel caso, come potete immaginare, c’era un testo ‘intoccabile’ e dunque ci eravamo limitati a fare dei sopralluoghi in una villa veneta e a dividere il testo teatrale in ‘scene’. Avevamo individuato questa viila con un parco e con davanti un fiume (nel testo di Cechov si parla di un lago, però siccome la villa era in un punto dove il fiume faceva una grande ansa, poteva sembrare anche un lago). Quindi avevamo stabilito: “…questa scena avviene qui, questa avviene dove c’è la rimessa delle barche, questa la facciamo mentre i personaggi camminano su una scalinata…”. Era una sorta di frammentazione, con qualche piccola inversione. Cioè mettere prima una cosa, dopo un’altra, eccetera. Quella prima esperienza mi aveva fatto capire un problema di tagli, di ritmi. Bellocchio doveva fare un film, non intendeva fare soltanto una messa in scena, come dire, “a quarta parete”, per cui tu sei a teatro e hai una sorta di frontalità. Il cinema aveva possibilità di giocare, di muoversi, di stringere o accelerare i tempi, di stringere o allargare i ‘campi’. Ad esempio, una serie di indicazioni di Cechov relative ai suoni, ai canti che venivano da lontano, dalle colline vicine, o dai contadini che di notte facevano dei fuochi… C’è un punto molto bello in cui Irina, la mamma del protagonista, un’attrice che viene da Mosca, racconta: “Qui tanti anni fa c’erano balli, c’erano feste…”  — e allora Marco aveva pensato di visualizzare questa cosa. Infatti, nel film, c’è una bellissima sequenza dove si vede un barcone da pescatori, grande, pieno di gente vestita di bianco, che passa davanti alla macchina da presa, e sfila di notte con i canti, e le risate, e le voci…

Un finto giallo

Immagine articolo Fucine MuteIl gabbiano è del 1976. Io poi avevo continuato a fare documentari, con una piccola cooperativa assieme a Marco Bellocchio, Silvano Agosti e Stefano Rulli. Sono passati così un po’ di anni e poi — eravamo nel 1982 — Nanni Moretti mi telefona. Il suo film precedente, Sogni d’oro, era andato piuttosto male al botteghino, pur avendo vinto un Leone a Venezia. Inoltre la Gaumont, che era stata una casa di produzione importante in quegli anni e che aveva prodotto Sogni d’oro, aveva chiuso. Insomma, Nanni non aveva un produttore, ma aveva in mente un soggetto in cui voleva riutilizzare il personaggio di Michele che già aveva messo in scena nei film precedenti, e dargli una storia d’amore. Cioè fare un film in cui ci fosse una protagonista femminile. Lui aveva scritto un primo soggetto che non lo convinceva completamente. Credo che avesse anche provato a incontrare Franco Solinas, e un paio di sceneggiatori ‘importanti’, e non si era trovato.
E così Nanni mi telefona semplicemente per amicizia, perché io avevo fatto soltanto Il gabbiano e questi documentari con la cooperativa “11 marzo”, e insomma non ero uno sceneggiatore. La cooperativa nel frattempo si era sciolta, per cui anch’io non sapevo bene che fare in quella fase. Così, lui mi ha fatto leggere questo soggetto e poi ci siamo visti e abbiamo cominciato a parlarne un po’. C’era già l’idea della scuola, e del professore che si innamora di una professoressa, e si avvertiva fra le righe un’idea di scuola molto particolare, inedita per il cinema italiano. Non c’era ancora il tema del commissario, se così vogliamo chiamarlo. Quando Nanni mi ha dato questa cosa ha incominciato a dire… che sentiva che forse si poteva fare un giallo, insomma che si poteva tentare di fare un film con un intreccio. Ovviamente, fin dall’inizio era stato chiaro che avremmo fatto un “finto giallo”, nel senso che Moretti non voleva fare un film ‘di genere’.
Riepilogando: non avevamo produttore, non avevamo contratto, e in questa situazione ci siamo incontrati un po’ di volte per fare una scaletta del film, cioè per costruire una specie di trama: naturalmente la decisione presa comportava l’idea che innanzitutto per fare un giallo ci vuole un morto. O più morti. Insomma ci vuole l’omicidio e poi ci vuole un investigatore e poi ci vuole un colpevole. E così, poco a poco, si è formata una nuova struttura del soggetto, che integrava le cose del soggetto precedente con le idee nuove che ci venivano via via.

