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Cinema

Alla ricerca dell’idea migliore (III)

Discutendo di cinema e di come scriverlo

La regia: fedeltà/infedeltà al copione

Immagine articolo Fucine MuteIl set consente una grande libertà sul testo. Lì il regista è il gran padrone del film e può fare di tutto: tagliare, non girare una scena, farla diversa, cambiare le battute. La capacità di cambiare senza alterare un copione che è costato mesi e mesi di lavoro, di “pensate”, è proprio questa qui: il regista deve dar vita alle modifiche che vengono in mente certe volte agli attori, certe volte a lui, o a chiunque altro, ma il problema è di non perdere l’insieme. Si dice che Fellini fosse capace di una riscrittura totale del film ‘sul set’, cionondimeno i film che ne venivano fuori erano quasi sempre dei grandissimi film. Questa è una capacità rara. Bisogna avere in qualche modo una grande cautela quando si è sul set. Un errore che alcuni giovani registi fanno è di abusare di questo grande potere che hanno, quindi di dimenticare completamente la sceneggiatura quando sono sul set. La sceneggiatura, come vi dicevo, non è una cosa scolpita nel marmo, che non si può toccare, però è il frutto di molti mesi in cui si è pensato continuamente al film. Per esempio si è pensato alle dinamiche tra personaggi. Allora, se è poco importante cambiare una battuta, diventa molto importante se cambiando questa battuta tu cambi la dinamica dei personaggi, perché dopo magari non la riprendi più…

Qual è il tuo metodo quando ti trovi di fronte a personaggi e situazioni che conosci poco o non conosci? E poi cosa ti sembra della manualistica americana che prescrive di conoscere la vita dei personaggi anche prima e dopo l’arco temporale del film?

Immagine articolo Fucine MuteOgni tanto c’è qualche produttore che ci chiede questa cosa qua, cosa succede prima o dopo il film. Io in genere dico: -Niente. Non lo so-. Poi però certe volte lo facciamo… Le riunioni di sceneggiatura possono essere delle cose molto divertenti, molto gradevoli e piacevoli…ma possono essere anche delle cose di una noia infinita, dalle quali uno non vede l’ora di fuggire. Anche perché ti capita qualcuno che appunto vuoi sapere cosa sarebbe accaduto dopo o prima. Oppure vuoi sapere di fronte a quella scelta, a un certo punto del film, quali possibilità ci sono. Il fatto è che le possibilità — come tutti sanno — sono infinite. Un personaggio può fare centomila cose. In questo gli americani sono implacabili: cioè i personaggi sono costruiti in una maniera tale che a quel punto quello lì si va a ficcare nei guai in maniera naturale. Cioè tu non t’accorgi… dici: vabbe’ quello non può che fare quella cosa lì. Hanno un modo di costruire che ammiro molto. Però non ci credo tanto. Cerco di spiegarmi meglio. Io non credo a due cose. La prima è che noi dei personaggi dobbiamo sapere tutto. Perché tante volte è capitato che siamo arrivati fino ad un certo punto di conoscenza e poi scrivendo, a metà di un dialogo, ti viene una battuta che era totalmente imprevedibile rispetto a quel personaggio lì, eppure è una battuta che ti fa sentire come uno che ha centrato un bersaglio. Però non l’avevi preordinato. Altre volte succede che hai costruito lo schemino, sei certo che scriverai un buon dialogo, perché ce l’hai più o meno in mente…prima lui dice questo, lei dice questo, lui dice quest’altro, poi entra uno e a quel punto lì gli faccio dire questo…E improvvisamente non va più bene niente, quello sviluppo di dialogo che ti sembrava buono non va assolutamente bene, è falso, è morto. Questo per dire che il momento vero e proprio della scrittura è per me un momento fondamentale. Difatti, nei miei lavori, c’è sempre uno scarto piuttosto forte tra i trattamenti o le scalette e la sceneggiatura. Diciamo che io rispetto la scaletta al cinquanta per cento, cioè comincio più o meno come da scaletta o come da trattamento, ma nel momento in cui mi accorgo che se vado da una parte sto andando meglio, vado da quella parte lì…non me ne importa niente della scaletta, neanche se l’ho concordata con il regista, o con gli altri sceneggiatori, poi ne parlo dopo.Gli dico, mi è venuta così, m’è venuta meglio… Prendiamoci il meglio, insomma.

I sopralluoghi, la ricerca, la documentazione

pet-17.jpg (5394 byte)La seconda cosa a cui io credo relativamente sono le inchieste, cioè i sopralluoghi. In genere si crede che sia più facile scrivere delle cose di cui uno ha conoscenza diretta e in genere è abbastanza vero. Più si conosce una cosa, più è facile immaginare personaggi relativi a questa cosa, a un ambiente, a un gruppo sociale, a una città per esempio, o a dei linguaggi. Però io non ho il mito di questa cosa, perché alcune volte diventa una specie di ossessione. Cioè: se non andiamo, se non studiamo, se non sappiamo, se non siamo come loro noi non ce la facciamo. Invece noi purtroppo, e alle volte per fortuna, noi che facciamo questo lavoro “non siamo come loro”…
Vi faccio un esempio: quando ho cominciato a fare il cinema avevamo questa cooperativa con Marco Bellocchio, Silvano Agosti e Stefano Rulli. A quel tempo volevo fare il regista di cinema militante, politico: erano gli anni Settanta, il ’75…volevamo fare un film documentario di mezz’ora sull’esperienza dei malati mentali nell’Ospedale Psichiatrico di Parma (il film è Matti da slegare), dove c’era stato Basaglia e aveva iniziato, come voi sapete, la politica di apertura dei manicomi. Noi siamo stati lì quindici giorni, e quelli sono stati i nostri sopralluoghi.

