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Palcoscenico

Gassman dentro e fuori

C’è un momento in “Profumo di donna” (Dino Risi, 1974) che da solo vale tutto il film: ed è quando il capitano Fausto Consolo (V. Gassman), reso cieco dall’esplosione di una granata, si arrende finalmente all’amore disinteressato della sua infermiera Anna (una Agostina Belli troppo spesso ricordata solo per la snervante dolcezza azzurra del suo sguardo).
A posteriori di questa sequenza pre-finale lo spettatore s’abbandona all’emozione, dopo che per più di due ore gli è stato riversato addosso cinismo e rancore a piene mani, grazie a un personaggio che della durezza e dello sdegno ha fatto percorso quotidiano.
Ma c’è di più: mai si era vista, al cinema, tanta miracolosa mimesi naturalistica: il non vedente di Gassman (che rinuncia agli occhiali scuri e promuove uno sguardo in tralice di struggente vacuità) è convincente e mirabile come forse solo Nicol Williamson nel tristissimo “In fondo al buio” (Laughter in the dark, 1967) di Tony Richardson.
A fronte di quasi duecento titoli affrontati sul grande schermo (e attorno al centinaio ammontano quelli per il palcoscenico), Vittorio Gassman si è segnalato come una delle figure-chiave dello spettacolo del Novecento.

Immagine articolo Fucine MuteIl soprannome di Mattatore nasce al finire degli Anni Cinquanta,quando la Rai commissiona al già popolare Gassman una funambolica e ridondante trasmissione televisiva quotidiana, in cui l’artista genovese si prodiga e si produce come non mai, attraversando generi e stili con una sorta di irridente, arrogante candore.
Il successo è tale da avvallare un’immediata trasposizione cinematografica, che s’intitola come il programma, Il Mattatore.
Ma qual è il nesso tra una trasmissione televisiva del 1959 e un film della seconda metà degli anni Settanta? Consiste nel fatto che sono antitetiche, lampanti esemplificazioni di due Gassman esistenti sulla piazza: quello intimista, psicologicamente rarefatto, non immune da attacchi d’aggressività (della specie inattesa, tipica dei timidi), il primo, completamente fuori le righe; eccessivo, di sapore circense il secondo.
Qual è il vero Gassman? Tullio Kezich recensendo una delle tante commediole “alimentari” interpretate da Vittorio Gassman nei prolificissimi (per lui) Anni Sessanta, vale a dire “Il Tigre” (Dino Risi,1967), esemplarmente individua questa dicotomia:

“Il Mattatore nel film non sta fermo un minuto: blatera, brancica le attrici, si fa sorprendere mentre fa la pipì, si lascia cogliere in mutande: sembra voler distruggere, come per fatto personale, la memoria dell’altro Gassman, quello di Adelchi e di Amleto, il pupillo di Silvio D’Amico: fa di tutto per cancellarne l’immagine, e di questo passo ci riuscirà”.

In realtà, ad un’analisi approfondita, tutta la ricca carriera di Gassman appare percorsa da questo vizio di forma: le cronache giovanili ce lo raccontano come uno svogliato studente di Giurisprudenza, con una persino fastidiosa e imbarazzante facilità per la conoscenza e lo studio delle lingue, vive o morte che siano.
A toglierlo da una stagnante situazione d’impasse provvede la madre Luisa Ambron, che con Vittorio ha stabilito un reciproco patto di intima “alleanza artistica”: è lei infatti a consigliargli l’iscrizione al Corso di Dizione e Recitazione presso l’Accademia d’Arte Drammatica di Roma,dove buona compagnia trova in Luigi Squarzina, Carlo Mazzarella, Marcello Mastroianni.
Non c’è modo di sottrarsi a quella che lui definisce “una vocazione artistica non cercata”: tutti si rendono conto dei già notevoli mezzi in possesso di Gassman, forse meno si rendono conto di come il Gassman che calca il palcoscenico abbia poco a che vedere con quello timido,dimesso,gentile che fuma in silenzio con loro dietro le quinte di qualsivoglia teatro.
Molti anni più tardi, confiderà al suo biografo Giacomo Gambetti:

“Ogni tanto mi vedo recitare, nel teatro o nella vita, con una curiosità di spettatore. E non è che lo faccio apposta,cioè non credo di rientrare nella categoria degli attori che fra virgolette si danno delle arie da attori, che recitano,che assumono delle pose. C’è proprio una frattura, una frattura che ha, ripeto, la sua componente schizofrenica. Io credo di essere leggermente schizofrenico e qualche dottore me l’ha anche detto, con delicatezza. D’altra parte, questo fatto della schizofrenia io ho finito per accettarlo e l’ho addirittura vanificato, ogni tanto, per spenderlo in termini teatrali. E lo spettacolo “Sette giorni all’asta” del 1973 fu la punta più avanzata di questo tentativo di far coincidere e di utilizzare, anche economicamente, la schizofrenia espressiva che esiste, com’è noto, in tutti gli individui, e in alcuni un po’ di più. Direi che questi sono discorsi abbastanza ovvii, banali e conosciuti a tutti e noiosamente ripetuti”-

A proposito di schizofrenia, non sarà inutile rimarcare come il cinema abbia spesso “fatto confusione” con Vittorio Gassman: utilizzato per quasi dieci anni unicamente nei ruoli di villain o di belloccio (spesso, orrore, perfino doppiato!), parte già con il piede sbagliato con il film d’esordio, “Preludio d’amore” (1946) di Giovanni Paolucci, dove il disagio e l’impaccio del protagonista sono evidenti. Gassman amaramente ricorda:

“Ero truccato da biondissimo, un po’ da vichingo.
La storia era abbastanza improbabile e giorno dopo giorno un certo disagio serpeggiò anche allora, e vedendo il film, il disagio si accrebbe…”

Purtroppo il futuro cinematografico di Gassman non uscirà da questi argini per diversi anni a venire, tanto che molto dopo invelenito dichiarerà: “La prima parte della mia carriera cinematografica? presto detto: quindici anni di boiate…”
E non siamo lontani dal vero: se il famigerato “Riso amaro” di Giuseppe De Santis (1948), che pure qualche merito storico-cronachistico lo conserva, colloca Gassman in un ruolo da “farabutto efferato”, impegnato a tormentare una giovanissima e fascinosa Silvana Mangano (la cui femminilità lacustre diverrà un’icona del cinema italiano), i foschi melodrammi a venire (“Il lupo della Sila”, “Una voce nel tuo cuore”, “Ho sognato il paradiso”, “Tradimento”, ecc.) non faranno che complicare la situazione, appesantendo il controverso rapporto di Gassman con la macchina da presa.
Dicotomia tra teatro e cinema: è indubbiamente un nodo nevralgico nella carriera di Vittorio Gassman, e della sua esperienza personale in passato ha anche relazionato con il fido biografo Giacomo Gambetti, confessando un irrisolto, conflittuale legame con la recitazione tout-court:

“Oramai mi ribello persino in maniera violenta quando mi pongono (come a tutti gli attori del mondo) la questione se è meglio il teatro o il cinema, però per quello che mi riguarda soggettivamente, obbligato a una scelta come nel gioco della torre, non c’è dubbio che sceglierei il teatro. Dopo vari pencolamenti (io ho iniziato, nello spettacolo, come attore di teatro. Ho odiato il cinema nella prima fase, anche perché il cinema mi odiava e mi trattava male. Poi ho avuto anche i miei disgusti per il teatro e probabilmente continuerò ad averne fino a novant’anni). Il teatro ritorna, ecco, ritorna sempre fuori con una regolarità che credo sia insita proprio nelle mie scelte di base, nelle mie inclinazioni naturali.”

Immagine articolo Fucine MuteBisognerà attendere l’arrivo di un regista sensibile e duttile come Mario Monicelli perché Gassman conquisti una sua verità psicologica sul grande schermo. Sorvoleremo (o quasi) sugli Anni Cinquanta privati e pubblici del Mattatore: il matrimonio americano con l’attrice Shelley Winters sembra più un passaporto per le frequentazioni cinematografiche hollywoodiane che un moto dell’anima, così come poco peso hanno nell’economia generale qualche invettiva colorita ai critici “censori” dell’epoca e le acredini nei confronti di poco lungimiranti organizzatori teatrali.