Immagine articolo Fucine MuteVoi avete presente i film di Moretti come Ecce Bombo o Sogni d’oro: sono film dove c’è il personaggio sempre in scena. Io avevo anche provato a dire a Nanni: “Forse se in qualche scena non ci sei…” ma non c’è stato verso. Diciamo che in quella fase lì (e forse anche adesso) lui si sentiva molto ‘sicuro’ per le scene che lo riguardavano direttamente: lui aveva questa doppia veste di regista e attore, e io sentivo in maniera molto precisa, lavorandoci insieme, che la cosa più forte era questa sicurezza su se stesso e sul suo personaggio. Non nel senso narcisistico di ritenersi un grande attore, ma di sapere esattamente cosa poteva chiedere al personaggio interpretato da lui; mentre invece aveva — diciamo — più insicurezze su altri personaggi, specie su quelli da lui molto distanti. Era — per me — una qualità sua molto netta, una cosa che aveva fin dal primo film, a differenza di molti altri giovani registi. A me è capitato alcune volte di scrivere per della gente che debuttava. In genere, nelle persone giovani, c’è questo elemento del coraggio, che è un elemento affascinante, ma pericolosissimo. L’elemento del buttarsi, del dire: “Be’, ci provo. Ce la faccio!”. Però spesso c’è poca coscienza di quello che non sanno fare o che è molto difficile fare. O di quello che per le proprie corde, per l’esperienza che hanno, sarà poi molto complicato fare. Mentre invece Moretti questa cosa la aveva molto precisa. Per esempio quando abbiamo cominciato a “dialogare”, nelle zone che riguardavano il suo personaggio, Nanni era molto lucido nel dire: “Questa battuta non mi viene, non saprei come impostarla” — insommacose del genere…
Poi aggiungete a questo tutte le sue fobie per un certo tipo di cinema. Come sapete Moretti ha cominciato sostanzialmente cercando di dire ciò che non gli piaceva nel cinema precedente. Per esempio tutta la commedia all’italiana. E così noi cercavamo di non fare niente che fosse già stato fatto dalla commedia all’italiana.

Mi è sempre sembrato un segno di intelligenza e originalità, tanto è vero che abbiamo cominciato a lavorare a Bianca confrontandoci soprattutto su questi limiti entro cui ci si poteva muovere. Considerate cosa poteva essere per uno che aveva poca esperienza come me (e anche Nanni in qualche modo aveva poca esperienza), il fatto di avere continuamente ostacoli, barriere, muri da non valicare. Questa serie di steccati che all’inizio mi sembravano complicati e che rendevano il lavoro particolarmente faticoso, credo abbiano rappresentato per me un’esperienza importante. In qualche modo è stato come allenarsi a saltare degli ostacoli che poi negli altri film sarebbero stati magari di natura diversa, o che addirittura avrei individuato da solo.
Insomma in quel caso lì c’era un regista che sapeva esattamente… forse è un po’ tanto dire: ciò che voleva e ciò che non voleva…ma insomma ciò che pensava di saper fare bene e ciò che pensava di non saper fare. Una volta stabilito questo, credo che poi tutto sia stato abbastanza facile. Solo che, per stabilirlo, ci abbiamo messo un po’ di tempo, cioéabbiamo dovuto chiacchierare abbastanza, capire alcune cose. Anche Nanni naturalmente capiva delle cose chiacchierando, provando, e un po’ anche scrivendo.

Dico — un po’ scrivendo — perché abbiamo sempre rimandato moltissimo il momento della scrittura vera e propria, cioè il momento in cui unoprende la prima pagina bianca e scrive: Scena 1, la intesta, dice il nome dell’ambiente, decide se è giorno o notte, se è interno o esterno. Quel momento è arrivato tardissimo, dopo che avevamo pezzi, fogli sparsi, appunti di tutti i generi, tentativi di battute, di situazioni e cose di questo tipo.

