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Palcoscenico

Giovanni Boni

Un pezzo di storia nel Gruppo della Rocca (II)

Lorenzo Acquaviva (LA): Uno degli spettacoli più importanti del Gruppo della Rocca può essere individuato sicuramente ne “Il Mandato”.

Giovanni Boni (GB): “Il Mandato” è il picco di un filone che si rifà soprattutto alle avanguardie russe in un momento di particolare ricerca che il Gruppo stava vivendo nel ’76. La messa in scena de “Il Mandato” è frutto anche dell’esperienza che un nostro attore matura con il mimo Lecoq e con il “teatre du soleil” di  Arianne Mnouchkine a Parigi, finanziato dalla compagnia. Al suo ritorno siamo andati per circa venti giorni in “ritiro” a Piancastagnaio, sul Monte Amiata, dove ci siamo esercitati in improvvisazioni sulla base degli esercizi che Marcello Bartoli aveva appreso in Francia.

LA: In che cosa consistevano questi esercizi?

GB: Andavano dall’acrobazia all’improvvisazione con le maschere, dalla mimesica sulle materie alle imitazioni animali. Durante questo periodo si sono fatte le prime vere prove de “Il Mandato” di modo che, al momento di produrlo alla Corte Malatestiana di Pesaro, il seminario svolto ha fornito la possibilità a Egisto Marcucci di realizzare una regia che in pratica era un coordinamento delle soluzioni che emergevano da tutto il Gruppo. Eravamo molto stimolati a confrontarci e ad improvvisare, mettendo in gioco capacità che facevano parte del bagaglio di ciascuno di noi ma anche tenendo conto di quanto avevamo sviscerato insieme in Toscana. La distribuzione delle parti fu eseguita nel migliore dei modi, essendoci collocati nei rispettivi ruoli sulla base di una certa libertà di invenzione. “Il Mandato” quindi si può considerare come lo spettacolo più libero dal punto di vista della ricerca personale sul personaggio, in una messa in scena che si avvale dello studio di particolari tipologie di trucco, molta clownerie e presenza del grottesco. Forse il lavoro più grottesco che il Gruppo abbia mai presentato, facendosi forte di una certa eterogeneità artistica: uno spettacolo, potremmo dire, multigenere che infatti portava in scena persino un’orchestrina dal vivo, composta in parte anche da attori e quindi inclusa all’interno del racconto.

La vicenda è incentrata sul trasformismo sociale in atto subito dopo la rivoluzione russa. Il periodo quindi in cui chi era stato defenestrato socialmente, cioè a dire la piccola e media borghesia, ma anche l’alta borghesia, cercava di riciclarsi come comunista, assumendone tutte le caratteristiche esteriori. La storia narra di un matrimonio tra il rampollo di una famiglia di nobili decaduti e una ragazza di estrazione piccolo borghese alla quale viene chiesta in dote la presenza di comunisti veri che possano fornire una connotazione proletaria all’unione dei due giovani.

Mi ricordo ancora un’entrata in scena della famiglia di nobili decaduti, la famiglia Rancidovich, grottescamente composta dal padre completamente orbo, con un solo ricciolo in avanti sulla pelata, dal figlio intellettuale alto e allampanato, dotato di un’enorme banana di capelli, e dal giovane Anatolj, che interpretavo io, un ritardato mentale che, ciò nonostante, era il più furbo della famiglia. Questi tre personaggi entravano esattamente come al circo a mò di passerella ed iniziavano subito con delle gags.

LA: Molto forte era quindi anche il richiamo all’avanspettacolo…

GB: È veramente difficile separare i generi presenti in questo spettacolo, perché‚ tutto era compenetrato. Un notevole contributo fu fornito da Nicola Piovani, che era molto attento a tutto ciò che succedeva durante le prove e sapeva esattamente quello che noi cercavamo. Le musiche erano scritte quasi dentro lo spettacolo stesso cosa che si è rivelata fondamentale, come del resto nel “Pulcinella”.

LA: Ecco parlaci un po’ di quest’altro vostro lavoro.

