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Omnia

Equivoci architettonici del Postmoderno

Bisognerebbe cominciare anche oggi con una precisazione terminologica. Ci sono tante complicazioni nel significato e nella connotazione della parola Moderno: il moderno dei tedeschi non è il moderno degli americani, il moderno di Jurgen Habermas non è il moderno di Philippe Sollers. Sappiamo bene quanto sia complicato parlare di “postmoderno”, di postavanguardia, ecc. Non voglio ripetere ciò che molto bene è stato già detto ieri; ma anche io devo fare delle precisazioni riguardo al Moderno, soprattutto entrando in un campo come quello architettonico.
L’architettura è stata l’arte che ha precisato meglio il problema della modernità e della postmodernità. Credo che proprio in architettura, prima ancora che nei lavori di Lyotard, di Foucault, di Barthes, si sia parlato di moderno e postmoderno. Non dimentichiamo, ad esempio, che in architettura esiste il cosiddetto Movimento Moderno, (con due “m” maiuscole) — e ne potete trovare traccia in tutti i trattati di architettura. Ma cos’è il Movimento Moderno? è quell’architettura creata dai quattro grandi, Le Corbusier, Lloyd Wright, Gropius e Mies van der Rohe, padri di tutto il moderno architettonico. L’architettura del moderno è quindi quella degli anni ’20-’30, quando l’architettura si libera dagli ultimi retaggi dell’Art Nouveau, del Liberty, dello Jugendstil (come lo stesso fenomeno è stato denominato a seconda delle nazioni dove si è imposto) per entrare nella fase della modernità. Bisogna tenere conto del fatto che in Catalogna “modernismo” è termine che rimanda ad altra cosa. Il Modernismo catalano è il corrispettivo dello Jugendstil della sezione Viennese, del Liberty italiano; sicchè, già qui si innesca la prima confusione. Ma non solo: se prendete un qualsiasi trattato di architettura moderna, o di arte moderna, potrete verificare che nelle nostre università con la dizione di “arte moderna” si intende specificatamente l’arte del Settecento e dell’Ottocento fino all’epoca umbertina-vittoriana. Questa, e non altro, sarebbe l’arte “moderna” per le nostre accademie, anche perché dopo comincia l’arte “contemporanea”. Ci sono, a questo proposito, delle confusioni che non esito a definire enormi, e questo già attorno al termine “moderno”.

Ma parlando di architettura mi attengo a ciò che da tempo si è concretizzato: comincio, quindi, dal Movimento Moderno, che consiste fondamentalmente nell’architettura che elimina (o perlomeno mette tra parentesi) le costruzioni fatte di mattoni e di pietra, la lapidea trilitica, e che adatta i nuovi materiali moderni (cemento, acciaio, vetro) a quello che si definisce plan libre, al “piano libero”. Il “piano libero” rappresenta la liberazione della progettazione di ogni piano di ogni edificio. È piano libero perché i pilastri, lo scheletro metallico o cementizio che sostengono l’edificio consentono l’assoluta libertà delle superfici. Questo porta ai famosi “curtain walls”, a quelle “facciate continue” di vetro di un qualsiasi, normale, recente grattacielo o banca che possiamo vedere a Lugano, o a Zurigo: un cubo liscio, con i suoi rettangoli cristallini dove apparentemente non ci sono sporgenze, non ci sono terrazzi, ma unicamente facciate continue di vetro; così per i piani, che appaiono liberi da sovrastrutture di qualsiasi genere.