Pensi che in generale sia meglio ritardare il più possibile questa fase della scrittura, diciamo della stesura vera e propria?

lo tendo a scrivere prima possibile. Cioè a un certo punto dico: “Vabbe’, scriviamo, poi se non va bene buttiamo”. Questo deriva dal fatto che uno che ha un rapporto con la pagina scritta — nel senso che io faccio quello, scrivo — non è spaventato all’idea di scrivere e poi magari gettare due pagine. È normale, succede. Mentre spesso, per parecchi registi, sembra che se scrivi qualcosa è come se tu la scolpissi nella pietra. Il fatto è che si fa prima certe volte a scrivere, invece di chiacchierare magari cinque giorni perché non viene una battuta o una situazione. Per restare a Moretti, ci si dicevano delle cose e poi ognuno andava per dei giorni per conto proprio, si scrivevano delle cose in assoluta libertà e ci si vedeva, non so, una volta alla settimana, due volte alla settimana, e si confrontavano le cose che si erano scritte. Era bello. Però non scrivevamo mai una “vera” scena, dall’inizio alla fine.

Scrivere le scene difficili

Immagine articolo Fucine MuteIn Bianca le scene tra il protagonista e il commissario preoccupavano molto Moretti, quindi lui tendeva a risolvere, a scrivere, quelle scene lì. Mentre non era assolutamente preoccupato, ad esempio, delle scene iniziali in cui il professore viene portato in giro nella scuola dal preside che gli fa vedere le varie classi: quella situazione non lo preoccupava per niente. lo dicevo: “Vabbe’, ma poi che succede? Non rimandiamo, perché è importante, è l’inizio del film. Siamo alle prime cose…”. Però su quelle scene lui già nel soggetto aveva scritto un sacco di cose, anche molto buone, che ci sono poi anche nella sceneggiatura finale. Pensate al professore che mette “Il cielo in una stanza” e fa la lezione su Gino Paoli. O al professore timido con le sue poesie, che viene preso a palle di carta dagli studenti. Quelle cose sono state trascritte sulla sceneggiatura addirittura all’ultimo momento. Noi cercavamo dunque di scrivere le “scene difficili”. Cercavamo di scrivere alcune scene tra lui e Bianca che disegnavano lo sviluppo del rapporto tra il protagonista e la ragazza. A queste cose abbiamo dedicato molto tempo. Queste cose erano per Nanni — e anche per me — i pilastri del film. Ne La Messa è finita credo che avremo scritto quindici volte la scena in cui il sacerdote riceve in confessionale il suo amico ex-terrorista. Questo suo amico è stato in prigione, è uscito di prigione, adesso lavora in una libreria. Arriva, si inginocchia, e gli dice provocatoriamente: “Voi non c’entrate niente in quello che ho fatto? Parlavamo tutti, volevamo fare insieme un giornale, ecc, ecc…Poi io ho fatto delle scelte, voi invece non avete fatto un cavolo…”. Fin dal primo momento pensavamo che quella scena lì ci dovesse essere. Perché all’inizio il sacerdote torna dopo tanti anni nella sua città e trova una corona di amici che sono cambiati: uno vuole fare la prima comunione; quell’altro è uscito da poco di galera; c’è la coppia, ecc. E naturalmente una delle cose che ci dicevamo era che poi c’era un momento in cui lui doveva, come dire, impattare in maniera frontale con l’amico che aveva fatto la scelta della lotta armata. Una delle preoccupazioni di Nanni era che se non fossimo riusciti a scrivere quella scena lì, praticamente lui non poteva fare il resto del film. Per cui non facevamo che riscrivere quella scena. Io l’avrò scritta quindici volte, e lui anche…
Dico questo per spiegarvi che per questi due film c’è stato un lavoro molto grosso sulla struttura, sull’individuazione delle scene portanti. Adesso ho ricordato questa scena ma ce ne sono state anche altre molto impegnative. È come se uno facesse una casa, mettendo per mesi i pali di cemento importanti, e poi c’è tempo per fare i muri e quelle cose lì. Un sentimento di questo genere.