Immagine articolo Fucine MuteUno di noi, che era Agosti, sosteneva che avremmo dovuto farci ricoverare nell’ospedale psichiatrico, nel senso di dormire lì, di mangiare alla mensa dei ricoverati… C’è stato un vero dibattito tra noi quattro… erano gli anni anche del coinvolgimento, delle cose… Io ho detto:-Guardate che io non ce la faccio-. Per noi era una cosa molto faticosa, perché non era solo entrare in un manicomio, era entrare in un manicomio “aperto”, una cosa che non vi potete immaginare… Gli psichiatri che erano li avevano la loro tecnica, il loro sapere, e anche delle capacità umane straordinarie. Ma noi.. eravamo entrati in una specie di inferno aperto, dove la gente ad esempio ti pisciava sulla testa dai ballatoi mentre passavi.. Noi — io e Stefano Rulli — eravamo, come posso dire, dei giovani professorini, avevamo due belle lauree in tasca, e non solo non avevamo mai visto una macchina da presa in vita nostra, ma non avevamo neanche mai visto un manicomio. Insomma, anche Bellocchio era d’accordo con noi e la linea Agosti non passò. Comunque credo che alla fine abbiamo fatto un film per quanto era possibile ‘profondo’ su questa gente. Cioè abbiamo cercato il più possibile di stare al loro livello. Però non ho mai pensato che noi potessimo diventare loro, anche stando lì, dormendo lì…in un posto dove continuamente c’erano urla, grida, e un dolore infinito… Non lo pensavo allora e non lo penso adesso. Naturalmente mi è capitato altre volte di fare dei sopralluoghi. La mia esperienza mi dice che, dopo un po’, c’è come da fare un salto: o tu ti stabilisci lì, e diventi quella cosa lì, oppure tanto vale che vai via. Non ci sono vie di mezzo. Noi per esempio siamo qui a Trieste per fare dei sopralluoghi, e poi scendiamo verso la riviera, perché abbiamo appunto un trattamento e ci prepariamo a scrivere la sceneggiatura del prossimo film di Carlo Mazzacurati. Faremo dei sopralluoghi più o meno di una settimana. Ci serve di sentire un po’ alcuni ambienti, alcuni sfondi, alcuni colori che stanno qui e sulla riviera. Però i personaggi, e la storia, ce li siamo pensati a casa. Io credo più all’invenzione che alla documentazione. Certo, non si possono fare alcuni film senza sapere di che cosa si parla. Però non ho, come dire, il mito dell’inchiesta.

E per ‘Il portaborse’? Lì la documentazione sembra importante.

Immagine articolo Fucine MuteBe’, nessuno di noi aveva mai conosciuto un ministro. Il soggetto era di Pasquini e Bernini e loro avevano incontrato alcuni portaborse veri, che erano quelli degli uffici, avevano parlato con questi che erano i factotum dei politici, insomma quasi gli andavano anche a fare la spesa, gli pagavano i conti correnti… Però dopo, quando io e Stefano abbiamo scritto la sceneggiatura, noi abbiamo pensato di più a un ‘ghost-writer’, cioè a uno che scrive i discorsi. Quando abbiamo cominciato a lavorare al personaggio ci sembrava che fosse meglio tirarlo un po’ su. Comunque, se vai a vedere le informazioni che ti dà Il portaborse non sono.. ecco, l’unica informazione che mi sembra forte è la faccenda degli ‘archivi elettorali’, una cosa che Pasquini e Bernini avevano saputo da uno. Cioè che molti politici avevano casse di nominativi delle persone che sicuramente li avrebbero votati. Ecco, quella era un’informazione che noi ad esempio non sapevamo. Invece altre cose sui brogli elettorali…be’, quelle stanno un po’ su tutti i giornali. Poi io e Rulli avevamo fatto già tre “Piovre” e avevamo raccolto qua e là notizie su una tale quantità di nefandezze… Allora non avevamo il computer, però archiviate da qualche parte avevamo talmente tante cose per cui non avevi che l’imbarazzo della scelta. E poi in quel film, alla fine, la cosa che ti ricordi di più è il gioco dei personaggi, questa specie di tentativo di vampirizzazione, di trasformazione, che il ministro opera sul giovane professore, e poi la dinamica fra loro due: il fatto che lui fino ad un certo punto pensa che sia uno che svecchierà, che migliorerà, e poi la lenta scoperta di quanto è mascalzone. Questo era il meccanismo de Il portaborse.

E per la realtà così diversa e particolare dei ragazzi di Palermo di ‘Mery per sempre’?