Questa, dunque, è l’architettura moderna, quella del Movimento Moderno. Ad un certo punto, dopo 20 anni circa, questa architettura risulta sorpassata. L’architettura che ha preso il nome di Razionalismo prima, e di Funzionalismo poi, che rispondeva alla funzionalità, che aboliva l’ornamento, entra in crisi: l’assenza di decorazioni, balconi, materiali compositi è avvertita come causa ed effetto della generale disumanizzazione urbana. Cominciano allora le lotte contro il Moderno. Comincia, cioè, quel fenomeno architettonico che molti chiamano Postmoderno. Certo, le etichette variano: per alcuni il postmoderno è vastissimo, tanto da comprendere semplicemente tutto ciò che non e funzionale; per altri il Postmoderno equivale all’architettura “radicale” che sorge in Italia intorno agli anni ’60-’70. C’è poi la fitta selva di tutta una serie di gruppi architettonici — i Superstudio, gli UFO, gli archiroom, i global tools, i gruppi fiorentini e milanesi, il gruppo Archigram di Londra — che pur non costruendo quasi niente (perché gli architetti che ne fanno parte sono tutti giovani e appena laureati) realizzano dei progetti avveniristici, nei quali per la prima volta si vede qualcosa che va definitivamente contro il funzionalismo, che riadotta il decorativismo, che riprende gli stilemi del passato. Si scivola così, irrefrenabilmente, verso un “postmoderno”. A questo punto bisogna verificare che cosa dicono i grandi teorici del Postmoderno, che poi sono essenzialmente due: Charles A. ]encks, un architetto inglese che è stato uno dei primissimi iniziatori del verbo postmoderno, e insieme a lui, Paolo Portoghesi, che quasi contemporaneamente promuove in Italia un’architettura che non sia più strettamente funzionale, che abbia una maggiore duttilità e plasticità e che ricuperi qualche bagliore dell’antico splendore barocco.

Difatti vediamo che in Europa, ma soprattutto in America, si viene sviluppando un’architettura molto diversa da quella “rettangolistica”: un ‘architettura molto più plastica, piena di curve, che troviamo già in un architetto tedesco come Hans Scharoun, il creatore della Filarmonica di Berlino, uno degli edifici più ben riusciti, più affascinanti della nuova architettura, che ancora non e postmoderna ma che annuncia il postmoderno come lo intendiamo oggi. A questo punto è possibile indicare anche altri esempi nobili, come l’austriaco Hans Hollein, che crea opere molto più duttili, molto più mobili, ondulate; o Domenig, altro architetto estremamente fantasioso che appronta per una sua banca una facciata curva e delle scale tortuose molto curiose.

Uno dei precursori di questa tendenza è stato l’antropologo-antroposofo Rudolf Steiner, che negli anni ’20 crea quello strano edificio che si chiama Goetheanum, dove, assieme al cemento, Steiner utilizza anche materiali modernissimi che bene si prestano alle curve e alla plasticità inaudita dell’edificio.
I preannunci di Postmoderno sono pertanto innumerevoli: dal Goetheanum di Steiner all’Einsteintùrm di Erich Mendelsohn, architetto tedesco emigrato in America dopo l’avvento del nazismo. Penso che la cosa migliore che posso fare, a questo punto, è quella di leggervi alcune citazioni di alcuni grandi teorici del Postmoderno. Ecco per esempio Portoghesi, che scrive: “l’architettura postmoderna propone la fine del proibizionismo, l’opposizione al funzionalismo, la riconsiderazione dell’architettura quale processo estetico, non esclusivamente utilitario; il ritorno all’ornamento, l’affermarsi di un diffuso edonismo.”