GB: “Pulcinella” potrebbe essere l’esempio dell’altro filone, quello derivato dalla riduzione di romanzi. Luigi Compagnone racconta le vicissitudini di Pulcinella, simbolo di Napoli, che attraversa varie tappe della storia della sua città. Egli vive in un casamiento, come lo chiama lui, popolato da tutti i personaggi delle fiabe che si contrappongono al Mondo dei Potenti, i dominatori di Napoli. Questi inducono Pulcinella a rinnegare il suo luogo di provenienza, il Mondo delle Favole, che rappresenta in un certo qual senso il popolo. Loro, i potenti, gli promettono la Bella Addormentata, di cui Pulcinella è follemente innamorato, nonostante si sappia essere stata promessa in sposa al Principe Azzurro.

Così, per amore, Pulcinella tradisce la propria gente nonostante sia stato la nominato suo rappresentante, capopolo. Pulcinella era diviso fra sei attori; ognuno interpretava una delle sei maschere che rappresentavano le tappe della sue presa di coscienza, della sua evoluzione.

LA: Quindi sei tappe di un percorso politico?

GB: Era sempre presente il discorso politico. Pulcinella ad un certo punto della vicenda, al soldo dei potenti, prometteva cinque chili di pasta nei vicoli di Napoli in cambio di consensi. Questo era un diretto riferimento a Lauro, politico napoletano, che dava la stessa quantità di generi alimentari ad ogni persona che votava per lui. I riferimenti certe volte erano spudorati, molto ben leggibili per chi li voleva cogliere. Tanto più che, in quel periodo, c’era un diffuso sentire politico nel pubblico. La riduzione del Pulcinella è stata realizzata da Compagnone insieme a due attori della Rocca, Alvaro Piccardi e Italo Dall’orto, oltre naturalmente al concorso del Gruppo stesso.

LA: A proposito come si sostanziava la riduzione da un romanzo, soprattutto rispetto al fatto che voi avevate una cifra stilistica così precisa.

Immagine articolo Fucine MuteGB: Noi sceglievamo i romanzi che fossero passibili di questa nostra interpretazione. Compagnone, nella sua scrittura, metteva già in scena l’elemento grottesco come nel caso dei personaggi delle favole. Biancaneve era raffigurata come una tedesca con le trecce incellofanate che vessava duramente i sette nanetti; Cappuccetto Rosso era praticamente una battona; la Bella e la Bestia erano dei personaggi melodrammatici. Insomma lo stile era già scelto dall’autore stesso, anche se poi veniva sviluppato a modo nostro. Peraltro un’altra delle collaborazioni importanti in questo spettacolo, e in altri, è stata quella di Luciano Damiani, che è lo scenografo con il quale Strehler ha inventato le luci e le scene dei lavori più importanti del Piccolo Teatro. Damiani era in grado di creare quello spazio illuminato, profondo e fantastico che anche nel Pulcinella ha avuto un’importanza fondamentale; semplicemente delimitando la quadratura del palcoscenico con teli color bianco e color sole‚ calando dalla soffitta un velo centrale con tagli verticali che rappresentava il casamiento e usando quattro scale.

LA: Si può dire quindi che era sempre viva l’attenzione di portare le rappresentazioni teatrali un po’ in tutti i posti.

GB: Ciò era possibile agendo sulla dimensione dello spazio. La non definizione scenografica, invece,  serviva per fornire libertà di interpretazione agli elementi scenografici stessi. Le scale infatti costituivano i diversi piani di questo casamiento e consentivano l’apparizione dei vari personaggi. Oppure erano usate anche senza il telo per rappresentare il bosco o la tribuna di Pulcinella, capitano del popolo. Tutto era funzionale allo spettacolo: il popolo veniva rappresentato da alcuni attori che infilavano la testa in un telo su cui era dipinta una folla di popolani. È difficile sintetizzare perchéé‚ era uno spettacolo molto composito. Certo l’allenamento degli attori doveva essere intenso e prevedeva molta versatilità che, assieme alla commistione di generi, era il nostro stile.

LA: Quasi una summa dell’arte teatrale potremmo dire?

GB: Sì, io credo che, tra l’altro, questo modo di procedere se ha una precisione di intenti a monte, cioè se non lo si mette al servizio di una soluzione qualsiasi ma lo si usa come esplicitazione del discorso che si vuol fare, può dare risultati artistici straordinari. Basta che ci sia una precisa identità.

