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Cinema

…no, ma ho visto il film!

Il complesso della simultaneità nei rapporti fra cinema e narrativa

I.

I rapporti fra chi fa cinema e chi si occupa in prima persona di letteratura raramente hanno avuto i caratteri dell’idillio. Certo, vi sono stati momenti di straordinaria intesa e di scambio attivissimo e reciproco — quelli che hanno segnato la parabola di due esperienze fondamentali come quella del Neorealismo italiano e quella del nouveau roman, tanto per fare due esempi notissimi — ma, a uno sguardo retrospettivo, l’impressione complessiva è quella di una certa diffidenza e di una vicendevole perplessità. Nel quadro di un innegabile interesse e di una indubbia curiosità degli uomini di lettere per il linguaggio cinematografico e dei cineasti per le metodologie e le tecniche narrative sviluppate nel corso del secolo dai grandi innovatori della tradizione letteraria, infatti, trovano spazio le dense ombre prodotte da approcci non del tutto sereni e da forme sottili di pregiudizio.

Se il cinema ha sofferto spesso, lo ricordava ancora un decennio fa lo studioso anglosassone Neil Sinyard, di un complesso di inferiorità nei confronti della letteratura, il mondo della narrativa vi ha spesso contrapposto un senso di superiorità altrettanto infondato, superficiale e, tanto per chiarire subito le cose, sospetto. Le tracce di un atteggiamento di sufficienza degli scrittori nei confronti della narrazione filmica sono molteplici e diffuse. Se ci fermiamo al panorama italiano, ad esempio, colpisce che, ancora nel 1986, come si evince da un ampio e particolareggiato studio di quell’anno, il 41,3 % di un campione di autori in gran parte giovani opponesse un rifiuto più o meno netto all’ipotesi di subire una qualsiasi influenza estranea agli aurei territori della letteratura e della poesia. Ciò che ci interessa di più, tuttavia, a fronte di tali atteggiamenti di preclusione e del loro totale anacronismo in una situazione culturale mossa qual è quella contemporanea, sono piuttosto le posizioni più attente e meditate di quanti, fra gli scrittori contemporanei, non rifiutano il confronto con il linguaggio cinematografico ma vi si rapportano in modo problematico.

Facciamo un passo indietro. Le riflessioni che, con intensità crescente a partire dagli anni ‘60, studiosi e critici hanno dedicato ai rapporti fra cinema e letteratura tendono a dare, dei due percorsi paralleli, un immagine che possiamo definire con la metafora della pellicola col sonoro fuori sincrono. Ripercorrendo rapidamente la storia di questi approcci interdisciplinari alle forme moderne del narrare l’impressione che se ne ricava è che tutto accada prima su di un versante e in seguito sull’altro, che le innovazioni sorgano esclusivamente su un terreno e vengano poi esportate a quello contiguo. Pertanto è l’inesauribile questione sul “chi ha influenzato chi” a tenere banco e ad essere costantemente ripresa da punti di vista spesso antitetici. Così, se lo statunitense John L. Fell ritiene di dover reagire alle tante storie del cinema che attribuiscono all’uno o all’altro regista l’invenzione di alcune delle più significative tecniche narrative della nostra epoca riconducendo l’evoluzione della settima arte nel solco della tradizione narrativa romanzesca, il suo compatriota Keith Cohen, pur all’interno di una disamina per molti versi equilibrata, gli risponde tentando di conferire al cinema una sorta di problematico primato e una esemplarità tale da influenzare a vari livelli la scrittura narrativa.

Ugualmente sterile mi sembra la polemica a distanza su quale, fra le due discipline artistiche, abbia saputo incarnare più efficacemente l’ideale estetico moderno della consapevolezza e dell’esibizione delle strutture narrative e quale si sia, al contrario, maggiormente dedicata alla perpetuazione di un ideale di scrittura trasparente, atta a nascondere i meccanismi del suo farsi e a sprofondare il fruitore nell’illusione di una completa neutralità della narrazione. Esagera senza dubbio Cohen quando sostiene che si possa affermare “senza esagerare che l’esperienza cinematica è impossibile senza una simultanea esperienza del suo apparato — almeno del proiettore”. Non soltanto perché, a smentirlo, fanno a gara gli sforzi contrapposti di tanto cinema, non solo hollywoodiano, impegnato nell’offrire allo spettatore un’illusione il più possibile perfetta da una parte, e quelli di quanti hanno cercato di sfondare questa convenzione attraverso le diverse tecniche di straniamento dall’altra. Ma anche perché, sul piano da lui individuato, non si vede alcuna possibilità di isolare il cinema rispetto alle altre arti e ai loro “apparati” (mi pare evidente che l’atto di voltare le pagine di un libro interferisce con l’immersione nella continuità diegetica quanto e più del ticchettio sommesso del proiettore).

D’altra parte si dimostra sicuramente miope buona parte della critica letteraria per la sua abitudine di attribuire all’estetica narrativa contemporanea i soli caratteri dell’autoriflessività, della consapevolezza e dell’attitudine ad esibire le strutture attraverso cui la narrazione si organizza. Si tratta di un’impressione che possiamo in gran parte ascrivere a una distorsione prospettica, quella data dalla tendenza a considerare la storia della letteratura come storia delle sue esperienze più rilevate e innovative là dove gli studiosi di storia del cinema, in quanto si occupano anche della storia di un’industria, sono abituati a prestare maggiore attenzione ai livelli medio e basso della produzione. In realtà, come da anni sostengono Giuseppe Petronio e la schiera di quanti hanno fatto proprio il suo punto di vista sulla letteratura dell’età di massa, e come hanno recentemente messo in risalto a proposito del panorama italiano osservatori di cose letterarie più attenti alle dinamiche del mercato, la stessa storia del nostro romanzo, nel Novecento, andrebbe riscritta con maggior riguardo sia per il livello della produzione seriale “di genere”, sia per la predominanza di un prodotto medio “di qualità” che ha dimostrato la sua vitalità superando indenne tutti gli impetuosi moti di rinnovamento di cui la nostra letteratura va giustamente fiera.

