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Cinema

Lezioni triestine (III)

Put your money on the screen

Seminario con Roger Corman
Trieste, Civico Museo Revoltella, luglio 1995.

Loenzo Codelli (LC): Cosa consiglierebbe ad un regista? Quali sono le cose che è assolutamente necessario avere e di quali, invece, si può fare a meno nel realizzare un film con un budget limitato?

Roger Corman (RG): Prima di tutto vorrei dirvi cosa non si dovrebbe assolutamente fare. Qualche tempo fa c’era una ragazza che lavorava con me, aveva cominciato con me subito dopo il college. Dopo un po’ è andata a lavorare per un’altra casa di produzione, dove si aveva a disposizione più denaro e si potevano fare film con un certo budget. Un giorno l’ho incontrata e le ho chiesto come andavano le cose con il suo nuovo lavoro, e lei mi ha raccontato che stavano preparando un film, e che, proprio per questo motivo, il regista e il produttore erano andati in Texas per cercare il posto giusto per l’ambientazione del film; mi raccontò che per fare questo avevano utilizzato un jet privato. Rimasi molto stupito e le chiesi: “Come se lo possono permettere, con un budget che non raggiunge il milione di dollari? Oltretutto ci saranno almeno dieci voli di linea che vanno da qui a Dallas ogni giorno! Mi disse che per quel momento potevano disporre di tutti i fondi stanziati per quel film, ma che alla fine non gli sarebbe rimasto un soldo. Molto semplicemente!

Penso che questa storia ci offra un perfetto esempio della Regola n.1: tutto il denaro che investi deve andare a finire sullo schermo! Non sprecare i tuoi soldi noleggiando jet privati per i tuoi spostamenti, se puoi prendere un volo di linea, e se prendi l’aereo non viaggiare in prima classe, ma in seconda. Il tuo denaro direttamente sullo schermo, senza jet privati o altri status symbol. Nessuna di queste cose determinerà la qualità del tuo film.
Un altro consiglio che posso dare è curare molto la preparazione. È una cosa su cui faccio gran conto. È importantissima per tutti i film, ma soprattutto per quelli con un budget limitato. Un regista dovrebbe fare il grosso del lavoro e dell’organizzazione prima che si inizi a girare: controllare bene la sceneggiatura, provare con gli attori, cercare i posti giusti per girare, progettare i set e prepararli, avere in mente l’angolatura e l’inquadratura giusta per ogni scena. In questo modo puoi arrivare preparato sul set, e non ti senti smarrito ad andare avanti e indietro durante le riprese, mentre la tua squadra sta lavorando; perché quelli sono tutti soldi persi. Ogni secondo vale una fortuna, e per questo è importante che organizzi tutto prima, perché ti permette di sapere in precedenza quale sarà la tua prossima mossa. Ora, questo non vuol dire che tutto quello che organizzi e che pensi di fare alla fine sia la cosa più giusta da fare: molte idee ti vengono anche sul set. Ma se riesci a programmare tutto prima, cambierai al massimo il 10 o il 20 per cento dei tuoi progetti. Penso che un’adeguata preparazione sia fondamentale, perché ti permette di non perdere tempo durante le riprese.

Un’altra cosa che posso dirvi è che la maggior parte delle volte volevo fare film poveri con un budget povero. Altre volte volevo fare un film ricco di particolari e di effetti speciali con lo stesso budget utilizzando tutte le tecniche di cui ero a conoscenza. Penso che il principio secondo cui “le regole esistono per poterle infrangere” non sia sempre valido. Devi sapere perché stai infrangendo quella regola. Posso dire che personalmente ho ottenuto migliori risultati quando ho fatto film semplici con un budget limitato. Potevo lavorare più liberamente e non dovevo preoccuparmi troppo degli aspetti tecnici del budget. Se invece cercavo di fare grossi film con budget limitati la mia attenzione era assorbita dalle preoccupazioni sul budget, su come avrei trovato i soldi per questo o quell’effetto speciale, e questo interferiva con il mio lavoro di regista.

