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Omnia

Postmoderno?

Spesso, negli ultimi mesi, mettendo a punto le mie idee per questa premessa al nostro incontro di oggi, sono stato allettato dalla tentazione di parafrasare l’inizio celeberrimo del Manifesto:”Uno spettro si aggira per l’Europa — il Comunismo”, e dire: “Uno spettro si aggira per il Pianeta — il Postmoderno”. Ma non ne ho avuto il coraggio: mi è parso che sarebbe stato irriverente. Il Comunismo, checché se ne pensi, è stato, nel bene e nel male, una tragedia, nel senso alto della parola: un uragano che ha investito l’intero pianeta, ha coinvolto nazioni e individui, ricchi e poveri, colti e analfabeti e, dove è passato, niente è più come prima. Ha abbattuto troni e imperi, distrutto regimi e modi di produzione millenari. Ha impresso un corso nuovo alla storia e alla cultura, ha generato ideologismi e sofismi, ma, anche idee geniali, che possiamo accettare o rifiutare, ma che nessuno può permettersi di ignorare. Ha lasciati dietro di sé libri con i quali dobbiamo fare i conti. E la querelle intorno al Comunismo è, anch’essa, tragica: pagine altissime e meschini livori; intelligenza acuta e piatta stupidità, dibattiti che suscitano ammirazione e disgusto: una tragedia scespiriana, con saggi e folli, eroi e clown.
Il Postmoderno, invece, è, veramente, uno spettro, e nessuno, forse, sa cosa sia. Un saggio che ho letto in questi giorni, e non dell’ultimo venuto, di un romanziere americano di buona fama, stiva in una pagina critici e romanzieri, che dice postmoderni, e c’è di tutto: lui e i suoi amici, Beckett, Borges, Alain Robbe-Grillet e Gabriel Garcia Màrquez, Eliot e Calvino, Thomas Mann e Musil, risalendo fino a Flaubert, Baudelaire, Sterne, Cervantes…
Egualmente, per mesi, ho letto saggi e libri di letteratura, cinema, architettura e urbanistica, economia e politologia, storici di tutte le storie, di tutti i paesi e di tutti i livelli, e, lo confesso, più leggevo più le idee mi si annebbiavano, e l’impressione ultima la posso condensare in un verso di Dante: il poeta latino Stazio vuole abbracciare Virgilio, ma questi sorridendo lo ammonisce: sbaglia “trattando l’ombra come cosa salda”: scambi inconsistevoli ombre per solidi corpi reali.

Immagine articolo Fucine MuteMa che significa affermare che il postmoderno non esiste? Come potremmo considerare uno spettro un fenomeno del quale tanto si parla, su cui si scrivono saggi e libri, su cui ci si raduna a discutere? Non basta che un alcunché sia evocato, perché assuma consistenza, almeno nelle nostre menti? Un oggetto o un concetto che nasca e viva nelle menti degli uomini non è, già solo per questo, gravido, in potenza, di effetti? E non ci ha insegnato Faust che il versetto iniziale della Genesi, In Anfang war das Wort — In principio era il Verbo, la Parola — significa che in principio era l’Atto, l’Azione: die Tat?
Si scrivono e si leggono in tanti Paesi romanzi, versi, drammi, che si dicono postmoderni. E si scrivono e leggono intorno a essi altri saggi e libri che si dicono postmoderni. Possiamo negare che esistano? Possiamo rifiutarci di chiamarli come i loro autori li chiamano? Non è bastato in passato, che altri scrittori, di volta in volta, si dichiarassero arcadi, romantici, veristi, decadenti, perché li si chiamasse cosi come essi si erano detti, e perché noi, oggi, parlassimo di Arcadia, Illuminismo, Romanticismo, Decadentismo?
Ci sono economisti, di ogni Paese, a ogni livello, secondo i quali oggi l’economia procede per vie differenti da quelle di ieri, ed essi queste vie le studiano, le analizzano, si sforzano di rinchiuderle in schemi e sistemi, e parlano, a definire il loro insieme, di economia postmoderna, o, ma sono sinonimi, di postfordismo, di postindustrialismo. Possiamo noi negare che realmente, di fatto, l’economia mondiale stia muovendosi secondo leggi che sono diverse da quelle di ieri? Possiamo noi negare che è in atto un processo enorme di mondializzazione della produzione, della distribuzione e del consumo? Che è in atto un processo grandioso, quasi pauroso, di sviluppo tecnologico, che sta modificando non solo la nostra vita materiale, ma i nostri comportamenti, il nostro modo di sentire, pensare, vivere il mondo?