LA: Di fatto come si realizzava tutto ciò?

GB: Bisogna dire che era il Gruppo stesso che prevedeva individualità di tipo partecipativo. Gli spettacoli erano corali ma partivano da singolarità espressive, perché nella nostra compagnia era necessario dare spazio alla “deflagrazione artistica” individuale. Io penso che solo così un gruppo riesce, come ha fatto quello della Rocca, a diventare veramente alternativo ad un modo di fare teatro che è fermo al primo attore, al secondo attore, alla terza paga, al primo camerino. Una delle tante altre cose che mettevamo in pratica consisteva nella rotazione delle prime parti. Si sceglievano i testi anche in funzione della distribuzione dei ruoli in modo che il primo attore non fosse sempre la stessa persona. Si doveva dare perciò precedenza a testi che tenessero in considerazione la specificità dell’attore chiamato ad interpretare il ruolo del protagonista.

LA: Questa concezione di unità nelle diversità significava però essere un gruppo dove ognuno poteva potenzialmente sostenere la parte del protagonista. Ciò implicava, oltre ad un discorso di stile e di scelte drammaturgiche, che tutti gli attori fossero dotati di altissima professionalità.

GB: All’interno del Gruppo esisteva una dinamica propositiva che tendeva ad accrescere la ricchezza professionale del Gruppo stesso. Chi entrava, ed aveva una preparazione ancora da verificare, pian piano doveva misurarsi attraverso ruoli sempre diversi in modo da giungere gradualmente, spettacolo dopo spettacolo, ad affrontare ruoli sempre più impegnativi. In pratica si teneva conto dei diversi percorsi individuali.

LA: Si prestava quindi molta attenzione anche allo sviluppo artistico individuale.

GB: Esatto. I giovani devono avere la possibilità di “rubare” il mestiere di attore. Quando si entra nelle compagnie di grandi attori, dinamici, capaci e diversificati nelle loro peculiarità, si ha l’opportunità di imparare presto e bene. Io dico questo perché‚ sono entrato nel Gruppo della Rocca poco dopo aver finito la scuola del Piccolo. Quindi tutto doveva ancora accadere sotto il profilo professionale e il Gruppo da questo punto di vista è stato una scuola enorme, fantastica dove si aveva la possibilità di esprimere la propria opinione e nello stesso tempo l’opportunità di imparare. E comunque ogni ruolo aveva una identità precisa, ben definita che consentiva ad ogni attore di esprimere le proprie specificità artistiche anche quando interpretava personaggi di secondo piano.

LA: Dunque anche in un piccolo ruolo bisognava trovare e sviluppare il percorso che ti faceva crescere come attore.

GB: Assolutamente. Ognuno di noi era previsto come precisa individualità artistica.

LA: Tornando agli spettacoli, raccontami qualcosa della messa in scena de “Il Ruzante”…

Immagine articolo Fucine MuteGB: Ecco, “Il Ruzante” rappresenta un’altra tappa artistica e viene dopo un primo periodo di crisi, una prima defaillance all’interno del Gruppo a causa dell’abbandono di alcuni attori come Alvaro Piccardi, Paila Pavese, Antonio Attisani. Questa è la prima volta in cui il Gruppo si avvale di un regista esterno già affermato e famoso, come Gianfranco De Bosio, profondo conoscitore del Ruzante. In verità è stato De Bosio a farci la proposta dopo aver visto alcuni spettacoli del Gruppo della Rocca e avendo in mente di realizzare una specie di summa del teatro ruzantiano. Facemmo uno spettacolo di preparazione che si chiamava “Amore amore” in cui regista e attori poterono conoscersi anche attraverso verifiche con il pubblico di ottanta repliche. Uno spettacolo che è stato proposto anche nelle scuole ma è servito a noi e al regista per effettuare la distribuzione delle parti secondo il nostro modo di procedere. Volevamo che sfruttasse al meglio le nostre possibilità e l’unico modo per fare questo era metterci alla prova in questo piccolo spettacolo. Ognuno di noi interpretava due o tre ruoli diversi: Menato, Meneghello, Ruzante…

LA: Come è andata questa prima volta con un esterno nella messa in scena vera e propria de “Il Ruzante”?