Vi sono, è vero, un paio di dignitose esperienze americane davanti alla macchina da presa, dove finalmente il talento drammaturgo di Gassman viene preso seriamente in considerazione: “Il muro di vetro” (The glass wall, Maxwell Shane, 1952) e “L’urlo dell’inseguito” (Cry of the hunted, Joseph H. Lewis, 1952) non sono opere disprezzabili, ma sarcasticamente Gassman getta benzina sul focolaio della polemica:

“Capitai in quel periodo nelle mani della Metro Goldwyn la quale, un po’ anche per motivi ovviamente reclamistici, pubblicitari e rotocalcheschi, perché era il periodo della mia storia con Shelley Winters eccetera, mi fece il solito contratto settennale, che io accettai per pura avidità di denaro e di successo oltreoceanico. E cominciai subito a litigare con questi imbecilli che reggevano la Metro. Erano gli anni peggiori del cinema e della storia americana, direi: gli anni del maccartismo, gli anni della politica dei grandi studios, di una retorica, di un puritanesimo, di un’imbecillità totale. E loro non capivano che io ero già un attore teatralmente formato, anche se lo sapevano indirettamente (anche perché io glielo dicevo), e ogni tanto mi prendevo delle rivincite, facevo dei recitals intellettualissimi, a cui venivano Charlie Chaplin o Charles Laughton, eccetera, e continuavo a dirgli: guardate che io sono un intellettuale e poi ho una faccia da figlio di mignotta, come latin lover faccio schifo, insomma non… Ma loro si intestarono e allora cominciò una breve ma nutrita serie… di capolavori”

Accennavamo prima a Mario Monicelli: regista di infallibile mira, tra i padri della commedia all’italiana era, come ricorda Gassman, uno dei pochi uomini di cinema ad andare qualche volta a teatro. Vide Gassman recitare, gli piacque molto, e fece capolino nella sua mente l’idea di una possibile collaborazione: era infatti in procinto d’iniziare la sceneggiatura dei “Soliti Ignoti” che, grazie anche alla presenza nel cast di nomi di richiamo quali Totò, Marcello Mastroianni e Renato Salvatori, poteva pronosticarsi come un sicuro successo. Monicelli non aveva però fatto i conti con il produttore Franco Cristaldi, a cui l’idea di un Gassman comico, popolaresco, ma soprattutto credibile come “animale cinematografico”, non andava proprio giù. Fu quindi battaglia aperta per averlo nel cast, cosa che avvenne solo dopo una complicata rielaborazione estetica.

“Monicelli insistette molto, e con il notevole aiuto dello scenografo Gherardi, mi combinò una faccia, cioè mi fece praticamente una laparotomia alla faccia,mi sbassò la fronte, mi allargò le orecchie, mi allargò il naso, mi distrusse come idolo marmoreo, storico, e fece di me un personaggio simpatico, usando, certo, anche delle mie qualità d’attore che indubbiamente credo che avessi.”

Immagine articolo Fucine MuteCome si vede, dunque, siamo di nuovo di fronte ad una metamorfosi: se psicologicamente Gassman vivrà ad intermittenza quelli che lui definisce “lampi di schizofrenia”, pure l’ambiente lavorativo esterno lo pone in discussione, ne lima alcuni lati, ne discute l’inarrivabile figura teatrale. Gassman, conviene ricordarlo, non godrà mai appieno dei favori del grande pubblico, umanamente verrà sovente considerato un “antipatico vocazionale”.
Nel frattempo, però, si è reinstallata una carriera cinematografica traballante, che in quel periodo gode di almeno altri due titoli di spicco (“La grande guerra”, 1959, memorabile duetto drammatico con Alberto Sordi, “Crimen”, 1960, con la spassosa tripletta Gassman — Sordi — Manfredi), mentre di poco antecedente è la prima regia cinematografica di Vittorio Gassman, quel “Kean genio e sregolatezza” che chiarirà (e oscurerà) il quadro analitico-psicologico.
Edmund Kean, attore inglese degli inizi dell’Ottocento, fu famoso per la sua genialità ma anche per la sua intemperanza. Perennemente afflitto dai debiti, un carattere collerico e rissoso, non si peritò di contendere al principe di Galles, suo compagno di bagordi, le grazie della contessa Elena.
Un personaggio così, sempre in bilico sui margini, non poteva che far scattare in Vittorio Gassman un meccanismo psicologico di identificazione, e non è un caso che recensendo il film, uscito nel 1956, il critico Ugo Casiraghi dichiari:

“Vittorio Gassman, attore anacronistico, che vive per combinazione nella nostra epoca mentre ha tutte le caratteristiche di un teatrante dell’Ottocento, ha trovato in Kean il suo personaggio. Quello di Kean è un Gassman che ironizza su se stesso, che si prende elegantemente per il bavero più di quanto non siano riusciti a fare i giornalisti quando si sono sfogati contro le sue interpretazioni cinematografiche. Viene così sfatata la consuetudine che faceva di Gassman un attore abnorme e sinistro, refrattario alla misura e alla comunicatività che lo schermo esige, un profilo cattivo e insopportabile, come in Guerra e pace e in tanti altri film.”

In effetti con questo film Gassman si crea una sorta di auto — omaggio, vendicandosi del brutto trattamento riservatogli dal Grande Schermo, giocando abilmente il proprio ruolo sul doppio pedale della drammaturgia e del grottesco-ridicolo, firmando la sua prima regia cinematografica, imperfetta forse ma sincera nei risultati.
Nel rapporto sempre problematico e controverso di Vittorio Gassman con la recitazione, il teatro ha rappresentato un canale di sfogo preminente, soprattutto da un certo momento in poi, quando l’attore genovese conquista una sua indistruttibile autonomia artistica, e può quindi rivolgersi ai settori teatrali che predilige, incanalando le esperienze personali nei testi che sceglie di mettere in scena.
Negli anni Settanta il testo-pilastro di questo costume artistico fu senz’altro Affabulazione di Pierpaolo Pasolini, un lavoro lungo e difficile, dalle molteplici chiavi di lettura, che Vittorio Gassman rende magistralmente nei termini di una “autocondanna-confessione” pubblica.
Gassman non nasconde il proprio coinvolgimento emotivo a riguardo di quest’opera incentrata sui rapporti tra i padri e i figli:

“Mi sono imbattuto nella lettura di Affabulazione che mi ha affascinato, e l’ho fatto ritenendolo importante, e tuttora penso veramente sia uno dei successi più seri che ho avuto. Forse per la prima volta ho avuto veramente paura, ma mi sono detto: va be’, vale la pena, secondo me è talmente bello che vale la pena di rischiare e di farlo vedere. E questo si è tramutato in un successo molto grosso, tre milioni in media di incasso al giorno per un testo come Affabulazione credo sia abbastanza raro”.

Del decennio precedente particolare e auto-indagatorio resta il “Riccardo III” di Shakespeare fatto nel 1968 con Luca Ronconi (unica collaborazione trai due), in cui il nodo nevralgico drammaturgico, anche in certe sue soluzioni di sgradevolezza mista ad eccesso, paga il suo debito al “Gassman reale”, che viveva un periodo privatamente negativo, un momento di divorzi sentimentali ed artistici, di radicalizzazioni teatrali, di scelte, di riesaminazione della propria identità d’artista.
Fu un periodo “ostico” per svariate ragioni: anche il molto denaro arrivato, (essenzialmente dal cinema) le consacrazioni e i plausi dei colleghi (tra cui Laurence Olivier, notoriamente piuttosto parco di elogi verso i colleghi), invece di gratificare Gassman servirono a confonderlo: un “eccesso di successo”, lo definì qualcuno.
E, nel mezzo, il rischio che ad illanguidirsi, a farsi stucchevole, un po’ desueta, sia l’immagine dell’Artista, invisa a chi psicologicamente continua a ritenersi un “vulnerabile”.