E come, con quali argomenti e quale autorità, potremmo rifiutarci di chiamare questi fenomeni come chi li studia li ha battezzati e li chiama? Non ci ha insegnato già Galilei che i nomi sono convenzioni, Schall und Rauch (Suono e fumo) avrebbe poi detto Goethe, e che contendere sulle parole è sciocco? Non ci ha ripetuto Saussure che non è un buon metodo partire dalla parola per definire le cose? (C’est une mauvaise méthode que de partir des mots pour définir les choses). Non accapigliamoci dunque sul nome. Prendiamo atto che, come è naturale, ci sono oggi fatti che ieri non c’erano, analizziamoli e cerchiamo di capire, se ci riesce, che cosa il loro esserci significa, e, quindi, come dobbiamo comportarci di fronte a essi. È più serio. E tuttavia, qualche osservazione intorno al termine con cui tanti battezzano sé e il nostro tempo, possiamo pure farla, utilmente.
A me, per esempio, pare significativo che a definire la nostra età e gli uomini che operano in essa, e operando la creano, sia stato scelto non un termine che ne metta in evidenza un loro aspetto concreto, ma uno che li connota solo cronologicamente, e, quindi, in un certo senso, in modo non positivo ma negativo: per assenza. Dirsi postmoderno, penso, significa riconoscere, consapevolmente o no, che non si è in grado di trovare negli anni che viviamo dei caratteri positivi che li distinguano dal mondo di ieri. Rinascenza definirono una volta gli uomini il loro mondo; e affermavano cosi il loro rifarsi consapevole a un passato che sentivano grande e che volevano imitare, ma competitivamente. Età dei lumi dissero altri, più tardi, e con ciò si considerarono uomini che, illuminati dalla luce della Ragione, lottavano a uscire, e a far uscire, dalle tenebre; i raggi del Sole, afferma trionfalmente la chiusa del Flauto magico, ricacciano come dardi la Regina della Notte giù nelle tenebre. E altri poi parlarono di sé come di uomini positivi, protesi ad analizzare la realtà; bisognava, affermò De Sanctis, sulla bandiera dove era scritto Ideale scrivere invece Reale, e questo Reale era a sua volta, un ideale, ma positivo, concreto. Ma questi uomini di oggi non sanno che dirsi epigoni o posteri. “Bontà non è che sua memoria fregi” disse sprezzantemente Dante di alcuni dannati, e i nostri si definiscono postmoderni, come un secolo fa altri si dissero decadenti: figli di Bisanzio negli anni della sua putrefatta decadenza. Non è psicanalisi da strapazzo la mia, è, credo, psicologia spicciola ma di buon senso.

Immagine articolo Fucine MuteE poi si potrebbe fare, sul termine postmoderno, un’altra osservazione. È ambiguo, terribilmente ambiguo. Dirsi e dire postmoderno avrebbe senso solo se si chiarisse contemporaneamente, che cosa significa “moderno”: chi sono i padri di cui si è figli, quale è stato, nel bene e nel male, quel mondo “moderno” che ci siamo appena lasciati alle spalle. Altrimenti che cosa diciamo che non sia vago, ombra e non cosa salda, qualcosa che si possa toccare, abbracciare, definire?
Ma moderno è, come i suoi vari sinonimi, una parola terribilmente ambigua, perché è stata adoperata, nel corso dei secoli, infinite volte, e, naturalmente, ogni volta ha avuto un valore differente, in quanto ogni volta è stata usata polemicamente a dire l’insofferenza dei figli per i mondo dei padri e degli avi, e la loro volontà di essere diversi, altri, hoggiduani, dissero anche nel Seicento: gli uomini del presente, i vivi.
Perciò si combatté la querelle des anciens et des modernes, si pubblicarono paragoni degli ingegni antichi e di quelli moderni, cioè elenchi ragionati dei caratteri del tempo di ieri e di quello di oggi, ed essere moderni fu spia di una orgogliosa coscienza di sé: “può nova progenie canto novello fare” cantò Campanella, e Giordano Bruno aveva già osservato che un nano sulle spalle di un gigante — il lungo grande passato — vede meglio, più lontano, di quello.
Poi vennero altri moderni, quelli dell’Illuminismo, e fu un moto europeo, complesso, enciclopedico, che voleva abbracciare tutte le attività e tutte le arti: quelle “liberali” e quelle “meccaniche”; che segnava con chiarezza i suoi inizi e i suoi padri: Galilei e Newton; che conosceva la propria complessa varietà, ma si riconosceva unitaria nella comune applicazione di uno stesso spirito, il quale si poteva battezzare variamente (filosofico, analitico, sistematico, e via dicendo) ma era uno e doveva e poteva essere applicato all’analisi della natura come a quella dell’uomo, alla politica come alla economia, alla vita morale come alla letteratura.
Poi vennero i romantici, e di nuovo si dissero moderni, e in nome della loro modernità rivoluzionarono tutto. La poesia loro era quella dei moderni contrapposta a quella degli antichi, ed essi erano democratici in antitesi con gli aristocratici, e — gliela avevano elaborata i secoli della lunga incubazione da “borghesi” nelle età aristocratiche — avevano una coscienza sicura di sé e del loro essere, un’etica nuova, un gusto nuovo, un senso vivo del Bello.
Ma quando l’artista o il filosofo o l’economista postmoderno si dichiara figlio o continuatore o erede o ribelle della modernità (cose assai diverse fra loro, che andrebbero chiarite, ma non lo sono!), di quale modernità si dicono eredi o figli ribelli? Se no, se non mi definiscono con precisione cos’è la modernità alla quale si riferiscono, che significa il loro essere postmoderni?