Immagine articolo Fucine MuteAnche per Mery per sempre noi non siamo andati in Sicilia, quindi non abbiamo visto il carcere Malaspina di Palermo dove si svolge il film. Però lì avevamo il vantaggio che era venuto a Roma Aurelio Grimaldi che era stato il vero maestro di questi ragazzi e aveva scritto il libro “Meri per sempre”, e dunque era una fonte inesauribile di informazioni e di racconti. Lì poi siamo stati anche aiutati da un attore. Noi abbiamo scritto la sceneggiatura in italiano e Tony Sperandeo, che nel film fa il secondino, ed è palermitano, ha ‘tradotto’ in siciliano per i ragazzi le nostre battute. Battute che noi avevamo semplicemente scritto con qualche parola di siciliano o con quel giro di frase che hanno i siciliani e che ormai c’è entrato nell’orecchio grazie a tutto il cinema sulla Sicilia.

Sull’esempio della dinamica di gruppo in una classe in ‘Mery per sempre’, come vi preparate su argomenti tecnici e specifici? Vi affidate alla vostra cultura generale o studiate certi temi? In quel caso ad esempio potreste aver consultato testi di psicologia sulle dinamiche di gruppo.

Immagine articolo Fucine MuteNo, questi gran studi non li facciamo. Anzi, abbiamo delle esperienze abbastanza drammatiche quando chiamiamo i tecnici, quelli che ‘sanno le cose’ su un certo argomento… Una cosa bella di questa professione è che quando si inizia un film su un argomento di cui uno non sa nulla, si cominciano a leggere libri, a sfogliare fotografie, a vedere o rivedere vecchi film… C’è una fase in cui uno legge molte cose, anche lontane… Per esempio, quando abbiamo scritto Don Milani, abbiamo preso tutto quello che Don Milani aveva scritto, le lettere…è stato anche pubblicato un lunghissimo epistolario con la madre… E questa fase significa anche fare dei sopralluoghi, andare sui posti, vedere. È una parte molto gradevole. Perché ancora non sei molto impegnato a fare il film, sei molto libero, sei aperto. Incontri della gente. Noi abbiamo parlato con persone che avevano conosciuto Don Milani, con amici, gente che lo frequentava. Poi siamo andati a trovare i ragazzi che avevano scritto con lui “Lettere ad una professoressa”, che adesso sono dei signori più o meno della mia età.

Immagine articolo Fucine MutePoi, quando si devono fare delle cose un po’ più specifiche, può capitare di incontrare delle persone… per stare all’esempio che facevi tu, che ne so, uno psicoterapeuta di gruppo o uno che si è occupato di quei problemi li. Puoi incontrare un medico, un poliziotto, un giudice… Però questi incontri sono in genere abbastanza deludenti. Mentre sono ricchi gli incontri con le persone comuni. Ad esempio se incontri ragazzi come questi del film Mery per sempre, loro hanno sempre delle storie straordinarie da raccontarti. Non so, se incontri l’infermiere dell’ospedale psichiatrico, anche lui ha delle cose straordinarie da raccontarti. Se invece vai dal super-tecnico, dal professore…a parte Basaglia che era un caso proprio a se…insomma, l’atteggiamento tecnico, formale, in qualche modo scientifico, a noi non serve quasi mai. Poi magari questa è gente bravissima, fa benissimo il proprio mestiere, non è questo… C’è una sorta di freddezza scientifica. E siccome noi abbiamo bisogno poi di storie, di avvenimenti… Sono abbastanza utili per noi quei libri in cui ogni tanto c’è un pezzetto di vita, o un’ambiente…non dialoghi, quelli non li troviamo quasi mai e tocca inventarseli. Però, delle piccole storie, di cui magari prendiamo un’aria lontana, una cosa molto lontana ma che ti fa venire l’idea. È un po’ come dicevamo prima: fa bene riguardarsi un film anche molto distante da quello che in quel momento si sta per fare. Non so, quando dovevamo fare un leader di periferia, parlavamo ogni tanto del film di Coppola Rusty il sevaggio. Non pensavamo a Rusty, pensavamo al fratello sordo. Non so se l’avete visto…quando arriva il fratello sordo, si chiama “Motorcycle Boy”, se ne parla sempre, i ragazzi del quartiere ne parlano sempre. E così, quando arriva, è un’apparizione mitica. Poi non l’abbiamo fatto, però dico, certe volte parlando uno si riferisce a film, o libri, o a cose teatrali, o a canzoni. Un po’ a tutto, ecco.

Come vi comportate ripensando ai film del passato? Vorrei capire cosa prendete e se c’è una specie di metodo.

Immagine articolo Fucine MuteNon c’è un vero metodo, ma certo parliamo spesso di film. Un po’ perché siamo gente che ha visto e che va a vedere molto cinema, un po’ perché quasi tutti noi che facciamo questo lavoro ce lo siamo scelti perché ci piaceva, all’inizio, essere degli spettatori. Alcuni dicono che non vedono mai niente, come Fellini. Lui i film li vedeva, secondo me, però gli piaceva dire che non vedeva mai niente. In genere la gente che fa questo lavoro vede molti film, e rivede molti film vecchi, e molto spesso fa riferimento a film che sono già stati fatti. Ci diciamo: se si riuscisse a fare una cosa tipo quella cosa lì. Ma magari sono film piccoli, film minori, facciamo riferimento solo a una sequenza. Questo succede quasi sempre: in tutti i film ai quali si lavora, c’è sempre qualche aggancio, che magari poi non sviluppa, che magari alla fine è un’eco lontanissima. Capita di parlare di un autore come Pietrangeli per i personaggi femminili — pensate a Io la conoscevo bene, in cui c era una capacità quella ricchezza di tessitura, di sfumature, sulla protagonista femminile…
Ad esempio si parla più di Visconti che di Fellini, perché non c’è possibilità di fare Fellini, perché è un autore unico; invece Visconti, pur essendo un grandissimo, era però un narratore…