GB: Direi molto bene nel senso che noi abbiamo riconosciuto l’importanza del ruolo del regista in quel momento, anche perché‚ aveva effettuato uno studio molto accurato sul Ruzante e quindi era in grado di rispondere ad ogni nostra domanda, rassicurandoci in ogni situazione. Il Gruppo poneva molte domande anche agli esterni, chiedeva molte giustificazioni riguardo alle ipotesi che i registi volevano realizzare, rendendo non molto facili le collaborazioni. De Bosio ci ha lasciato una certa libertà rispetto al Ruzante che metteva in scena di solito. Tra i personaggi de “Il Ruzante” c’era sia Angelo Beolco, sia il personaggio da lui inventato, il Ruzante appunto. L’uno e l’altro sono stati quasi sempre confusi tra loro in quanto Beolco era un nobile padovano che si divertiva moltissimo a proporsi come attore, facendosi talvolta chiamare con il nome del personaggio da lui inventato.

LA: Era un nobile dunque.

GB: Era un nobile, esattore delle tasse per il cardinale Cornaro, che viveva un po’ autoesiliato in una villa di campagna. Beolco andava a riscuotere le tasse dai contadini, dai bifolchi che perciò conosceva molto bene.

LA: E nella proposizione de “Il Ruzante” quali sono stati i riferimenti? È riscontrabile una contaminazione di stili oppure vista la presenza di un regista esterno si è voluto procedere in modo diverso?

GB: Si è proceduto innanzitutto ad uno studio approfondito sul linguaggio che nel Ruzante è un elemento determinante. In questa circostanza non avevamo però la stessa libertà artistica come ne “Il Mandato” ma De Bosio, avendoci scelti proprio per la nostra specificità teatrale, ci chiese comunque di utilizzare il grottesco in alcune scene. Era uno spettacolo che si sviluppava attorno a materiali piuttosto eterogenei di Beolco partendo da quelli giovanili di impronta giocosa se non addirittura scopertamente goliardici. Gli scritti che appartengono alla sua maturità invece sono, se vogliamo, più drammatici prestandosi quindi meno alle invenzioni di gruppo, che doveva porre più attenzione a questo peculiare realismo contadino mediato da un linguaggio così particolare.

LA: Beolco ha scritto vari testi che avevano sempre il Ruzante protagonista?

GB: Sì, sotto vari nomi, il Ruzante è sempre presente. Lo spettacolo si strutturava attorno a materiali molto eterogenei: dalle sue lettere all’Alvarotto alle orazioni di Beolco a corte. Quindi non solo testi teatrali.

LA: Il lavoro è stato organizzato in maniera tale da avere una trama comunque.

GB: Si. Di avere la storia di Angelo Beolco detto il Ruzante.

LA: Una specie di biografia scenica di Beolco…

GB: Sì. “Il Ruzante” è forse lo spettacolo che De Bosio aveva bisogno di fare dopo aver messo in scena praticamente tutti i testi di Beolco. L’assemblaggio del materiale teatrale era stato realizzato con la collaborazione di Zorzi, che è il maggiore studioso dell’argomento. Quindi lo spettacolo fu la risultante di uno studio accademicamente ineccepibile sia dal punto di vista storiografico sia da quello drammaturgico.

LA: Invece tu hai ripreso questo personaggio in una messa in scena a Bergamo; Beckett incontra Ruzante?

Immagine articolo Fucine MuteGB: Sì. Prima però bisogna ricordare un altro spettacolo, “Il Maestro e Margherita”, tratto da Bulgakov per la regia di Guido De Monticelli negli anni ’80. Una sintesi meno popolare e, diciamo così, più colta di un mondo fantastico e favolistico in cui, forse per l’ultima volta, il Gruppo della Rocca ha messo a disposizione tutti i suoi stili, tutta la sua versatilità ottenendo un successo strepitoso. Nella seconda metà degli anni ottanta anch’io ho cominciato a fare delle proposte drammaturgiche ai registi all’interno del Gruppo della Rocca tra cui quella di cui parlavi prima, in un bellissimo teatro che si trova in Bergamo alta.
Era mia intenzione portare in scena una ipotetica prima giornata di “Aspettando Godot” di Beckett, che si svolgesse molti anni prima. Negli anni ’80 infatti si sono aperte, con l’inizio della crisi del teatro politico, molte altre direzioni di ricerca. Qualcuno di noi ha proposto di affrontare autori che si prestassero di meno allo stile del Gruppo, come Beckett.