Apro un volume di uno storico della filosofia e delle idee: il discorso filosofico della Modernità di Eric Hobesbawn (è dell’85), e posso consentire o dissentire, ma capisco di che stiamo parlando. Già nelle prime pagine Habermas scopre le sue carte, chiarisce che cosa intende con la parola die Moderne, l’estensione che le dà seguendo Max Weber e la sua descrizione, “dal punto di vista della razionalizzazione”, della “profanizzazione non solo della cultura occidentale bensì anche soprattutto dello sviluppo della società moderna”. Poi traccia una rapida storia del termine “modernizzazione” e con Hegel definisce la modernità come la coscienza “di attingere la propria normatività da se stessi”. Poi passa a Baudelaire a Benjamin, eccetera eccetera. Può avere ragione o torto, può convincere o no, ma, in ogni caso, chiunque possegga gli strumenti concettuali necessari a capire il suo discorso, capisce di che parla: che è la premessa necessaria per qualsiasi dialogo. Ma cosa, invece, possa capire di un saggio sulla letteratura postmoderna in cui l’autore afferma solennemente che lui non potrebbe mai aderire a un club letterario che non contasse fra i suoi membri “l’espatriato colombiano Gabriel Garcia Màrquez e il semiespatriato italiano Italo Calvino”? (John Barth, La letteratura della pienezza, Fiction postmoderna, in P. Carravetta — P. Spedicato, Postmoderno e letteratura, Milano, Bompiani). L’essere espatriati (ma l’uno per solide ragioni politiche, l’altro per ragioni sue, strettamente private!) può essere un carattere significante sufficiente per essere attruppati in una stessa scuola letteraria e in una stessa concezione del mondo? E come discutere fruttuosamente con chi ritiene che il termine postmoderno presuppone una teoria della periodizzazione? Non è questa una verità lapalissiana, a patto però che questa teoria sia posseduta e applicata correttamente? Ma come discutere con chi invece afferma che periodizzare è un’operazione troppo difficile, e che perciò è meglio “lasciare il postmoderno non definito, non concettualizzato, almeno per il momento, considerandolo una sorta di ‘differenza’ artistica e una ‘traccia’ in mezzo a noi”!? (Ihab Hassan, La questione del Postmoderno, in Carravetta — P. Spedicato cit.).