La carriera cinematografica futura di Gassman all’interno della commedia all’italiana vedrà fondamentalmente vanificato il tentativo di proporre un’autenticità, un rigore formale o, almeno, il recupero delle caratterizzazioni felicemente ispirate dalla mano di un Monicelli, o di un Dino Risi. Un mare di pochades svenevoli e inconcludenti, in cui stancamente Gassman rifà se stesso, aiutandosi con una comicità di facciata, con il costante ricorso a belle figliole di contorno.
In un’intervista sinceramente rivela:

“Confesso di aver dato spesso del filo da torcere ai miei estimatori, e argomenti in quantità a quanti asserivano che al cinema sprecavo delle occasioni, disperdendo il mio talento: detta tra noi, avevano pure ragione…”

Il terzo incontro “miracoloso” per il Gassman del grande schermo è il compassato, taciturno Ettore Scola, uomo di lucido senso cinematografico, già elemento di spicco di una compagine di sceneggiatori attivissimi nel cinema italiano degli Anni Sessanta: Age (Agenore Incrocci), FurioImmagine articolo Fucine Mute Scarpelli, Ruggero Maccari, Sandro Continenza.
Scola conosce ed apprezza (nel corso di lunghe serate di vino e chiacchiere) il Gassman della dimensione privata, familiare, quello non costretto ad impalcature caricaturali o fittizi asservimenti alla maschera artistica mercantile.
Scola debutta nella regia proprio con Vittorio, in un film ancora debitore a moduli e schemi scontati, “Se permettete parliamo di donne” (1964), non certo un capolavoro, anche se vi compaiono alcune tra le più affascinanti starlets del periodo, ma è sopratutto un film che permette la fusione di due antitetiche figure artistiche, capaci di generare, nel decennio seguente, un apologo disperato e malinconico quale “C’eravamo tanto amati”.

Vittorio Gassman apparve più che soddisfatto di questo lavoro, che definì “un film di grande dignità, in cui ho fatto uno dei pochi personaggi totalmente disinvolti e naturali, naturalistici diciamo, della mia carriera, con un buon risultato.”
Di Scola è anche “La famiglia”, affresco simbolico e per certi versi storico su cinquant’anni di storia italiana (visti attraverso le generazioni di una famiglia della media borghesia romana), film in cui Gassman concede poco o nulla al facile applauso, ritagliandosi il ruolo di capofamiglia, una sorta di trait d’union del film.
Si tratta di una delle opere più composite di Scola, non a caso ripetutamente lodata dalla critica italiana e francese anche grazie a un montaggio oggettivamente superbo.
E di famiglia, di vincoli spontanei o cercati, Gassman narra spesso nella sua autobiografia del 1981, “Un grande avvenire dietro le spalle”, in cui, facendo sfoggio di una notevole dose di understatement, solleva signorilmente solo il coperchio della sua vita abbondantissima di esperienze (e duecentoquaranta pagine certo non bastano, forse neppure il doppio).
Ad una famiglia con tutti i crismi del caso è approdato solo negli Anni Settanta, con Diletta D’Andrea, compagna di vita ancora oggi, una donna intelligente e forte, puntuale contraltare alla fragilità nascosta del patriarca Vittorio.
Diletta è madre di Jacopo, il figlio ora diciottenne, fortissimamente voluto da Gassman a cinquantasette primavere suonate, “figlio di cui sono più nonno che padre”, sentenzia.
Ma la già ammirata spietata sincerità di Gassman arriva a fargli confessare:

“Certo, io ho pagato dei pedaggi, ho dovuto pagare e far pagare dei pedaggi, non c’è dubbio. Mio padre è stato una figura molto importante nella mia vita, ha contribuito insieme a mia madre a darmi un’infanzia di una felicità senza incrinature, fin troppo, il che ha creato in me l’utopia di una felicità e di un piacere perpetuo, forse ha anche impedito la crescita di forze di resistenza alle difficoltà, e mi ha protratto in un infantilismo di base che non sparirà mai. Quello con mia madre non lo definirei tanto un rapporto amoroso quanto di complicità perché la nostra natura era la stessa, il che ci portava a litigare ferocemente”.