LA: In Beckett c’è una dimensione grottesca molto più quotidiana, che forse è più difficile da reinterpretare con strumenti stilistici quali l’avanspettacolo, l’acrobazia, la clownerie?

GB: Non solo. Beckett non ha contenuti sociali e politici immediati da tradurre attraverso l’uso del grottesco, che è uno stile fondato su un proprio punto di vista critico rispetto alla vicenda, ai personaggi. Beckett si può fare anche con l’avanspettacolo però è un autore molto preciso e rigoroso nella partitura drammaturgica; sono importanti le pause, i silenzi, le virgole e perciò è meno manipolabile. Quindi se fino a quel momento avevamo scelto dei testi che stimolavano la nostra libertà di espressione, con Beckett significava scegliere un autore che delimitava il nostro campo d’azione teatrale. In seguito ci siamo cimentati anche con “Il guardiano” di Pinter, autore che ci obbligava a eliminare l’uso del grottesco ed entrare nella psicologia dei personaggi.

LA: Si, ma torniamo alla tua compenetrazione drammaturgica dal “Il Ruzante” e “Aspettando Godot”, dal titolo “Echi di Babele”.

GB: “Aspettando Godot” si compone di due giornate che ho tramutato in due tempi teatrali speculari. Io volevo ambientare la prima giornata quattrocento anni prima quando Menato e Ruzante nelle campagne del padovano aspettavano il loro Godot, erano in attesa che qualcosa cambiasse, cercavano un barlume di speranza che non avevano.

Io volevo significare fondamentalmente che quattrocento anni fa, come oggi, la condizione dell’attesa di certe categorie dell’umanità non è cambiata affatto. Posso dire di essere riuscito nel mio intento incontrando i favori del pubblico anche se non ho avuto molta fortuna nella circuitazione dello spettacolo. In questa circostanza non ho potuto seguire anche la regia perché‚ essendo l’interprete principale, non avrei potuto svolgere bene le due mansioni contemporaneamente. La direzione è stata perciò affidata ad un altro regista che ha tradotto bene lo spirito del Ruzante ma non molto quello di Beckett.

LA: Come si chiama questo regista?

GB: Boris Stetka, che adesso si trova a Parigi. Un altro spettacolo che ho messo in scena insieme a Lino Spadaro e Gigi Castejon, si chiamava “Uscendo in casa” quando ormai ci trovavamo nell’ultima parte della storia del Gruppo. Drammaturgicamente consisteva in una commistione di testi di Jean Tardieu, che viene collocato nel teatro dell’assurdo per i suoi curiosi giochi linguistici…

LA: E che quindi si prestava alla vostra cifra di gruppo?

GB: Si certo. Conteneva la cifra del Gruppo anche se in maniera diversa rispetto ai lavori precedenti.

LA: Forse c’era uno scatto intellettuale in più.

GB: Il circuito teatrale viveva profonde trasformazioni; era in corso una istituzionalizzazione delle realtà più importanti nate con il decentramento che del resto si poteva ritenere ormai concluso. Peraltro nella metà degli anni ottanta si è cominciato a diffondere un teatro di altro genere, contestualmente al fenomeno dei comici televisivi che dal canto loro portavano i propri spettacoli in tournée, occupando così spazi di mercato che si erano conquistate con fatica tutta una serie di compagnie, come quella del Gruppo della Rocca.