Potrei continuare ancora per ore, ma alla fine tornerei sempre sulle cose che vi ho già detto: non sprecare i soldi, preparare accuratamente tutto in precedenza, discutere le diverse scene con gli attori, con la squadra, con il cameraman, insomma coinvolgere tutti nel tuo progetto. Dovrai essere il capo ma non il dittatore. L’ideale sarebbe essere il primo tra persone uguali; tutti lavorano meglio se c’è uno spirito di squadra. Se qualcuno dà un suggerimento valido, accettalo. Ho visto persone rifiutare un buon consiglio, perfino quando era evidente che era la soluzione migliore. Se il custode ti dà un buon consiglio, prendilo, perché il film ne gioverà e la squadra si renderà conto di poter dare il suo contributo, perché verrà perlomeno ascoltato. Non generalizziamo: si accettano le idee altrui quando sono buone idee, e quando si rifiutano si rifiutano gentilmente.

cor-8.jpg (4871 byte)Sul set valgono queste tre cose, in definitiva: programmare tutto, essere deciso ma disponibile, trattate tutti educatamente. Per esempio, pensate alla storia che vi ho raccontato prima su quel film in Texas. Probabilmente la squadra non ha viaggiato su un jet privato e probabilmente il regista alloggiava in un albergo più lussuoso di quello della sua squadra durante le riprese. Io e la mia squadra siamo sempre andati nello stesso albergo, abbiamo sempre mangiato insieme, eccetera. Serve a instaurare un certo clima. Se proprio ci tieni, prendi una suite in un albergo lussuoso, ma quando il film è finito, non durante la lavorazione.

In parole povere è una questione di avere la testa sulle spalle, e di organizzare tutto in precedenza: solo così riuscirai a lavorare al meglio e ad esprimere tutta la tua creatività durante la lavorazione del film.

Molto dipende anche dal tuo atteggiamento: ho conosciuto molti giovani che dicevano: “È un progetto senza troppe pretese, non mi pagano abbastanza, lo faccio così, tanto per fare…”, e che non hanno fatto molta strada. Altri però hanno avuto un diverso approccio alla questione: “D’accordo, è un progetto poco ambizioso, ma hanno dato quest’incarico a me e quindi lo farò al meglio delle mie possibilità”, e hanno avuto più fortuna dei primi. Devi sempre dare il meglio, qualunque sia il tuo compenso, e qualunque sia il lavoro che stai facendo.

Massimiliano Spanu (MS): Adesso delle immagini da Von Richthofen and Brown, del 1970, con John Philip Law, Barry Primus. Un film che in moltissime delle sue inquadrature ricorda certi quadri di battaglia futurista.

FILM: scene di battaglia aerea sulla Loira.

RC: Be’, come ho detto prima, mai fare un grosso film con un budget limitato, e Von Richthofen and Brown è l’esempio che conferma la regola. Però devo dire che era un buon film, grazie soprattutto alla preparazione che ha preceduto la sua lavorazione.
Il film che ho girato a Dubrovnik, The Secret Invasion, ebbe molto successo. La United Artists mi chiese quindi di fare un altro film di guerra, e io non ne avevo proprio voglia, perché sinceramente ce n’erano già troppi in giro. Però così come per la serie di Edgar Allan Poe, che ho fatto perché da ragazzo avevo letto tutti i suoi racconti, allo stesso modo ho sfruttato un’altra delle mie passioni giovanili. Da ragazzo mi piaceva molto costruire modellini di aeroplani, e tra questi ci fu anche il triplano rosso del Barone Von Richthofen. Ho detto alla United Artists, che avrei fatto un film sul Barone Rosso, e questo è stato, per l’appunto, Von Richthofen and Brown, dal nome del Barone e di Roy Brown, il pilota canadese che lo uccise. Questo è, tra l’altro, uno dei tanti esempi di un film riuscito perché programmato accuratamente. Una parte del ragionamento che ha poi dato vita alla trama del film, è stato il fatto che ho preso la Prima Guerra Mondiale come la fine dei Cavalieri e degli Eroi in generale. Partendo da questa considerazione, sono arrivato alla conclusione che l’era degli eroi aveva lasciato il posto all’era della distruzioni di massa. Ho impostato dunque il mio film su queste basi, facendo in modo che i due protagonisti ne fossero i simboli.