E’, veramente, la storiella delle montagne che partoriscono il topolino. Si urla che il postmoderno è una innovazione radicale, tanto che lo si oppone a una fase di storia, la modernità, e poi si finisce con il considerarlo una semplice poetica, al massimo un modesto episodio culturale: una “traccia”!
Potrei continuare; ma non ne vale la pena. È questo il vizio di fondo, la tara di ogni discorso sul postmoderno: lo si presenta come una rottura radicale: una coupure dice in francese, Jameson, ma non si fa il minimo sforzo per istituire un rapporto organico fra la propria particolare disciplina e le altre, fra la cultura e il moto complesso della storia.
È questo il punto essenziale, quello che siamo chiamati a chiarire. Prendere atto, ripeto, delle innovazioni che caratterizzano il mondo di oggi, e lo fanno “moderno”, diverso dai precedenti: l’espansione inarrestabile dell’economia di mercato; il continuo irruente sviluppo tecnologico, che investe ogni settore di attività e modifica radicalmente il nostro modo di vivere e di pensare; il viluppo di reazioni contrastanti che questi fatti producono, soprattutto l’insorgere contemporaneo di due gruppi di spinte: la spinta, o le spinte, alla unificazione e alla omogeneizzazione, e per reazione, a difendersi dalla possibile perdita dell’identità, la spinta o le spinte alla separazione, o al rimpianto, sospiroso o pugnace, contro il “villaggio globale”; alle vecchie buone patrie locali, ricinte pascolianamente da siepi; alle loro parlate, le gozziane “buone cose di pessimo gusto”, i cibi della nonna, le tradizioni folcloristiche di un tempo, le modeste ma rassicuranti certezze.
Questo, questo enorme intrecciarsi di vecchio e di nuovo, di spinte e controspinte, di azioni e reazioni, di Comunità supernazionali e di minoranze in lotta per il riconoscimento della loro autonomia; queste città che si somigliano tutte, in tutti i continenti, queste folle che empiono le strade e vestono tutte alla stessa foggia, si nutrono tutte degli stessi cibi, si divertono tutte alla stessa maniera… È questo il mondo nel quale viviamo, e importa poco come lo si chiami; sono le cose che dobbiamo capire, non le parole con cui le chiamiamo. Continuiamo a chiamate atomi (vale a dire “indivisibili”) particelle che, senza alcun dubbio, sono, ognuna, un universo in miniatura, perché non potremmo chiamare postmoderno ciò che è, invece, la nostra bruciante modernità? Chiamatela pure come volete, ma a patto, però, di sapermi dire, con la più assoluta chiarezza, di che state parlando.

Il contrasto, dunque, non è sulle parole, è sulle cose, e il nodo da sciogliere è quello che già ho indicato: la vaghezza indeterminata del nome, e, d’altra parte, la pretesa che esso designi una rottura epocale e globale col passato, una di quelle rare rotture che già nel corso dei secoli, anzi dei millenni, hanno spaccato il cammino degli uomini: una coupure simile a quella che segnò il passaggio del mondo pagano a quello della “buona novella”, quell’altra che alla fine del Settecento, dopo tante rivoluzioni (quella inglese, quella americana, quella francese, quella culturale dell’Illuminismo, quella industriale) segnò la fine delle società e civiltà aristocratiche e assegnò alla borghesia occidentale, che aveva già conquistato l’egemonia, il dominio: il potere economico e politico, e gli strumenti necessari a esercitarlo.
Ebbene: i fenomeni che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi sono forse eguali, per la loro novità significante e rivoluzionaria, a quelli che ebbero luogo allora, fra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo? I romanzieri dei nostri giorni che per le loro opere si inventano poetiche che non sanno poi attuare, sono forse i nuovi Richardson, Rousseau, Goethe, Scott che crearono e imposero, come genere letterario privilegiato, quel romanzo che, intuiva genialmente Hegel, sarebbe stato la “moderna epopea borghese”? I poeti neo e postavanguardisti o i pallidi lirici “della marginalità”, quali sono i rimatori del gruppo ’93, sono i nuovi grandi poeti romantici che, figli di un secolo di transizione, piangevano il passato felice della poesia “ingenua” e inventavano quella “sentimentale”? I racconti e i film dell’orrore sono forse la sola forma di affabulazione narrativa in grado di incantare l’uomo di oggi e di farlo sognare? E Fredric Jameson è il Friedrich Schlegel di questa nuova arte, che deve fare piazza pulita delle tante maschere che ha assunte l’arte moderna da quella romantica a oggi?