Queste frasi sono molto interessanti perché Portoghesi è stato quello che ha creato nella Biennale la cosiddetta ” strada nuovissima”, la strada fatta di facciate, che riproponeva alcune delle più interessanti facciate moderne, con un vero e proprio schiaffo simbolico a tutti gli assertori del Funzionalismo e del “piano libero”, per i quali la facciata non esisteva. Il Movimento Moderno non tiene conto della facciata perché l’edificio è costruito sopra uno scheletro metallico o cementizio; Portoghesi, invece, rivaluta la facciata, dà nuovamente importanza alle sue decorazioni, alle venature, rimettendo in piedi quel concetto di “architettura come arte” che era stato quasi abolito. Ricordo quando feci un paio di lezioni alla famosa scuola Hochschule fùr Gestaltung di Ulm dove le parole “bellezza” e ” design” (che io pronunciavo come convinto anti-funzionalista) facevano inorridire l’intero corpo docente. Questo accadeva perché a parere loro non si sarebbe dovuto parlare di bellezza di un oggetto di design se non in relazione alla sua funzionalità. L’oggetto di design doveva essere funzionale e basta, perché dalla funzionalità ne deriva la bellezza. Il famoso binomio bello vs. utile era a questo proposito considerato inoppugnabile. È proprio contro tutto questo che si muovono architetti come Portoghesi e Jencks. Nel ’66 Jencks parla di un’architettura simbolica che sarebbe l’equivalente di quello che si è chiamato Postmoderno. Scrive Jencks:

“Parecchi di noi che oggi vengono raggruppati sotto l’etichetta di postmodernismo hanno fatto degli sforzi notevoli verso un’architettura simbolica”. Jencks sostiene che l’architettura moderna debba staccarsi dal funzionalismo e debba accettare quella valenza simbolica che ha sempre avuto l’architettura di tutti i tempi: voi sapete quanto fosse simbolico il romanico, quanto fosse simbolico il gotico, ecc.
Anche l’architettura postmoderna deve rivalutare il simbolo e attraverso le sue forme deve “semantizzare” il suo contenuto come fanno appunto Jencks e altri che affermano l’importanza di questa simbologia. Per esempio Jencks sostiene che “la mescolanza di classico e di vernacolare è una strada per l’uso di un’ornamentazione simbolica e un ritorno ad un’architettura antropomorfica e più umanistica”. Questa affermazione di Jencks è molto importante perché mette in luce l’aspetto umano e antropomorfico dell’architettura anche se lo fa arrivando alle volte a dei paradossi. Un architetto come Gaetano Pesce, veneziano che è stato molti anni a Parigi e che ora è in America, ha voluto addirittura fare delle case con una grande bocca di materia plastica al posto del portone, a dimostrare l’urgenza del simbolismo e del ritorno ad una architettura che “significasse qualcosa”, che non fosse solo utile. Vi leggo un paio di pagine di un mio testo che deve uscire tra due mesi e che parla proprio di questo: “Fu così che vennero reclamizzate e incensate alcune opere come la Piazza Italia di Charles Moore, la grande rotonda di Jencks accanto a opere di ben altro peso, come quelle di Philip Johnson, Peter Eisenman e James Stirling. Mentre da un lato i fermenti dell’architettura radicale erano valsi a incrinare la pedantesca ortodossia funzionalista, altrettanto avevano fatto americani come Venturi o Gehry.

Proprio tra questi nomi notiamo quello di Gehry, che certamente conoscete perché è l’autore del Guggenheim di Bilbao; in questo museo egli si è liberato totalmente dagli schemi del funzionalismo realizzando architetture di forme tra le più impensabili. L’interesse che desta questa architettura è dovuto al fatto che la stessa ha abbandonato il funzionalismo però si serve della informatizzazione; che non rifiuta la progettualità basata su mezzi computerizzati, tornando tuttavia a quella manualità che gli architetti del modernismo avevano rifiutato: in altre parole, per un ritorno a quella tendenza che aveva visto personalità molto importanti proprio in Italia — come il grande Giovanni Micheluzzi, morto a cento anni (due anni fa), che aveva fatto la Chiesa dell’autostrada per la quale si era servito di forme molto fluide ma costruite artigianalmente. L’architettura dei giorni nostri non si può più pensare e realizzare manualmente, mattone dopo mattone. D’altro canto se si vogliono ottenere delle curvature e delle soluzioni plastiche è indispensabile l’uso di una computerizzazione che prima dell’avvento del computer era praticamente impossibile. Ecco perché un architetto come Gehrv dice che, progettando il Guggenheim, ha realizzato il progetto a mano, con della stagnola, ha costruito il modellino e poi l’ha dato da calcolare al computer che ha reso possibile una costruzione ineccepibile staticamente attraverso misurazioni computerizzate. Per quanto si riferisce all’impostazione data fin dall’inizio al postmoderno da parte di Jencks vorrei ricordare le sue stesse parole: “a proposito del postmodernismo — dice Jencks — sono sorti molti malintesi; per questo motivo, nel ’75 mi sono deciso a usare il termine per indicare le diramazioni del modernismo. Alcune di queste tendenze sono: storicismo, neovernacolare, adhocismo, contestualismo, architettura metaforica, ecc…”. Avendo presenti tali distinzioni, divengono chiari una serie di altri punti. Il filone principale del postmoderno (Venturi, Moore, Stirling) dovrebbe essere distinto da tutte le altre correnti.