Il Barone Von Richthofen veniva da una famiglia aristocratica prussiana, che aveva servito l’esercito prussiano prima e quello tedesco poi, per intere generazioni. Il Barone era stato educato e cresciuto perché diventasse un soldato e, una volta in guerra, divenne il più grande eroe tedesco della Prima Guerra Mondiale. Ci sono delle bellissime fotografie delle sue acrobazie e parate, scattate a Berlino. L’uomo che l’ha ucciso invece, era un meccanico canadese che si chiamava Roy Brown, ed era un uomo assolutamente normale, ma con una grande prontezza di riflessi, dote indispensabile per un pilota durante la guerra.
Ho preso dunque la classe operaia, Roy Brown, che sconfigge l’aristocrazia, come simbolo della fine dei grandi eroi; il Barone era l’ultimo Cavaliere. Era un film per il quale si poteva avere un grosso budget: spesi circa sei o settecento mila dollari.

Abbiamo girato le scene sugli aerei in tre settimane, con due aerei presi da altri set, quello di Blue Max e quello di Darling Lili. Ho contattato personalmente i proprietari di quegli aerei e ho cercato di arrivare ad un accordo sul costo del noleggio. Blue Max era ambientato in estate, e hanno girato le scene sugli aerei in cinque mesi, per poi riprendere i lavori un anno dopo per altri due mesi; per girare Darling Lili ci hanno messo due anni. Noi abbiamo girato tutte le scene che ci servivano in tre settimane, ottenendo buoni risultati. Forse non sono perfette, ma vanno bene, e sono il risultato di un grosso lavoro di preparazione. Avevo un appuntamento all’aeroporto con alcuni membri della Flotta Aerea Irlandese che dovevano aiutarci nelle riprese in volo. Mi sono presentato all’appuntamento con tre quadernetti in cui avevo disegnato dei bozzetti sulle diverse scene. Erano tre a causa del tempo irlandese: uno era il quaderno del cielo blu, uno era del cielo grigio, e uno era il quaderno “che non ha importanza”. Quando arrivai all’aeroporto per le riprese, a seconda del tempo tirai fuori il quadernetto appropriato e cominciammo a girare. Se il tempo cambiava, cambiavo quaderno. Se il cielo era poco nuvoloso, aprivo il terzo quaderno e giravo le scene che avevo pensato per un cielo con qualche nuvola. Avevo programmato tutte le scene dei combattimenti con tutti i particolari, comprese le condizioni meteorologiche. Facendo così sono riuscito ad accorciare i tempi, mentre prima sicuramente non riuscivano a girare più di due scene al giorno, o anche meno: se avevano bisogno di un cielo blu, è probabile che aspettassero per giorni interi le condizioni di tempo ideali per la loro scena.
Per gli altri due film, molti scenari erano stati anche ricostruiti in studio con dei pannelli posti dietro gli aerei (anch’essi ricostruiti) e veniva creato l’effetto del vento con macchine apposite.
Tutto viene creato in studio, dall’aereo al vento, ai movimenti che può fare un aereo in volo durante un combattimento. C’è bisogno di un sacco di tempo, è una tecnica molto costosa e il risultato non è mai completamente buono. Alla fine si spendono un sacco di soldi per organizzare pannello e aereo e tutto il resto, e ciò non si rivela quasi mai un buon investimento perché è sempre una finzione.