Immagine articolo Fucine MuteVi faccio un esempio: non so se voi avete visto Il toro di Carlo Mazzacurati, è la storia di due che rubano un toro da un miliardo e lo vanno a vendere in Ungheria. Uno dei due s’affeziona a questo toro che soffre, che ha freddo, a cui fanno attraversare un fiume, etc… Finalmente, disperati perché non riescono a piazzarlo, arrivano in una situazione in cui cercano di darlo ad un gran cialtrone italiano che commercia un po’ in tutto, che trovano in un night-club di quart’ordine, con delle ragazze che ballano, cantano…quei posti tristi, dove metti che uno si può ritrovare in una sera invernale, in mezzo alla neve, dalle parti del lago Balaton. Questo qui dice: -Cosa c’è? Un toro da vendere? Fammi vedere…-. Escono fuori con tutta la comitiva, cioè il cialtrone con un paio di ragazze rimorchiate lì, e un riccone mafiosone del posto. Vanno davanti al toro: ma non se lo vogliono comprare, vogliono solamente prendere in giro questi due italiani… A un certo punto una delle due donne mette un fiocco, una specie di fiocco di Pasqua, intorno alla testa del toro. Noi abbiamo pensato: dei due personaggi quello che vuole vendere il toro è Abatantuono, l’altro — Loris — se ne sta zitto, vede come sono umiliati e tace. Quando finalmente vede però che al toro gli hanno messo il fiocco, non ne può più. Prende una mazza di ferro e comincia a fare una scena pazzesca: -Vi spacco la faccia, eccetera -. Allora la mia idea era questa: di fare la scenata di Loris come Anna Magnani fa la sua scenata nel finale di Bellissima, quella scena meravigliosa, in cui dice: -Non ve la dò, la bambina, non ve la lascio. È mia…- Insomma, abbiamo passato un pomeriggio a parlare di come potevamo fare la scena di un toro con un fiocco in testa, a partire dall’idea di Bellissima. Ecco, non so se hai capito in che senso il cinema che abbiamo visto e che viene da lontano, può entrare in un film che stiamo scrivendo…

Immagine articolo Fucine MuteMa questo ci capita anche con i film di oggi, che ne so, ci può capitare di parlare di My Beautiful Laundrette di Stephen Frears, perché lì per esempio una cosa che colpisce è la rappresentazione del diverso, dell’emarginato, ma senza pietà. Il protagonista di quel film è un pakistano emigrato a Londra. L’atteggiamento che abbiamo noi quando facciamo i film sui neri, sugli slavi, è di dire: -Poveracci-. Invece questo qui, il protagonista di My Beautiul Laundrette, è un figlio di puttana spaventoso, sorride sempre e poi frega tutti, commercia la droga… Poi non so, il personaggio del padre è un pakistano esule politico, di sinistra, che è stato cacciato dal Pakistan… e però è patetico, è un trombone, un rompicoglioni. È un film molto imperfetto, però è un film vivo, non banale, non agiografico nella rappresentazione del ‘diverso’. Ormai queste cose l’Italia ce le ha, gli slavi, i neri…però quando cerchiamo di descriverli non ci vengono bene perché probabilmente siamo troppo manichei. Cioè diciamo, se vengono da lì, se hanno fame, se non hanno nulla…sono sicuramente buoni, sono sicuramente migliori di noi. Invece certe volte sono peggiori di noi e bisognerebbe avere il coraggio di dirlo, e poi naturalmente di ‘rimontare’ tutti i motivi per cui questo può accadere. Frears lo fa, e lo fa benissimo. Perché, uno degli obiettivi di un buon film, è di non essere meccanico. Cioè dato un primo tempo di “premesse”, si fa un secondo tempo di “chiusure”, di conseguenze. E così a quel punto lì niente diventa inaspettato. Siccome abbiamo parlato di “schemi”, di “scalette”, etc., magari questo rischia di farvi pensare che basta mettere dei punti uno dopo l’altro e date certe premesse avere poi certe conseguenze. È giusto il contrario: bisogna continuamente rimettere in gioco tutto, e liberare continuamente l’invenzione.

‘Il toro’ mi sembra un film che h uno spunto atipico per il cinema italiano. E poi passa in mezzo a terre devastate dalla guerra ma in fondo non ne parla, se non con qualche accenno. Da dove è nata l’idea?