Il terzogenito Alessandro, com’è noto, oggi è un attore teatrale e cinematografico di buon successo. Trentaquattrenne, ironico e disincantato, è stato molto vicino al padre nei giorni bui della depressione, quando fu costretto a interrompere le repliche di uno spettacolo che stavano facendo insieme (“Camper”); Gassman, disarmante afferma:

“Il suo privilegio è palese e anche le sue sorelle lo sanno. Lui fu l’unico in grado di rompere questo muro di voluta costruzione di un mondo finto… ho recuperato con lui il senso della paternità, sentimento straordinario, con una sua verticalità, e grazie ad Alessandro sono migliorati, si sono approfonditi anche i rapporti con le mie figlie femmine”.

Eppure, delle tragedie possibili in seno alla paternità Gassman ha raccontato molto bene in “Caro papà” (1979) di Dino Risi, dove è un industriale cinico e approfittatore a cui il figlio spara addosso. Un lavoro di sconfinata amarezza, dove i sorrisi sono molto indiretti e sfumati, e dove, come rileva lo stesso attore, “si va sempre più in là nel distacco dalla commedia all’italiana che usava dieci o quindici anni fa.”
Ancora più disperata e sentita una prova cinematografica del 1976 sempre al fianco di Dino Risi, in “Anima persa”, non a caso uno dei lavori meno amati dai fan del Vittorio Gassman gigione: è la storia cupa, angosciosa e letale di una vera e propria calata agli inferi della mente.
Narra di due fratelli gemelli che vivono in una Venezia plumbea e minacciosa: uno è un austero professore di origini triestine, l’altro un povero pazzo che vive segregato in soffitta dopo aver ucciso una bambina in un impeto di pedofilia. La storia assume mano a mano dei contorni più sinistri, quando nella città lagunare arriva un giovane nipote del professore, che insospettito dai rumori provenienti dal piano di sopra e perplesso di fronte alla pallida, emaciata, sofferente moglie dello zio (Catherine Deneuve), contravviene all’ordine impartitogli di non varcare la fatidica soglia della soffitta e scopre, con orrore che lo zio sano e quello matto sono la stessa persona!
Si tratta, come accennavamo, di una delle più convincenti prove sul set di Gassman, esemplare e luminoso esempio di quella “schizofrenia” di cui tanto abbiamo parlato in questo saggio: cosa sono, i due Gassman presenti nel film, in questo sottovalutato horror crepuscolare di Risi, se non il lato dimesso e quello eccentrico della stessa medesima figura artistica e umana?

L’ultimo Vittorio Gassman (togliamoci questo sassolino dalla scarpa) non ci convince appieno: se l’applauditissimo, pubblicizzatissimo “Anima e corpo” pur nella sua struttura elefantiaca di pamphlet autocelebrativo, conservava ragion di esistere, il più recente “Addio del mattatore” (che pure a Roma ha indotto il pubblico a tirare fuori i fazzoletti) moltiplica i dubbi e i fastidi.
Infastidisce, per esempio, la stessa tracotanza che in altri frangenti ci aveva entusiasmato, la battuta velenosa sempre pronta a danno di colleghi invero dignitosissimi, il facile e morboso indulgere ad una scelta di repertorio dilatata su un se stesso medesimo sempre più logorroico e berciante.
Capita insomma che con la vecchiaia Gassman si sottragga a un più che puntuale passaggio del testimone, e continui a riproporci il desueto mito del Grande Attore che pure già ci è stato somministrato in tutte le salse.
Più credibile (perché umano e reale) il Gassman della depressione, così stanco e sofferente, che si schernisce davanti alle telecamere, e che poi comunque dalla malattia esce vincitore, ridonato in seno alla sua arte, e che dei propri malanni riesce anche a scrivere (“Mal di parola”, 1995).
Ancora di più ci piace il Gassman delle letture dantesche fatte per la televisione, un ottimo, eccellente servizio reso ad Alighieri, una regia teatrale e televisiva digiuna d’orpelli: Gassman nudo e crudo, un leggio a far da corollario.
Insomma, se addio alle scene deve essere, che sia per una volta elegante, anche un po’ ridanciano e malinconico , rispettoso di quello che è stato il suo passato, ma nei limiti di un senso della misura che a settantasei primavere scoccate Gassman arretra ad avere.