Immagine articolo Fucine MuteÈ questa la domanda che suscitano i tanti libri che ho letti in questi mesi, ma nessuno mi ha saputo dare una risposta. I più avveduti hanno mostrato di sospettare, se non di sapere, quali caratteri debba avere una innovazione perché la si possa dire epocale, ma nessuno mi ha mostrato di saperne e poterne trarre le conseguenze; o nessuno ha saputo dirmi se oggi, nel villaggio globale, in un mondo che si stende per l’intero pianeta dalle coste orientali del Giappone a quelle occidentali d’America, sia questa la sola arte che esista e che conti. Così come nessuno ha saputo dirmi se le innovazioni di politica e di economia che hanno avuto luogo negli ultimi decenni, o che stanno oggi, siano tali da poter caratterizzare l’inizio di un corso nuovo di storia, così come la sostituzione dell’Aristocratico, con il Borghese, caratterizzò, due secoli fa l’inizio della “Modernità”.
Scorriamo l’elenco delle innovazioni di psicologia e di arte compilato da Jameson, il più fine fra tutti e il più intelligente. Declino dell’affetto, e sostituzione del “soggetto alienato” con il “soggetto frantumato”; decostruzione dell’estetica dell’espressione; scomparsa del soggetto individuale e quindi dello stile personale; pratica crescente del pastiche, un termine però al quale lui attribuisce un significato particolare: “una statua con le orbite vuote”. I produttori che non possono più che rivolgersi al passato, e quindi la storicità che cancella la storia. La triste conseguenza che a noi, ai lettori, non restano che “testi”.
Che quest’analisi sia esatta non lo credo; oltre tutto, la campionatura è, come sempre in tutta la critica odierna, scarsissima, condotta quasi interamente su “scuole” statunitensi. Ma, ammettiamo che l’elencazione sia esatta, che davvero sia questo il modello trionfante nella letteratura e nell’arte di oggi, basta ciò a caratterizzare un’età?

E se, come è necessario, allarghiamo lo sguardo dalla letteratura o dall’architettura alla civiltà, bastano una poetica e un certo numero di suoi prodotti perché si possa parlare di fatti epocali? Dopo la rivoluzione romantica, o dopo solo una quarantina di anni, vennero i realisti, naturalisti, veristi; dopo la Chute des Burgraves, cioè la caduta di un dramma di Victor Hugo, vennero Flaubert, Zola, Maupassant, il dilagare del naturalismo e verismo in Europa e in America, il verismo italiano…; le diciamo, queste innovazioni, eventi dirompenti epocali? Poi venne la decostruzione degli anni Novanta: il romanzo di Bourget, il fu Mattia Pascal che sonò la campana a morto al verismo, Schnitzler, Svevo, Musil, Proust… Diciamo forse che con essi cominciò un’ era nuova? E quando alla fine dei nostri anni Venti, l’invenzione del film parlato e sonoro, e poi anche colorato, uccise il giovane cinema muto e in bianco e nero, ci parve forse l’inizio di una nuova civiltà?
La conclusione mi pare ovvia. All’interno di ogni fase di storia — di storia globale, di civiltà — hanno sempre luogo mutazioni che paiono ma non sono epocali; sono solo sviluppi naturali di una situazione, e le naturali contraddittorie reazioni. In una fase di civiltà quale questa, di estensione planetaria e di innovazioni sconvolgenti, è naturale che le reazioni siano più pregnanti e più varie. Periodizzare, un’operazione sempre difficile, è diventato più arduo, e a chi volesse provarcisi mi permetterei di ricordare una osservazione di Gramsci: “Il mondo è veramente grande e terribile e complicato. Ogni azione che viene lanciata sulla sua complessità sveglia echi inaspettati”. E soprattutto vorrei invitarlo a meditare su quest’altra sua frase: “La ripetizione paziente e sistematica è un principio metodico fondamentale, ma la ripetizione non meccanica, ‘ossessionante’, materiale; ma l’adattamento di ogni concetto alle diverse peculiarità e tradizioni culturali, il presentarlo e ripresentarlo in tutti i suoi aspetti positivi e nelle sue negazioni tradizionali, organizzando sempre ogni aspetto parziale nella sua totalità. Trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione, e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità è la più delicata, incompresa eppure essenziale dote del critico delle idee come dello storico dello sviluppo sociale”. È difficile? Richiede troppa fatica? Ma perché, allora, non cambiare mestiere?