La mia tecnica consisteva nell’utilizzare degli aerei a due posti: davanti stava il pilota e dietro l’attore. Tra i due mettevamo una piccola mdp, sulla quale regolammo il fuoco in modo che si potesse vedere anche lo sfondo alle spalle dell’attore, che era allo stesso tempo anche il cameraman. Al momento opportuno, il pilota dava il segnale all’attore con un movimento della mano e l’attore avviava la macchina e cominciavano le riprese del combattimento aereo. Abbiamo risparmiato almeno il novanta per cento di quanto avremmo speso con la ricostruzione della scena in studio, e il risultato è stato mille volte migliore. L’attore è veramente su un aereo, e quando cambia la luce, cambia in modo naturale.
Tutto questo era stato previsto e programmato, per questo andò tutto così bene. C’è voluto un sacco di tempo, ma era indispensabile. Siamo anche riusciti a risparmiare una grossa somma di denaro: sia Blue Max che Darling Lili erano sull’ordine dei dieci milioni di dollari, mentre il mio film costò meno di un milione. Non ricordo esattamente quanto, ma penso fosse sui sette o ottocento mila dollari.

MS: Qual è stata la ragione per la quale ha smesso di fare il regista?

RC: Ricordo che feci questo film pochissimo tempo dopo aver terminato quello precedente. Avevo fatto tre film di fila, con un periodo di pausa tra l’uno e l’altro durante il quale preparavo il film successivo. Durante le riprese di questo film vivevo a Dublino, e ogni mattina mi recavo all’aeroporto per lavorare. La strada che portava all’aeroporto, ad un certo punto si divideva: a sinistra si andava all’aeroporto e a destra a Galway Bay, che tra l’altro è il posto che ho scelto per la mia nuova casa cinematografica. Ogni mattina ero tentato di girare a destra per andare a Galway Bay e sedermi sulla spiaggia a guardare l’oceano. E invece tutte le mattine, diligentemente, giravo a sinistra e andavo all’aeroporto, e ogni mattina pensavo: “Dopo questo film smetto, sono così stanco che non riesco nemmeno a finire questo qui…”. E così feci. Ho smesso di fare il regista, nonostante il film abbia avuto un grande successo di pubblico, e abbia ottenuto un buon giudizio anche dalla critica (il New York Times l’ha inserito nella classifica dei dieci migliori film dell’anno). Dissi alla United Artists che avevo bisogno di un po’ di riposo, almeno un anno. Invece durante quell’anno “sabbatico” cominciai a lavorare alla mia casa di produzione e mi sono lasciato coinvolgere al punto che non sono più tornato a fare il regista, anche se mi ripeto continuamente: “Chissà, forse l’anno prossimo…”. Non ho più realizzato film, eccezion fatta per Frankenstein Unbound che ho girato qui in Italia; ma non ho ancora abbandonato del tutto l’idea di ricominciare.

MS: Un breve spezzone da Targets di Bogdanovich, produzione del 1967 di Roger Corman. Il film, in sintesi, racconta la storia di follia di Bobby Thomson. Il giovane americano qualsiasi, bianco e perbene, di famiglia piccolo-borghese qualunque che improvvisamente decide di provare la propria abilità con le armi, sparando sulla gente.

FILM: Bobby spara dall’impalcatura dello schermo del drive in.

RC: Questo fu il primo film di Bogdanovich. È Targets, al quale ha partecipato, nelle vesti del protagonista, Boris Karloff. Boris mi “doveva” ancora dei giorni di recitazione: infatti un nostro precedente contratto prevedeva più giorni di lavorazione di quelli che effettivamente ci vollero per girare The Terror. Dissi a Peter che il cast avrebbe dovuto includere Boris Karloff, che però poteva lavorare solo 7 o 8 giorni, quelli che mi “doveva”, e che doveva includere nel film parti di The Terror. Peter ebbe una magnifica idea. Ha preso la maggior parte delle scene di The Terror nelle quali ci fosse Boris, e ha ambientato la scena della strage in un drive-in dove veniva proiettata la prima di The Terror, mescolando la finzione, il film dell’orrore che veniva proiettato, e la “realtà”, il ragazzo che sparava sugli spettatori, le immagini di Karloff in carne ed ossa.