Immagine articolo Fucine MuteL’idea iniziale è di Mazzacurati e di Umberto Contarello. Loro conoscevano un ragazzo, Franco, che era divenuto presidente di una cooperativa che comprava e vendeva tori. E parlando con lui, Franco gli aveva detto che lui i tori da riproduzione non li comprava ma utilizzava quelli della Regione, perché i tori da riproduzione a comprarli sarebbero costati miliardi… Erano stati una sera a parlare di quanto valeva lo sperma del toro, di quante fialette si potevano fare… e tutto questo aveva così colpito Carlo, che dopo un po’ aveva cominciato a pensare di raccontare la storia di un gruppo di persone che hanno lavorato in una cooperativa, la cooperativa è fallita…e decidono di rubare un toro della Regione. Quando Carlo è andato a raccontare questa cosa, Franco gli ha detto che la storia era impossibile perché non si può rivendere un toro così. È come un Van Gogh, lo conoscono tutti. In Italia ce ne saranno venti, sono famosi. Quindi a Carlo e a Umberto gli è venuta l’idea che i due dovevano portarlo lontano dall’Italia. E siccome adesso c’è questo Far-West, anzi Far-East, al di là delle nostre frontiere, l’idea era che andavano lì. A questo punto ci siamo messi a lavorare in quattro… Carlo aveva registrato alcune cose che Franco aveva raccontato e abbiamo ascoltato questi nastri. Poi siamo partiti per Padova e siamo andati a conoscere Franco. Con lui siamo venuti qui a Trieste e ci ha portati a vedere la frontiera dove passano gli animali. Dopo un po’ siamo tornati di nuovo e abbiamo organizzato un viaggio in Slovenia e Croazia, cercando di farci venire delle idee, filmando anche con una videocamera le cose che vedevamo. E alcune cose poi sono entrate nel film (anche se via via però il film è diventato una storia di soli due personaggi e non di gruppo).

Immagine articolo Fucine MuteC’è una sequenza ad esempio, di un treno fermo sui binari dove vengono raccolti i profughi… quella è una situazione che abbiamo visto a nord di Zagabria. Siamo arrivati e abbiamo visto questa strana situazione: un binario con un treno fermo con i profughi, i panni stesi… E vicino un altro binario dove invece passavano i treni, con i bambini che giocavano nel mezzo: una cosa impressionante. Quella è una cosa che è entrata nel film. E anche il finale, con quella strana cooperativa di allevatori ungheresi persi lì nella neve…e una cosa che abbiamo visto. Li chiamavamo “i sette nani”, perché a un certo punto sono usciti questi qui da una fattoria dispersa in mezzo alla neve, degli omini piccoli, neri, ed erano una cooperativa. E lì abbiamo pensato: vabbè, prendono il toro, ma come finisce ‘sta storia? E poi ci è venuta questa idea dei vitelli. Quella è un’idea che è nata così, da una chiacchierata. Invece il personaggio di Loris, interpretato da Roberto Citran, è venuto fuori parlando con Franco, che un giorno ci aveva detto che ci portava a vedere un amico che dopo la fine della cooperativa si era ancora tenuto il suo pezzetto di terra e allevava bufale. Che al nord è un problema: c’è il freddo, si ammalano… E abbiamo visto questa persona che era praticamente identico a Citran, una persona dolce, che stava lì sperduto e ci mostrava orgoglioso le sue venti bufale. E dopo aver chiacchierato con lui abbiamo deciso che quella era la coppia. Gli abbiamo dato addirittura i nomi veri: Franco e Loris. Tante cose ce le hanno raccontate loro. Invece, la dinamica tra i due amici si è fatta come ho cercato di dire in questi giorni. Piano piano.

Immagine articolo Fucine MuteLa scelta di non trattare la guerra è stata abbastanza precisa. Questi vanno per la loro strada, devono vendere questa roba, hanno un problema enorme. Ci abbiamo pensato a lungo. Perché noi quando abbiamo fatto i sopralluoghi ci siamo fatti portare anche in zone bombardate, villaggi abbandonati dai croati, presi dai serbi, riabbandonati di nuovo. Siamo arrivati proprio al confine della guerra. Nella fase in cui preparavamo il film non abbiamo escluso questo discorso sulla guerra, l’abbiamo escluso successivamente, dopo aver raccolto tutte le informazioni possibili. Abbiamo letto un sacco di libri, per tornare al discorso di prima, sulla guerra in Bosnia, sui problemi della Yugoslavia. Per lungo tempo abbiamo pensato di fare nel film un passaggio per Zagabria e di andare poi in una zona dove si raccolgono tutti i camion che entrano in Bosnia e che commerciano di tutto, col tentativo dei due di vendere il toro anche li. Pensavamo a una situazione in cui la guerra era molto presente, perché era una zona quasi a ridosso del confine armato. Poi dopo, a poco a poco, ci abbiamo rinunciato.
Così come all’inizio avevamo pensato di raccontare di più la crisi del “Dopomuro”, e alla fine invece sono rimaste poche battute, con il vecchio ex-comunista che viene mandato via dalla sala del matrimonio. Io credo che sia stato meglio, il film aveva questo tono da commedia malinconica, e se vai nella guerra…se non ci vai dentro direttamente… Da una parte ci attirava, dall’altra era una cosa molto difficile. Poi senti di essere così estraneo… E il viaggio poi sarebbe comunque dovuto proseguire, avremmo raccontato solo un episodio. Alla fine abbiamo abbandonato l’idea.