Immagine articolo Fucine MuteApplichiamo la ricetta di Gramsci al problema del postmoderno; d’altra parte, non è solo di Gramsci: è la ricetta della ricerca, scientifica o storica che sia, da Aristotele ad Einstein.
Apriamo un libretto di cui si è appena celebrato il centocinquantesimo anno: il Manifesto di Marx ed Engels. Rileggiamo insieme non la seconda parte, la più ampia: quella utopistica che assegnava al proletariato e al Comunismo la distruzione della società borghese e l’instaurazione di una edenica società senza classi e senza Stato. Fermiamoci alle prime pagine, quelle in cui Marx ed Engels analizzano il compito eversore che la borghesia, talpa paziente, ha svolto nei secoli, erodendo la società delle aristocrazie e preparando la propria riscossa: la rivoluzione che negli ultimi decenni del Settecento e poi nei primi dell’Ottocento la stessa borghesia ha compiuto. Sono pagine che ho sempre lette e rilette con pieno consenso intellettuale: grandi splendide pagine, un modello di storia delle idee e dello sviluppo sociale. Ho sempre pensato così, e sono stato felice, mesi fa, di trovare conferma della mia convinzione nella premessa alla sua edizione inglese del Manifesto a opera di un altro storico di razza, Eric Hobsbawm.
Sono, le pagine del Manifesto, un consuntivo, e, intanto, una estrapolazione: il quadro del mondo dopo una cinquantina di anni del dominio borghese, e un quadro del mondo futuro, quale il dominio della borghesia lo avrebbe forgiato in avvenire. E sono, nello stesso tempo, l’epopea della borghesia: il racconto del lungo cammino che di tappa in tappa essa ha percorso perché dai servi della gleba sorgesse il popolo minuto delle città. Poi il primo esercizio dell’industria, feudale o corporativo; la manifattura; la rivoluzione apportata dal vapore e dalle macchine; la grande industria moderna, i borghesi “moderni” di quella che centocinquanta anni fa era la “modernità”. Ed ecco un primo bilancio: “la borghesia moderna è essa stessa il prodotto d’un lungo processo di sviluppo, d’una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico”. Poi le pagine, non meno epiche che sarebbe troppo lungo citare, ma che invito a rileggere: “La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria”, e la descrizione dei mutamenti, questi sì, epocali, che essa ha introdotti. E ancora: le trasformazioni che il processo storico dovrà naturalmente, per la logica delle cose, operare: “Si dissolvono tutti i rapporti stabiliti e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti sacri e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi, invecchiati prima di potersi fissare”. Chiaro? I processi mentali vengono anch’essi modificati rivoluzionariamente: muta il passo del tempo che si fa sempre più rapido; ogni fase nuova di sviluppo dura meno. E muta il concetto dello spazio: “Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre”. È chiaro? il mondo si restringe; nasce, deve nascere, il “villaggio globale”. La borghesia “ha tolto (ha già tolto, a metà del secolo scorso!) di sotto i piedi all ‘industria il suo terreno nazionale”. E non solo all’industria: “I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono beni comuni”. E non basta: scompaiono le tante differenze che avevano segnato l’evoluzione degli uomini: “Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia… le costringe a introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi”.

Sono fazioso se dico che questo è storia: è far storia? Questa capacità di abbracciare con lo sguardo della mente l’intero pianeta e tutto ciò che ha fermentato e fermenta su esso, e per connettere organicamente manifestazioni diverse, e rendersi conto della direzione in cui il mondo si muove. Intravedere i mari dove il grande fiume convoglia già le sue acque, e non spaventarsene, non piagnucolare querulamente su ciò che è morto e non poteva non morire, e non inorridire dinanzi al futuro, ma, anzi, pensare di poterne sostenere e dirigere lo sviluppo. Questo sguardo che abbraccia le tante capacità e attività proprie dell’Uomo, e parla di rottura globale là dove e quando veramente una rottura ha avuto luogo, e un’età millenaria è finita, e un Uomo nuovo, antropologicamente nuovo, è apparso dominatore sulla scena e ha impresso alla storia un corso nuovo.
Aveva ragione Goethe quella sera del millesettecentonovantatre, quando, informato della vittoria dei francesi a Valmy, annotò che era cominciata, per il mondo, una fase nuova di storia; le conseguenze di quella vittoria continuano a farsi sentire ancora oggi. È cominciata egualmente, per il mondo, una fase nuova di storia quel non so quale giorno dei nostri anni Settanta, quando l’ingegnere e costruttore statunitense John Portland iniziò la costruzione dell’Hotel Bonaventure nella nuova downtown di Los Angeles? (cfr. F. Jameson, op. cit.). O è cominciata un’epoca nuova, uno di quei tanti giorni in cui questo o quel regista batté il primo ciak a questo o quel film caratterizzato da questa o quella innovazione tecnica? O è cominciata in questo o quel momento degli anni Settanta, quando nel solco del processo iniziatosi con la rivoluzione industriale e descritto, anzi presagito, da Marx ed Engels, la mondializzazione dell’economia ha compiuto un nuovo balzo in avanti, pur restando sempre, e sia pure in modi nuovi, un momento del processo del capitalistico e borghese? O è cominciata le tante volte che un gruppo di intellettuali, incapaci di reggere l’urto con la società delle masse, ha dato vita a una nuova avanguardia o postavanguardia, e ha inventato modi nuovi di linguaggio a dire la propria angoscia, facendo dell’arte una merce non più solo per aristocratici raffinati e nemmeno più per borghesi snob, ma accessibile anche alle masse? Una merce, lamentava un secolo fa Carducci, dalla Bellezza artefatta e pure non facile anzi facilissima che, concede comoda al volgo i flosci fianchi, e sotto i consueti amplessi si stende e dorme?