LC: Fu un’idea di Peter Bogdanovich o sua?

RC: No, no, l’idea era di Peter. Io gli ho dato una sorta di linee guida, e lui ha fatto il resto. Spesso gli vennero in mente delle soluzioni che non mi piacevano molto. Alla fine ci siamo resi conto entrambi che in quel modo non saremmo andati molto lontano: io non ero d’accordo con molte delle sue trovate e lui con le mie, e così non potevamo fare niente di buono. Finché un giorno, dopo un mese o due che lavorava sulla sua idea, me la presentò e realizzammo il film così come lo vedete.

LC: Vorremmo terminare questa chiacchierata con qualche altra domanda dal pubblico. Vorrei che si parlasse dei giovani registi, come Peter Bogdanovich, o Scorsese, Coppola, o ancora Ron Howard o James Cameron, la nuova generazione, persone che hanno lavorato o che tuttora lavorano con Roger Corman. Una cosa straordinaria, che ho letto nella sua biografia, è il fatto che non ci sono porte nei suoi uffici, così che si possa accedere al suo ufficio o agli altri reparti senza problemi. Questa politica dell’assenza di porte è straordinaria per i ragazzi che, attraverso lei, si avvicinano al mondo del cinema.

RC: Era un’idea che avevo avuto molto tempo fa, ma ora sto cambiando il mio modo di vedere la cosa. Perché forse ho troppo contatto con le persone. In definitiva però si ricollega a ciò che raccontavo prima, riguardo al rapporto paritario con le persone che lavorano con me, anche se un minimo di gerarchia ci deve essere.

Intervento: Ci fornirebbe un’opinione su Robert Altman, premiato in quei giorni a Fiesole in occasione di un convegno scientifico.

RC: Conosco Robert Altman, ma non siamo amici. Non ho mai avuto occasione di lavorare con lui e non lo conosco bene. Penso che sia un regista tra i migliori nel panorama americano, e forse uno dei migliori, anche a livello mondiale. Non sempre, tuttavia, riesce a realizzare i suoi film al meglio delle sue capacità. Un film uscito recentemente, The Player, è uno dei pochi film su Hollywood che veramente la descrivano come è realmente. Molti film sullo stesso tema non riescono nel loro intento, nemmeno quando chi li realizza ha passato tutta la sua vita a Hollywood. Sono falsi, e il pubblico se ne accorge. Dovrebbero osservare il modo in cui vanno le cose a Hollywood, e metterle su pellicola; nel lavoro di Altman questo processo di osservazione si nota, insieme ad una buona dose di sense of humour. Per esempio: nella scena iniziale un giovane regista, impersonato da Adam Simon, che tra l’altro ha lavorato anche con me, si presenta al produttore esecutivo di una grande casa di produzione e lo segue per tutti gli uffici cercando di raccontargli la trama del film che aveva scritto. Alla fine il produttore gli dice molto educatamente che è molto contento di rivederlo e che troverà sicuramente il tempo per leggere la sua sceneggiatura. Non appena il giovane regista se ne va, il produttore prende il telefono in mano e dice alla segretaria: “Che sia la prima ed ultima volta che quel tipo mette piede nel mio studio”. Be’, è esattamente così che vanno le cose a Hollywood.

Intervento: Se dovesse fare un film sui giovani d’oggi, cosa direbbe? Seconda domanda: negli anni tra il ’61 e il ’62 stava facendo il ciclo Poe. Nel ’63 H. G. Lewis girava Blood Feast. Nel ’62, peraltro, c’erano alcuni italiani che facevano un tipo specifico di horror, alla Mondo Cane, che ha fatto un sacco di successo in tutto il mondo. Cosa ha influito sul cinema successivo? Il suo tipo di horror con il suo modo di fare cinema o modi simili a questo ?