La scrittura a più mani

Immagine articolo Fucine MuteCredo che il fatto di scrivere in più persone dipenda dal fatto che molti film si scrivono con il regista. Questo fa sì che quella sorta di sacralità che c’è attorno allo “scrittore”, che scrive da solo nel chiuso della sua stanza, viene rotta da questa cosa qui. Poi c’è anche il fatto che in qualche modo il film è talmente un’opera collettiva… Cioè nel cinema non si ha assolutamente la libertà che si ha in altre forme di espressione, perché si ha a che fare con una macchina costosa e con un investimento che non è tuo. Ed è una macchina talmente complessa che da un certo punto di vista è uno dei lavori meno liberi che esistano. Nel senso che, per la mia esperienza, io ho visto tantissime volte registi rinunciare a attori o a scene che volevano fare, o a ambienti, o a situazioni, o al film intero. Insomma, anche il regista, che visto da fuori sembra veramente un po’ un dio in terra, è una persona che deve confrontarsi con una realtà complicata. Bolognini dice che il regista è uno che viene pagato per dieci settimane e gli dicono -Sei Dio-. È vero e non è vero, perché ci sono una serie di mediazioni, di aggiustamenti progressivi…è come se tu fossi un imprenditore ma non hai danaro tuo, allora lo devi chiedere ad altri, e poi devi discutere, devi contrattare, paghi dei costi, farsi prestare del denaro costa…
Comunque, al momento della scrittura, scrivo sempre da solo. Non è che c’è un momento in cui siamo in due al tavolino, uno con la macchina da scrivere di qua e uno con l’altra di là. C’è chi lo fa, io non sono capace. Faccio una chiacchierata, due o tre, o anche dieci o venti, e dopo scrivo il film. È come fare una partita di ping-pong: mandarsi delle idee, rispondersi, rimandarsele…
Ad esempio per Fiorile dei Taviani ho scritto il film da solo. Ho parlato a lungo con loro e poi ho scritto il film. Dopo loro hanno riscritto delle cose, me le hanno ridate. Io ho riscritto ancora e s’è fatto questo ping-pong, fino alla stesura definitiva.

In tanti titoli di fìlm si vedono i nomi di cinque, sei sceneggiatori…

Immagine articolo Fucine MuteSì, nella giuria del Premio Solinas ci sono tutti questi grandi della sceneggiatura, che sono dei monumenti, Age, Scarpelli, Pirro…
Loro raccontano delle cose di cui ho anche un po’ invidia.. Ville al mare…loro in quattro o cinque tutto il pomeriggio a giocare a biliardino…poi a casa di Dino Risi arrivava Marco Risi piccolo e gli nascondevano il biliardino fingendo di non averlo usato…si divertivano molto, c’è tutta una mitologia, non so se è vera, però è divertente: case sull’Aventino con il ristorante che a ora di pranzo gli portava da mangiare a casa. E sempre insieme. Loro scrivevano veramente con le macchine da scrivere messe vicine sul tavolo. E dicevano al produttore: -Ci prendi una villa a Capri e noi in due mesi ti scriviamo il film-. Poi in realtà facevano il bagno ore e ore…
Non so come facessero effettivamente. Ma spesso erano veramente tanti, perché da quello che m’hanno detto capitava che firmavano tutti, anche uno che era passato di li, era stato tre pomeriggi e aveva dato cinque idee. Oppure c’era un attore che si scriveva da solo la sua parte perché nel film rifaceva una parte che faceva a teatro, e così poi firmava anche lui come autore. Ugo Pirro ha scritto un bel libro su quei tempi, si chiama “Osteria dei pittori”, leggendolo pare di sentire che c’era realmente un clima più collettivo, adesso gli sceneggiatori si conoscono poco, non si vedono mai fuori. Io poi sono un po’ orso e non vado da nessuna parte.

Il “metodo” Rulli- Petraglia

Immagine articolo Fucine MuteCon Stefano Rulli abbiamo un metodo un po’ particolare, se volete ve lo racconto…dunque, una volta che siamo arrivati alla scaletta o al trattamento, ci dividiamo il film. Possiamo fare in due modi: o scriviamo fino a metà film, oppure scriviamo tutto: uno scrive la prima parte e l’altro la seconda.
Oppure: diciamo che la scaletta sono ottanta punti, facciamo i primi quaranta e diciamo: -Io scrivo i primi venti e tu scrivi i secondi venti. Ci risentiamo tra quindici giorni.- Tra l’altro Stefano vive a Perugia e io a Roma, e siamo collegati con un modem. Metti che una sceneggiatura sono più o meno duecento pagine e abbiamo deciso di provare a fare il primo tempo, circa cento pagine. Diciamo che io scrivo le prime cinquanta e lui scrive le seconde cinquanta. Dopo quindici giorni ci scambiamo queste cose. Il momento in cui io ricevo la roba di Stefano e lui riceve la mia è il più delicato. Nel senso che interveniamo in maniera molto feroce su quello che l’altro ha scritto, cioè riscriviamo quello che l’altro ha scritto. Non è facile convincere l’altro che ha scritto dieci buone scene, dieci così così, e due proprio mediocri. In genere facciamo questo “incrocio” due o tre volte, questo nel giro di pochi giorni. Poi una volta che abbiamo assestata questa prima parte> tiriamo avanti e facciamo le altre cento pagine, nello stesso modo. Alla fine abbiamo duecento pagine, diciamo, un po’ ‘rozze’, sulle quali però siamo d’accordo almeno sulla struttura e sui dialoghi importanti. Più o meno ci siamo. Si tratta di dargli una pulita. A questo punto fa una passata uno, una passata l’altro…

E per il trattamento?

Per il trattamento o lo scrive uno o lo scrive l’altro, lì non ci rompiamo troppo le scatole. Per la scaletta invece a scriverla non ci vuole niente, ci vogliono due o tre ore. Il problema è la chiacchierata che ti fai prima. Poi scriverla…si tratta di buttar giù cinque cartelline.