Immagine articolo Fucine MuteSe ci collochiamo all’altezza di questa potente vastità di visione e comprensione della storia, che diventano i centocinquanta anni che ci separano dal Manifesto se non la realizzazione progressiva del processo che Marx ed Engels avevano genialmente intuito?
Certo, la loro intuizione del futuro si ferma là. Il sogno di un proletario che vive e matura alla rivoluzione nel grembo caldo della borghesia, così come questa era vissuta e maturata nel grembo della società feudale in cui era annidata, questo sogno generoso si è rivelato un’utopia, e dobbiamo prenderne atto. Già varie volte, nel corso dei secoli, la borghesia era parsa vincitrice, ma poi è stata assorbita dall’aristocrazia in un nuovo blocco sociale; egualmente, questa volta, il proletariato ha vinto tante battaglie ma ha perso la sua guerra: è stato assorbito o sta per essere assorbito, dalla borghesia, che anzi o ha rafforzato la sue egemonia e il suo dominio o, nei Paesi fortemente industrializzati, si è confuso e omogeneizzato nel gran calderone della società di massa.
Alla luce di quelle pagine del Manifesto, a me pare evidente che il postmoderno, cioè l’insieme dei mutamenti che nel corso degli ultimi decenni hanno avuto luogo sia nell’economia sia negli altri elementi strutturali e sovrastrutturali del mondo, non è che uno stadio successivo dei processi iniziatisi alla fine del Settecento, la borghesizzazione dell’economia e della civiltà tutta del mondo. E’, lo dirò con un nostro studioso di filosofia del linguaggio, “non altro che il moderno nella sua più vera realizzazione”. (R. Finelli, Soggetto e differenza, il marxismo e la filosofia del postmoderno, in “Critica marxista”, n. 3, 1980). E le ultime innovazioni nelle poetiche non sono che epifenomeni: reazioni al grande processo globale vissuto da intellettuali dal pensare e sentire “deboli”, angosciati da un mondo, ripeto le parole di Gramsci, sempre più “grande, e terribile, e complesso”.
Sono epifenomeni, reazioni, spie che vanno studiate con rispettosa attenzione, spie quali sono spesso, di sofferti drammi interiori e di sforzi intellettuali mancati, ma di cui pure vanno respinte con forza le fatue e sofisticate elucubrazioni, il semplicismo e la banalità delle conclusioni avventate, di cui, soprattutto, vanno smascherate, senza pietà, le possibili conseguenze nella prassi della vita individuale e sociale.

Le periodizzazioni storiche non sono mai neutre. Frutto, se ne sia o non se ne sia consci, lo si voglia o non lo si voglia, di corpose concezioni ideologiche, incidono sulla realtà. E perciò, di fronte a ogni tesi di storia nuova, è dovere dell’intellettuale esaminarla con attenzione e prendere posizione; bisogna, insegna una robusta immaginazione di Dante, alzare le gonne alla sirena che sta per incantarci, e metterne a nudo il ventre marcio. Leggiamo un passo di Jameson; parla di sé e del suo libro. “È il momento, confessa, di ricordare al lettore il fatto evidente che tutta questa cultura postmoderna, mondiale e tuttavia americana, è l’espressione interna e sovrastrutturale di tutto il nuovo corso del dominio economico e militare dell’America nel mondo; in questo senso, come per l’intera storia di classe, l’altra faccia della cultura è sangue, morte, tortura e orrore”. Chiaro? Il postmoderno — a detta di Jameson, cioè del suo profeta maggiore — è l’espressione sovrastrutturale dell’imperialismo nord americano, e dietro di esso (Jameson lo dice con parole assai simili a quelle che Theodor Adorno e Max Horkeimer hanno adoperate e suo tempo a proposito della cultura, ben altrimenti grande, del Rinascimento italiano!) stanno il sangue e la morte, la tortura e l’orrore del vecchio e del nuovo colonialismo. E perciò quelle manifestazioni artistiche non possono essere che la spia o di una accettazione, conscia o inconscia che sia, della logica dell’imperialismo statunitense o, al più, di una ribellione morale che però non riesce a diventare coscienza politica, sicché, come succede in questi casi, l’intellettuale si rifugia negli alibi dell’arte, gioco dell’arte, esercitazione sul linguaggio, o (ma è sempre un alibi) nell’affermazione dell’arte catartica che con la rappresentazione del caos delle forme si fa denuncia del caos del mondo, e provoca repulsione e ribellione.