RC: Per quanto riguarda la prima domanda, probabilmente ora non farei un film sui giovani, sono troppo vecchio. Io ne ho fatto già tanti, lo passerei ad un altro regista. Riguardo la seconda domanda: il mio concetto di horror è sempre stato molto soggettivo. Cercavo di lavorare sulla mente del pubblico, su come avrebbe reagito, e per fare questo applicavo tutti gli strumenti a mia disposizione. Secondo me non erano poi così terrificanti, ma per molti lo erano. So che in Italia per esempio molti dei miei film sono stati censurati, anche se solo in parte. La cosa mi ha stupito, perché se li si esamina a fondo, il terrore suscitato dai miei film era più che altro creato dall’immaginazione del pubblico, e questo era esattamente l’effetto che volevo creare. Non riesco ad immaginare cosa ci fosse da censurare o da tagliare. Oggi i film dell’orrore sono molto più espliciti. È perfettamente normale, oggi, una scena in cui tagliano la testa a qualcuno e il sangue schizza da tutte le parti. A me, personalmente non piace lavorare in questo modo. Penso che debbano esserci due diversi processi nella lavorazione di un film: un primo processo in cui colui che realizza il film cerca di descrivere le idee che ha in mente, e uno in cui il pubblico riceve il messaggio reinterpretandolo nella propria mente, a seconda dell’effetto che quel film ha su di lui. In pratica durante una proiezione in sala, il pubblico sta guardando diversi film, simili tra loro, ma diversi. Quando io creo un film, cerco di trasmettere le mie sensazioni, alle quali il pubblico aggiunge le proprie paure e il proprio senso dell’orrore. Un film invece che mostra una persona a cui viene tagliata la testa, finisce lì, e non rimane molto da interpretare. È tutta una questione di sensazioni: i film dell’orrore di oggi sono molto più diretti, ma penso che quelli meno immediati abbiano un diverso effetto sugli spettatori. Probabilmente è solo l’opinione di chi ha lavorato in tempi diversi, ed è tipico dei vecchi dire “Ah! Ai miei tempi…”. Sono sicuro che i registi di oggi, fra vent’anni, diranno la stessa cosa.

LC: Parliamo di A Bucket Of Blood. Questo è uno dei film preferiti di Roger Corman, e sarà lui stesso a parlarvene, prima della proiezione di stasera.

RC: Questo film fu il mio primo tentativo di realizzare un film dell’orrore. Lo girammo in cinque giorni, contrariamente a The Little Shop Of Horrors, per il quale ci vollero solo due giorni. Il tema era simile in entrambi i film, ma A Bucket Of Blood mi piace di più, forse perché, avendo qualche giorno in più a mia disposizione, ho avuto modo di curare maggiormente le inquadrature e tutto il resto. Però, non so per quale ragione, The Little Shop Of Horrors ha avuto un maggiore successo di pubblico, ed è diventato anche un film cult. Anche A Bucket Of Blood è conosciuto, ma non è altrettanto famoso, e forse non tutti sanno che fu il mio primo vero tentativo di realizzare una commedia dell’orrore.

A cura di:
Cristina D’Osualdo e Massimiliano Spanu.
Introduzione e moderazione di:
Lorenzo Codelli e Massimiliano Spanu.
Traduzione di:
Rosella Zoccheddu

A distanza di anni pubblichiamo il resoconto dell’ultima lezione triestina di Roger Corman. La lezione, tenuta di fronte ad un pubblico vasto ed eterogeneo composto, comunque, soprattutto di studenti universitari, venne registrata in video. Ciò che segue ne è la trasposizione quanto più fedele possibile. Ciò a cui non abbiamo voluto ovviare per non appesantire troppo il documento è la ripresa e la messa in rete di quegli stessi spezzoni cinematografici che andavano a costituire la materia e lo spunto per la discussione, alcuni dei quali certamente troppo lunghi. In tal senso, oltre alle immagini, riportiamo una breve descrizione della scena presa in esame.

A cura di:
Cristina D’Osualdo e Massimiliano Spanu.
Introduzione e moderazione di:
Lorenzo Codelli e Massimiliano Spanu.
Traduzione di:
Rosella Zoccheddu


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