L’idea fondamentale della scena

Per altri registi è fondamentale invece l’atmosfera, il sentimento del film, una certa aria particolare, qualche cosa che tu cogli dalle primissime scene. Non riescono a muoversi, a fare veramente i primi passi dentro il film, se non sanno cosa succede alla scena 1, 2, 3, 4 , 5… Esattamente come lo spettatore. È una cosa che io capisco. Cioè anch’io sento che se tu nelle prime dieci scene, diciamo nei primi dieci minuti per capirci, hai più o meno afferrato un sentimento, un’aria…non il cuore del film che magari arriverà più avanti, però in qualche modo lo “stile”…ecco, questa cosa è abbastanza importante, perché spesso rende tutto più facile il dopo. Con Moretti questo non si riusciva a fare. Cioè facevamo la scena 50, poi la 32…e poi non numeravamo, lui non numerava. Nel senso che Nanni non credo abbia mai scritto in vita sua: “Scena 27. Casa Michele. Interno Giorno — e poi sotto — Lui si aggira nella stanza, etc…” Lui aveva dei fogli sparsi, scriveva delle cose tipo: “L’amico che vuole fare la comunione lo infastidisce.
I ragazzi stanno giocando a pallone. Lui a un certo punto urla: -Pallaaaaaaaa!-“. E scriveva palla con otto “a” dietro. Quello era il punto fondamentale, cioè era la chiusura di tutta la scena e quindi sostanzialmente era “l’idea di quella scena”. È una gran cosa avere un regista che ha quell’idea li. Perché la scena, al cinquanta, sessanta, settanta per cento, è fatta. Quello è il centro, quello è il “fuoco”. Poi certo, bisognerà spiegare, bisognerà facendo i dialoghi mettere che cosa dice l’altro amico, in che cosa lo sta disturbando e gli sta rompendo le scatole, etc.
Torno all’inizio. Fatta una specie di griglia per Bianca, abbiamo cominciato a scrivere i dialoghi in questa maniera sparsa e poi alla fine, quando ci siamo sentiti tranquilli, abbiamo fatto una stesura che a questo punto aveva i numeri, le intestazioni delle scene e tutto. Il fatto che avessimo parlato così a lungo con Nanni faceva sì che questo copione avesse intere pagine dove ci sono pochissime descrizioni di ciò che accade, cioè c’è pochissima “colonna di sinistra”.

Sceneggiatura all’americana e all’italiana

Immagine articolo Fucine MuteIn questo tipo di sceneggiatura, che si chiama “all’americana”, si scrive per esteso l’azione; al centro si scrive chi pronuncia la battuta; e, sotto, la battuta.
Queste parti lunghe che vedete qui, sono le descrizioni delle azioni: il personaggio sta facendo questo, prende un bicchiere, va di là, ecc… In certi punti di Bianca — come vedete — c’è dialogo e basta. C’è pochissima “colonna di sinistra”. Questo nome è rimasto perché una volta le sceneggiature si dividevano in due parti, a sinistra la descrizione, a destra le battute. Le parti di descrizione si continuano a chiamare “colonna di sinistra” anche se in realtà questo tipo di sceneggiatura a due colonne, detta “all’italiana”, non si usa quasi più.
State attenti a quando leggerò la colonna di sinistra — le descrizioni — nel senso che è molto importante se voi riuscite a capire come questa parte qui non sia qualcosa di “letterario”. Cioè, qui non c’è una ricerca di bello stile. C’è precisione, ci sono continuamente dei punti. Sono delle indicazioni o di psicologia del personaggio, o di ambiente, oppure sono indicazioni per i vari collaboratori che poi dovranno lavorare al film. Sulla colonna di sinistra delle sceneggiature voi avete quindi una quantità di informazioni che sono utili per lo scenografo, per il direttore della fotografia, per il costumista, per il truccatore, e via dicendo. Infatti la sceneggiatura, il copione, è “anche” una cosa tecnica. Una cosa che viene stampata in 20-25 copie e data ai vari collaboratori che la leggono e in cui ognuno segna le parti che lo riguardano. Per dire: l’operatore comincia a pensare che ha venti scene in cui dovrà fare le notti, altre in cui dovrà fare le luci cosiddette “a cavallo”, cioè tramonti e albe, altre in cui dovrà fare gli interni, e così via. E naturalmente il costumista si costruisce una specie di arco temporale: “Qui mi passano quattro giorni e quindi questo cambia vestito…” — etc… Cioè sulla sceneggiatura ognuno fa un suo lavoro e allora la “colonna di sinistra”, quella in cui tu indichi le azioni, com’è vestito, se ha la barba lunga, se non ha dormito un’intera notte ed è sfatto, se si mette una coperta addosso, se uscendo sul terrazzo è alba (continuo a dire cose che avete visto nel film), quelle indicazioni sono importanti per tutti. Nelle sceneggiature scritte con Moretti questa parte qui è ridotta veramente all’essenziale. Perché lui era “sul film” fin dall’inizio, ne era il regista e il protagonista, e dunque questa — rispetto allo standard medio — è una sceneggiatura un po’ particolare.
L’opposto di una sceneggiatura come Bianca è una sceneggiatura fatta solo dagli sceneggiatori, senza il regista. Pensate alle sceneggiature fatte per la televisione. Qualche volta capita di sapere chi sarà il regista, ma spesso capita di non saperlo, cioè viene deciso dopo. In quel caso lì, un po’ come nel cinema americano, ci sono gli sceneggiatori che scrivono e un regista che, successivamente, mette in scena. In quei casi lì allora devi descrivere di più, perché fai arrivare una cosa a uno che sostanzialmente la prende e la gira.
Quando abbiamo finito il “trattamento” Nanni ha cominciato a portare personalmente il film alle varie produzioni. Il copione non c’era ancora, c’era una cosa di cinquanta pagine che era appunto il “trattamento” di Bianca.