La scaletta sembra essere molto importante per vedere se un film funziona.

Immagine articolo Fucine MuteSì, certo. La scaletta è importante. Noi per esempio per Merv per sempre non abbiamo fatto un trattamento. Abbiamo fatto una scaletta di cinque pagine, per punti. Siamo andati da Marco Risi e lui ha detto: -Io farei l’inizio più frammentato, cioè vorrei più velocità all’inizio-. Un pomeriggio insieme a lui abbiamo detto: -Allora spezziamo di più tutto l’inizio, facciamo tutti gli ingressi dei personaggi nei primi venti minuti-. L’abbiamo fatto in due giorni, sempre come scaletta. Al produttore non abbiamo dato niente — perché lì c’era un produttore che produceva con il proprio danaro — a cui non interessava vedere un trattamento, così dalla scaletta siamo passati direttamente alla sceneggiatura, al copione. Di questo abbiamo fatto una sola revisione prima di girarlo, perché andava bene fin dall’inizio. Mentre di solito può capitare di fare anche cinque, sei, sette revisioni. Con Stefano Rulli abbiamo questo metodo qui…poi io non ho quasi mai lavorato con altri. Per Giulia e Giulia c’era Silvia Napolitano, per Il toro c’era Umberto Contarello, ma insomma, ho poche esperienze con altri. Però la scrittura insieme non l’ho mai fatta, non riesco a scrivere neanche mezza pagina se c’è un’altra persona vicino.

Di nuovo a proposito dei cambiamenti di rotta durante la scrittura: capita di dover tornare indietro e rifare tutta la scaletta?

Immagine articolo Fucine MuteSe tu ad un certo punto invece di fare una certa strada te ne vai totalmente da un’altra parte è chiaro che poi devi ridiscutere il film. Questo è capitato. Certe volte siamo arrivati a metà e abbiamo detto: -Abbiamo sbagliato la scaletta-, cioè avevamo sbagliato la gradazione con cui la storia avanza. Per cui prendi, butti tutto e ricominci da capo. Questo fortunatamente non è capitato tante volte, ma qualche volta sì. La stessa cosa ti può capitare all’interno della singola scena. Quello che voglio dire è che non bisogna essere così schematici da aver deciso una cosa e poi andare fino in fondo anche quando ti accorgi che viene male, che stai diventando falso, che stai diventando noioso. Io mi accorgo di scrivere una cosa che non funziona quando ho bisogno di molte spiegazioni. Quando devi far dire ai personaggi: — Siccome ieri ho incontrato la signora…- Quando cominci a dover dare molte spiegazioni e non c’è più fluidità, allora lì è il momento di pensare che la tua scaletta non funziona.

Dove fluisce il tuo lavoro di sceneggiatore? Per la TV, ad esempio, consegnii e basta, o ti interessi di chi sarà il regista, vai sul set?

Immagine articolo Fucine MuteIo sono tra quegli sceneggiatori che cercano di difendere il film, cioè cerco di occuparmi del film anche dopo averlo scritto e credo che sia giusto così. Poi credo anche che ognuno deve avere le proprie responsabilità per il settore che gli compete. Quindi, ad esempio, non vado volentieri sui set, non mi piace star lì a guardare; magari passo a salutare e poi vado via, perché sento che non posso stare lì vicino al regista a dirgli: -Senti, ti ricordi che questa avevamo detto che la facevamo così?-. C’è bisogno che ognuno si prenda le proprie responsabilità. Poi siccome certe volte mi è capitato di vedere delle scene che venivano girate come io non le avrei girate, allora preferisco non andarci.
In genere però quello che io mi auguro è che non ci sia un rispetto scolastico della sceneggiatura. La mia esperienza mi dice che quando abbiamo un regista che esegue solamente il copione, il film non viene mai un granché. La regia è un momento fondamentale del film: un regista deve far crescere la sceneggiatura.
Per cui, sono molto felice quando vedo una scena che scarta di tre battute da come io l’avevo scritta, ma che diventa una cosa forte, intensa. E sono insoddisfatto quando l’esecuzione è abbastanza precisa ma è morta, non ha anima. Non so, c’è una specie di ‘quid’ nella fase delle riprese, è un momento speciale, totale.

Immagine articolo Fucine MuteIo spesso ho delle discussioni con i montatori che credono che la fase del montaggio è quella in cui tu puoi risolvere il film. Se nel girato non c’è anima, se non c’è forza nell’attore che dice una battuta, nessun montatore sarà capace di dargliela. Io dunque, l’avrete capito, penso che la parte più importante di un film è la parte ‘autoriale’: quella fatta dalla scrittura e dalla regia.
Molti pensano che la sceneggiatura siano i dialoghi. La sceneggiatura non sono solo i dialoghi; sono anche i silenzi, sono anche le pause, sono i ritmi. Cioè, fare una sceneggiatura significa fare i percorsi dei personaggi, della storia, e dell’ambiente. Ogni film è sempre una specie di viaggio, anche se il film non è ‘di viaggio’. E il rapporto tra la scrittura e la regia è quello fondamentale. Il momento decisivo di un film sta in questa trasformazione dalla pagina alla pellicola, in quelle otto/dieci settimane in cui la pagina diventa pellicola impressionata sul set.