Immagine articolo Fucine MuteComunque tornando sullo spettacolo “Uscendo in casa”, prodotto con il comune di Sesto Fiorentino, posso dire che è andato molto bene, grazie anche all’aiuto, nella regia, di Guido De Monticelli. È stato un vero divertimento tanto per noi quanto per il pubblico che ci ha seguito. In questo lavoro si coglie il dissolvimento del senso del linguaggio in alcune situazioni convenzionali. In scena era visibile una macchina celibe, come si usa dire, cioè una di quelle macchine che fa di tutto: il caffè, scandisce il tempo, fa da stufa, soffia, sbuffa, le macchine dei futuristi insomma. Questo marchingegno era abitato da una persona, che era un po’ il demiurgo della circostanza, il trait d’union che faceva scherzi, che cambiava le scene, che mutava le situazioni tra i personaggi. Questo lavoro era articolato su alcuni atti unici. Uno di questi aveva come protagonista “Il signor io” che andava in giro per il mondo a cercare l’altro se stesso, il suo clown che una volta incontrato, gli poneva domande filosofico-esistenziali. Seguiva poi “Lo sportello”, un gran bel testo, che si potrebbe riprendere vista la sua comicità dirompente, dove un omino normale, un omino da strada entra in un ufficio informazioni per chiedere l’orario di un treno e da qui inizia una specie di interrogatorio da parte dell’addetto all’ufficio che lo manda in crisi totale fino a fargli perdere il senso della realtà.

LA: Quindi la tragedia del quotidiano un po’ kafkiana….

GB: Esatto. Seguiva poi la seconda parte, “Osvaldo e Zenaide”, in cui due innamorati si parlavano del niente attraverso frasi fatte e convenzionali, accettate reciprocamente. Il terzo pezzo, intitolato “Un gesto per l’altro”, si sviluppava attorno ad una festa fatta in un castello dove chi arrivava, per esempio, invece di baciare la mano baciava il piede e faceva appunto un gesto per l’altro.
Lo spettacolo si concludeva con “Solo loro lo sanno” che era una grande tragedia vissuta intensamente dai protagonisti che però non rendevano intellegibile ciò che facevano o sentivano al pubblico, il quale assisteva così a sofferenze, dialoghi o litigi per dei motivi che rimanevano misteriosi; l’assurdo era costituito dal fatto che anche coloro che vivevano la tragedia non ne conoscevano il perché.

LA: Tutti questi lavori erano concentrati in una scenografia, in uno spazio scenico?

GB: Si. Lo spazio scenico descriveva esattamente il titolo in quanto nessuno di questi personaggi riusciva ad uscire da un proprio incubo perché‚ pur uscendo di casa si ritrovava immerso nell’incubo casalingo. Quindi esisteva una doppia scenografia costituita da una doppia stanza: una di vetro interna, illuminata da lampioni esterni, e una esterna con la tappezzeria alle pareti: quindi una stanza contenuta in un’altra. In quella esterna vivevano i burocrati, in quella interna vivevano tutti i personaggi che vi rimanevano intrappolati.

LA: Quindi erano tutti degli atti unici brevi.

GB: Si. Tardieu ha scritto solo atti unici brevi, e questo spettacolo ne prevedeva sei tutti collegati con il personaggio della macchina che muoveva un po’ tutto e si divertiva a vedere il grottesco che si faceva quotidiano.

LA: A vederlo e anche a produrlo in qualche modo…

GB: Si, una specie di fato burlone. Rimanendo comunque sul discorso di questi autori contemporanei bisogna rilevare che il Gruppo è sempre stato attento a ciò che avveniva in Europa. Quando nel 1983 uscì per la prima volta in Italia “Perturbamento”, romanzo del grande scrittore austriaco Thomas Bernhard, che è pure un notevole drammaturgo, anche se i suoi testi sono difficili da realizzare, il Gruppo si fece promotore di un convegno a Sesto Fiorentino per presentare questo autore all’Italia in concomitanza ad una produzione. La nostra fu la prima produzione in Italia di un testo di Bernhard, “La forza dell’abitudine” per la regia di Dino Desiata. Un altro autore che è stato messo in scena per la prima volta in Italia dal Gruppo della Rocca è Kolts con il suo “Negro contro cani”, cui io non ho partecipato, per la regia di Mario Missiroli.

Molto si potrebbe ancora dire su altri spettacoli importanti e sulla mia esperienza nel Gruppo ma certamente ci saranno altre occasioni.
Ora mi sto preparando ad essere bruciato vivo nei panni dell’eretico Giordano Bruno, il giorno 15 maggio in una ex miniera di talco nella Val Germanasca. Una produzione teatrale di Assemblea Teatro di Torino, con la quale collaboro saltuariamente da qualche anno

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