Immagine articolo Fucine MuteInfatti, come si comporta Jameson, dopo quello smascheramento della trista realtà del postmoderno? In sostanza lo accetta, anzi lo universalizza e così lo redime. Questa è l’arte di oggi, e non si può che accettarla. Dilaga per tutto il mondo, edifica abitazioni e città in stile nuovo, afferma valori diversi da quelli della modernità, seduce, piace, gli edifici alla Portland si costruiscono in America come in Asia e in Australia; i libri alla Stephen King si vendono in tutti i continenti, i film con le ultime trovate tecniche trionfano in tutte le Mostre, così come tutti i cinque o sei continenti la McDonald innalza la sua doppia emme e smercia le sue polpettine… L ‘American way of live è lo stile di vita di tutto il Pianeta: un’era nuova è cominciata per il mondo: e Portland e Jameson ne sono i profeti.
Ma è proprio così? Davvero non esistono più, nello sconfinato villaggio globale, che quelle polpettine, quei film, quei libri, quegli edifici, quell’accettazione passiva? Davvero non c’è nessuno che a leggere gli sproloqui di Ihab Hassan e di John Barth o di certi cineasti non avverte il vuoto intellettuale e morale da cui nascono? Davvero non ci sono altri romanzieri nel mondo? Non ci sono altri film? Non c’è più nessuno che impari da Gramsci come individuare e mettere in evidenza le identità reali sotto le apparenti diversità, e viceversa? Non c e nessuno che legga, per esempio Edward Said, il palestinese di cui si è appena tradotto in italiano il volume Cultura e l’imperialismo? (Roma, Gamberetti, 1998). Davvero non esistono i tanti romanzieri dei Paesi coloniali o sudamericani di cui Silvia Albertazzi parlerà nel corso di questo Incontro?

Nel 1795 Federico Schlegel affermava sull’ “Athaeneum” che l’arte romantica era “universale e progressiva”. Era, quell’affermazione, l’allargamento all’estetica della caduta dell’ancien regime, della proclamazione dei diritti dell’Uomo, della prossima morte del Sacro Romano Impero e dei suoi millenari fantasmi: Cesare che conquista le Gallie, Augusto che serra il tempio di Marte e fonda l’Impero, Adriano che penetra nel cuore della Britannia e vi erige il Vallo, Traiano che conquista la Dacia, Costantino che sconfigge Massenzio e all’Aquila unisce la Croce, Carlo Magno incoronato a Roma dal papa… Un mondo, veramente, era crollato, e un’era nuova si era aperta: di luci e di ombre, di bene e di male, di entusiasmi e di paure: di tutti gli elementi e gli affetti che hanno sempre costituito la storia degli uomini. Un’era nuova, con una sua arte, i suoi scrittori, il suo pubblico, un’altra gerarchia di generi, un altro gusto, un’altra bellezza…
Ma quali sono state le conseguenze estetiche della nuova epocale e universale cesura nel processo del mondo? L’elenco che Jameson ha compilato lo abbiamo visto; ecco, ancora più modesta, la definizione di Umberto Eco: “La risposta postmoderna al moderno consiste nel ricordare che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente… ironia, gioco metalinguistico, enunciazione al quadrato. Per cui se, col moderno, chi non capisce il gioco non può che rifiutarlo, col postmoderno è anche possibile non capire il gioco e prendere le cose sul serio”.

E’, davvero, il caso di dirlo: chi si contenta gode. Per fortuna, però, il mondo è grande e non tutti ci contentiamo così facilmente!

Questo che vi presentiamo è l’intervento d’apertura tenuto dal professor Giuseppe Petronio, Presidente dell’Istituto Gramsci F.-V.G., per il convegno: Postmoderno?, tenuto a Trieste il 28 e 29 dicembre 1998 e organizzato dall’Istituto Gramsci F.-V.G. e da La Cappella Underground.

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