Lo sceneggiatore alla moviola

Immagine articolo Fucine MuteFinito di girare, il regista e il montatore fanno un primo assemblaggio di quello che il regista ha girato. Spesso il film viene lungo; allora c’è da tagliare una scena o da decidere uno spostamento. Capita di vedere una, due, tre, quattro proiezioni, man mano che il film assume la sua forma.
Io credo poco allo sceneggiatore che è a disposizione della regia: -La vuoi così, te la faccio così…-. Quello mi piace poco. Io credo nel rapporto e nel conflitto con la regia, una specie di braccio di ferro in cui ognuno porta le proprie ragioni. Qualche volta nella fase di scrittura le discussioni sono animate, devo cercare di convincere, ma devo anche cercare di farmi convincere, se no poi non saprei scrivere quella cosa. Cioè non posso proprio scrivere una cosa che sia totalmente contro di me, contro quello che penso o che sento, non mi viene, o comunque mi verrebbe male. Certo, il regista ha l’ultima parola perché ad un certo punto tu hai finito ed esci e il regista può sempre fare una scena come la vuole lui. Persino Flaiano, che era un grande scrittore e ha scritto delle cose bellissime per il cinema, diceva che lo sceneggiatore “attacca il cavallo dove vuole il regista”. E molti sceneggiatori della sua generazione hanno questa opinione. Come Ennio De Concini che dice che voleva fare il romanziere perché quello è un vero artista ma poi gli è toccato fare lo sceneggiatore. I più giovani in genere non hanno questo atteggiamento. Mentre ce l’hanno nei confronti della televisione.

La televisione e ‘La piovra’

Immagine articolo Fucine MuteI giovani sceneggiatori e i giovani registi ritengono la televisione una cosa di serie B. Stefano Rulli e io siamo tra i pochissimi della nostra fascia d’età che abbiano lavorato sia con il cinema che con la televisione. Abbiamo fatto La piovra di cui abbiamo scritto quattro serie, facendo circa una trentina di ore, senza vergognarcene, pur con tutte le sue caratteristiche popolari, melodrammatiche, ecc… E abbiamo anche detto più volte che la mollavamo se c’era qualcuno che aveva voglia di farla al posto nostro; ma non è che ci sia stata questa corsa…
Penso che sia stato uno sbaglio lasciare la televisione in mano a della gente che la fa molto male, con pochissimo rinnovamento dei quadri, sia dei registi che degli sceneggiatori. Adesso credo che un pochino le cose stiano cambiando.
Oggi tutti si accorgono che anni e anni di televisione Fininvest hanno formato un partito Fininvest, ma per anni nessuno sembrava pensarci…A noi invece la TV interessava. Ci sembrava che questo enorme pubblico di milioni di persone…considerate che quando facciamo un film come Il ladro di bambini che fa otto miliardi d’incasso, o Il portaborse che fa più o meno una cifra del genere, abbiamo circa seicentomila spettatori. Con la televisione e con La piovra, andando in onda alla domenica o al lunedì, facevamo dieci, dodici, quindici, diciassette milioni. È impressionante.
Avremmo potuto fare anche meglio se ci fossero stati dei gruppi omogenei che lavoravano dentro la televisione, essere un po’ meno da soli. Ma questo è un altro discorso.

Immagine articolo Fucine Mute

(fine terza parte)

Questa che vi presentiamo è una trascrizione del seminario di sceneggiatura tenuto a Trieste da Sandro Petraglia presso il Servizio di Cineteca Regionale del Friuli Venezia-Giulia, nel marzo del 1995. “Queste cose ci piace farle, ma purtroppo poi va a finire che non le facciamo quasi mai”, ci aveva detto Petraglia accettando il nostro invito, e questo scritto è nato anche per la volontà di aumentare i fruitori di un’occasione rara e, ci sembra, preziosa. Il testo e un po’ un copione di due intensi giorni di discussione su quell’arte/mestiere della sceneggiatura, con uno scrittore per il cinema tra i più attivi del panorama nazionale, un professionista e un autore che è passato attraverso le esperienze più diverse: dall’attività di studioso e critico al cinema autoprodotto e collettivo (con Agosti, Bellocchio e I’inseparabile compagno di scrittura Stefano Rulli), dalla serialità televisiva alla collaborazione con alcuni dei migliori registi del nostro cinema come Moretti, Amelio, Risi, Del Monte, Luchetti, Mazzacurati. Le scelte sui progetti forse basterebbero già a delineare una forte identità d’autore, e lasciamo a migliori esegeti il compito di analizzare a fondo l’abilità di narratori per lo schermo di Petraglia e dei suoi collaboratori, la loro costante ricerca di storie, personaggi e modi di raccontare interessanti, non facili, non carini.
Alla trascrizione completa sono stati apportati alcuni tagli e alcune modifiche per rendere più agevole la lettura, ma abbiamo anche cercato di conservare il più possibile la forma di queste lezioni che erano anche incontro tra persone, dialogo, digressioni, aneddoti. L’analisi del film Mery per sempre, che in classe si avvaleva dell’immediata visione dei brani analizzati, era forse la parte più difficile da rendere sulla pagina, ma siamo certi che alcuni piccoli problemi di comprensione saranno riscattati dal valore del materiale.

Stefano Dongetti
curatore della pubblicazione

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