Rapporti d’arte, di lavoro, di soldi e di amicizia, quanto hanno dato e quanto hanno tolto a Vittorio Gassman? I nodi legati alla “schizofrenia di base”, come la chiama lui, non paiono risolti. Il carnet artistico è ricco abbastanza da rappresentare sicura miniera per appassionati e addetti ai lavori, anche se la gassmaniana Bottega Teatrale fiorentina non esiste più è comunque ingente il lascito teatrale e cinematografico, anche nelle coraggiose caratterizzazioni da anziano (“Tolgo il disturbo” di Dino Risi, 1991, vale di più nel suo strazio senile che mille baracconate da avanspettacolo presenti negli ultimi show gassmaniani) Gassman marca un territorio di personale, inequivocabile verità.
Riflettendo a posteriori, si può rimarcare come invecchiare per un artista equivalga, più che a un canto del cigno, a una lenta e sadica “morte civile”. Eppure, basterebbe pensare a quello che ancora non è stato fatto: a chi scrive piacerebbe Gassman impegnato in una buona rubrica televisiva di divulgazione teatrale, che alla nauseabonda indigestione di Pippi Baudi opponga (e proponga) il fascino ancestrale, arcano della lettura d’un Schiller, di un Von Kleist, di un Cechov, di molti altri: in definitiva, di tutti quelli sconosciuti alle generazioni più giovani, per mancata adesione al vizio della Poesia.

Se Gassman riuscisse in tale operazione, sarebbe davvero un filone aurifero quello proposto in coda a questi tempi (non solo teatrali) grigi e incattiviti. Avremmo davvero bisogno d’un Vittorio Gassman dentro, dopo averlo conosciuto (e bene) in tutte le sue esemplificazioni fuori.

Firma di Vittorio Gassman

Vittorio Gassman è nato a Genova il 1 settembre 1922. Dopo gli studi liceali (classici) si iscrive all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, subito valorizzato dal docente Silvio D’Amico.
Tappe fondamentali della sua carriera sono Amleto di William Shakespeare del 1952, spettacolo mitico che girerà l’Italia in tournée per due anni; l’Otello del 1956 passato alla storia perché Gassman e il suo antagonista Salvo Randone si scambiavano vicendevolmente ogni sera i ruoli di Otello e Jago; svariate riduzioni da tragedie greche, e due memorabili recitals autocelebrativi e antologici, Trasloco (1971) e Sette giorni all’asta (1973), dove recupera vizi e virtù del Grande Attore.
Nel 1978 si segnala la sua versione di un lavoro di Pierpaolo Pasolini, Affabulazione.
Ha lavorato in oltre 120 opere teatrali e più di 170 sono i film interpretati dal 1944.
Ad oggi ruoli indimenticabili rimangono quelli coperti per I soliti ignoti di Mario Monicelli, per Il Sorpasso (1963) di Dino Risi, per C’eravamo tanto amati (1974) e La famiglia (1987) di Ettore Scola, per Profumo di donna (1975) ancora di Risi.
All’estero ha lavorato con Robert Altman, Andrè Delvaux, King Vidor, Alain Resnais.
Traduttore, scrittore e docente (negli anni Ottanta fondò a Firenze la Bottega Teatrale, punto di riferimento per molti giovani attori), ha riscosso plausi unanimi per la lettura televisiva di alcuni canti di Dante Alighieri (1995) e per la prova letteraria Mal di Parola, dello stesso anno.
Al momento della stesura di questo articolo era in scena a Roma l’Addio del Mattatore

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