Che storia è?: Il trattamento

Diciamo che un trattamento è un racconto del film diviso per sequenze, o per piccoli blocchi. Non ci sono i dialoghi, c’è però una numerazione e ad ogni numero corrispondono 10-15 righe che descrivono la scena. Se dovessimo dire di Bianca, uno direbbe: — 1. Un uomo con la barba, giovane, di trent’anni eccetera, scende delle scale eccetera, e va ad abitare in una nuova casa. Si capisce perché porta una valigia, un cuscino, una sedia, una sacca, eccetera, eccetera… — Poi, 2. Entra in casa, si guarda attorno. Bonifica la vasca da bagno… — e cose di questo genere. Cioè scritto tutto in discorso “indiretto”, senza mai le battute. Quindi l’incontro con il preside, non so: — Il preside gli mostra i vari professori, ognuno dei quali ha una sua mania…- Si è un po’ generici insomma, e si dà un’indicazione di quello che poi si farà. Però c’è esposta la trama del film, si capisce che storia è, e un produttore decente capisce anche quanto più o meno può costare il film… Il tempo delle riprese si divide in settimane. Mediamente si girano i film in un periodo di tempo che va dalle sette alle nove settimane. Dieci, dodici settimane, per fare un film come Lamerica di Amelio, un film enorme, con quell’impegno che avete visto. E il trattamento consente di fare un primissimo piano di produzione e, volendo, anche un approssimativo piano di lavorazione. Si tratta di ipotesi, ovviamente, nel senso che il piano di produzione definitivo lo si fa sulla sceneggiatura. Però una prima ipotesi del costo del film viene fatta sul trattamento. Al trattamento manca però una voce importante, cioè mancano gli attori. Quindi sul trattamento si può dire: questo film, tra spostamenti, tempo di lavoro, tipo di troupe, costerà tanto. In più se ci si mette un attore tipo Moretti costerà una cifra, se ci si mette Abatantuono costerà un’altra cifra, con attori sconosciuti un’altra ancora, eccetera… Il trattamento è utile anche quando il film non si fa soltanto con una produzione italiana ma con una coproduzione. Cioè i coproduttori, che solitamente sono francesi o tedeschi (in qualche caso anche spagnoli o inglesi, ma più raramente) non si accontentano del soggetto e vogliono questa forma qui, perché sul trattamento riescono a fare una valutazione dei costi e del loro intervento in danaro. Ci sono poi registi che hanno bisogno del trattamento e registi che non ne hanno bisogno. Ma c’è da dire che è una forma letteraria tra le più infelici che si possa immaginare. Particolarmente infelice per chi, come me, ha piacere soprattutto a scrivere i dialoghi. Questa cosa di andare sul discorso indiretto… ogni tanto si mette un dialoghetto piccolo, un accenno di dialogo per far capire qual è il tono del film, però è una cosa abbastanza faticosa. Comunque, ci sono registi che utilizzano questa fase per ‘macinare’ idee, per impossessarsi della materia, cioè ci sono registi che vedono poco il film solo con cinque cartelle e lo vedono di più quando ne hanno trenta o quaranta.