Va inoltre considerato il classicismo postmoderno di Krier e di Aldo Rossi. Già qui è rintracciabile una distinzione molto importante: si può parlare di un postmodernismo positivo e di un postmodernismo negativo: tutti e due sono nemici del movimento moderno, tutti e due vogliono un’architettura rinnovata e che riacquisti l’uso dell’ornamentazione. Tuttavia, mentre alcuni — come Riccardo Bofilì — usano un decorativismo deteriore, altri architetti — come Hans Hollein per esempio, come Venturi, come Frank Gehry — si servono di un plasticismo del tutto accettabile, che non è mai decorazione sovrapposta, ma sempre elemento decorativo che deriva dalla funzionalità dell’edificio e dalla struttura dello stesso. A Trieste, in una mostra dell’architetto ungherese Imre Makovecz, della scuola ungherese di Pecs, troviamo un tipo di architettura che tende a rifarsi all’architettura vernacolare pensata comunque nel riadattamento ai sistemi moderni. C’è in questo caso la fusione tra un’architettura che si ricorda, del passato locale, nell’intento di modernizzarne gli elementi allineandoli alle correnti postmoderne. Il Postmoderno architettonico può essere interpretato in negativo, quando è solo decorazione sovrapposta, come quello che era il postmoderno di Aldo Rossi, che applicava degli stilemi presi dal passato e li appiccicava sull’edificio moderno (Rossi utilizzava timpani, decorazioni prese dal Rinascimento applicandoli agli edifici moderni).

Questo è un tipo di postmoderno che va completamente abolito: mentre un postmoderno come quello di Imre Makovecz, di Domenig, di Hollein, è un postmoderno che è senz’altro accettabile perché è un’architettura nuova, con elementi di decorazione nonostante i quali rimangono integri i dati più importanti della funzionalità architettonica. Queste sono le basi fondamentali del problema del postmoderno in architettura e tutto ciò dà la misura di quanto sia diverso il postmoderno architettonico da quello cinematografico — che vedrete altrove ampiamente illustrato — nonché da quello letterario. Anche nel postmoderno letterario incontriamo delle differenze notevoli, per cui non potete mettere sullo stesso piano il postmoderno di un Balestrini e il postmoderno di un Hollein. Ogni arte ha la sua peculiarità linguistica, ma è interessante che nello stesso tempo, negli ultimi venti anni del nostro secolo, tanto nella letteratura quanto nell’architettura, o nella pittura (che è ormai quasi scomparsa) si siano venute affermando delle modalità che, da un lato, si rifanno al passato e dall’altro guardano al futuro nell’accettazione dei nuovi mezzi tecnici e delle nuove possibilità costruttive e linguistiche poste a nostra disposizione.

Il presente articolo è la trascrizione di un intervento tenuto per il convegno: Postmoderno?, tenuto a Trieste il 28 e 29 dicembre 1998 e organizzato dall’Istituto Gramsci F.-V.G. e da La Cappella Underground.

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