La sceneggiatura

Poi si passa al lavoro della sceneggiatura, che invece significa scrivere delle scene che sono numerate, con un’intestazione… ma mi pare di dire delle cose che voi sapete sicuramente… Io intesto così, guardate il copione di Bianca: Scena 1. Cortile. Scale. Pianerottolo. Questo è l’ambiente dove si svolge la scena. Esterno/Interno Giorno. Questa ‘scena uno’ è indicata così nel senso che comincia in un esterno e finisce in un interno. Oppure: Scena 2. Casa Michele. Terrazzo. Anche qui lnterno/Esterno Giorno, perché inizia con lui dentro, poi esce fuori e va sul terrazzo. Adesso per fare degli esempi: Scena 3. Casa Michele. Interno Giorno, perché siamo solo dentro…

Come si utilizzano ulteriori diciture per specificare di più? Non so, cose come “esterno alba” o altro…

Il modo per regolarsi in questi casi è capire se tu hai una necessità narrativa importante. Allora ti conviene specificarlo. Perché considera che tra dire semplicemente che c’è un “esterno giorno” e dire che c’è un “esterno tramonto” la differenza è enorme. Perché per girare un “esterno giorno” hai tutto il giorno: d’estate si può girare dalle 7 alle 20; se invece dici “tramonto” chi gira ha solo venti minuti a disposizione. Infatti ogni volta che vedono “tramonto”… i produttori odiano il tramonto, perché la cosiddetta “luce a cavallo” crea loro dei problemi di tempo, vale a dire dei problemi di denaro. Qualche volta, se voglio indicare che devono girare, non so, nel pomeriggio, perché a quel punto è importante che sia un pomeriggio tardi, perché metti che in un giallo può essere importante quel segno lì, cioè che in quel momento sono le sei del pomeriggio… ecco, in questo caso io scrivo “Giorno basso”, che significa che la luce deve essere molto giù, come se fossimo dalle cinque in poi.

(fine prima parte)

Questa che vi presentiamo è una trascrizione del seminario di sceneggiatura tenuto a Trieste da Sandro Petraglia presso il Servizio di Cineteca Regionale del Friuli Venezia-Giulia, nel marzo del 1995. “Queste cose ci piace farle, ma purtroppo poi va a finire che non le facciamo quasi mai”, ci aveva detto Petraglia accettando il nostro invito, e questo scritto è nato anche per la volontà di aumentare i fruitori di un’occasione rara e, ci sembra, preziosa. Il testo e un po’ un copione di due intensi giorni di discussione su quell’arte/mestiere della sceneggiatura, con uno scrittore per il cinema tra i più attivi del panorama nazionale, un professionista e un autore che è passato attraverso le esperienze più diverse: dall’attività di studioso e critico al cinema autoprodotto e collettivo (con Agosti, Bellocchio e I’inseparabile compagno di scrittura Stefano Rulli), dalla serialità televisiva alla collaborazione con alcuni dei migliori registi del nostro cinema come Moretti, Amelio, Risi, Del Monte, Luchetti, Mazzacurati. Le scelte sui progetti forse basterebbero già a delineare una forte identità d’autore, e lasciamo a migliori esegeti il compito di analizzare a fondo l’abilità di narratori per lo schermo di Petraglia e dei suoi collaboratori, la loro costante ricerca di storie, personaggi e modi di raccontare interessanti, non facili, non carini.
Alla trascrizione completa sono stati apportati alcuni tagli e alcune modifiche per rendere più agevole la lettura, ma abbiamo anche cercato di conservare il più possibile la forma di queste lezioni che erano anche incontro tra persone, dialogo, digressioni, aneddoti. L’analisi del film Mery per sempre, che in classe si avvaleva dell’immediata visione dei brani analizzati, era forse la parte più difficile da rendere sulla pagina, ma siamo certi che alcuni piccoli problemi di comprensione saranno riscattati dal valore del materiale.

Stefano Dongetti
curatore della pubblicazione

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