L’errore, mi sembra evidente, in entrambi i casi consiste nell’attribuire a un determinato strumento narrativo, o a una sezione delle opere che esso ha prodotto, le sole caratteristiche di una progressiva e difficile presa di coscienza che dobbiamo certamente considerare fra i risultati più alti e fra i segni maggiormente distintivi del nostro pensiero estetico ma che ha richiesto tempo, si è venuta chiarendo soprattutto a partire dagli anni ‘60 (benché se ne possano trovare le tracce a partire da molto prima) e ha investito cinema e letteratura con uguale intensità.


II.

Ma se a uno sguardo più approfondito l’impressione di scarsa sincronizzazione del sonoro per la pellicola che racconta la storia del cinema e quella della letteratura — soprattutto per quanto riguarda le esperienze più recenti — si dissolve, qual è la causa della poca armonia che tuttavia si riscontra nei rapporti fra le due discipline? E, in particolar modo, perché gli scrittori dimostrano generalmente, nei casi peggiori, un aristocratico disprezzo nei confronti del cinema e un problematico, contrastato interesse nei migliori? Certo a tutto ciò non è estranea la situazione di concorrenzialità nella quale il contemporaneo mercato dell’intrattenimento ha collocato le due arti, e tuttavia ritengo vi sia anche qualcosa di più profondo, un elemento forse solo parzialmente consapevole che vorrei cercare di portare a galla.
Il cinema è l’arte supremamente rappresentativa del secolo, quella che con la massima esemplarità incarna gli ideali dell’estetica contemporanea. Di questa verità, in questi nostri anni di fine millennio in cui ci si volge a tracciare bilanci ormai non più “del tutto provvisori” e in cui le nuove frontiere dell’espressione artistica “elettronica” ci si parano davanti come possibilità, vertigine, virtualità ma non certo ancora come alternativa pienamente caratterizzata, nessuno può dubitare.

Per capire le ragioni profonde di questa sua leadership, tuttavia, è necessario ritornare agli albori della sua storia e cercare di individuare le caratteristiche del suo linguaggio che meglio si rapportano a certe prerogative irrinunciabili della nostra epistemologia. Scrive Arnold Hauser nel quarto volume della sua Storia sociale dell’arte che il cinema deve la sua rappresentatività al fatto di riuscire a dar corpo alle astrazioni circa i concetti di tempo e spazio la cui percezione consolidata viene stravolta all’inizio del secolo. Attira la nostra attenzione, insomma, sul fatto che, proprio mentre si sviluppa una rivoluzione epistemologica come quella rappresentata dalla teoria della relatività di Einstein e si prepara una rivoluzione forse ancora più sconvolgente come quella legata alla fisica quantistica, prende piede e inizia la sua evoluzione la tecnica delle immagini in movimento che introduce nuove categorie nella nostra diretta esperienza del tempo e dello spazio. Si tratta di osservazioni che, a furia di riprese e rivisitazioni, suonano ormai irrimediabilmente banali ma che ad uno sguardo più attento, al contrario, possono ancora stimolare riflessioni interessanti. Scrive infatti l’Hauser che il cinema “si distingue dalle altre arti essenzialmente perché nella sua visione del mondo spazio e tempo si confondono: il primo assumendo un carattere quasi temporale, il secondo un carattere in certo grado spaziale”.

Vediamo innanzitutto cosa significa questa cosa rispetto allo spazio: “Lo spazio — prosegue lo studioso — perde il suo carattere statico, la sua inerte passività per farsi dinamico; nasce, per così dire, davanti ai nostri occhi. È fluido, illimitato, aperto, un elemento che ha la sua storia, i suoi momenti, le sue tappe, i suoi stadi irripetibili. (…) Le singole fasi del movimento infatti non sono più della stessa specie, n é le singole porzioni dello spazio di ugual valore”. L’esempio che egli porta è quello dei primi piani che, dice, non sono posti a casaccio, ma giungono “soltanto dove la loro energia virtuale può e deve esplicarsi”, anche se qui, a mio avviso, c’è qualcosa che richiede una precisazione perché mi sembra che questa osservazione abbia poco a che fare con una autentica intersezione delle dimensioni spaziale e temporale: il primo piano costituisce, semmai, una tecnica per conferire allo spazio una funzione espressiva ed è ovvio che essa venga sfruttata nei momenti di maggior tensione. E tuttavia l’intuizione che nella tecnica cinematografica del primo piano (come in altre) si abbia una “temporalizzazione dello spazio” non è affatto sbagliata, a patto che alla abituale nozione del tempo si sostituisca la nozione, anch’essa emergente negli anni dei primi albori del cinema di tempo della coscienza. Solo attraverso la concezione del tempo come durata, come tempo interno della coscienza opposto alla successione di istanti-ora così come viene proposta da Bergson, l’affermazione di un ingresso della dimensione temporale nell’esperienza dello spazio cinematografico trova una sua giustificazione. Caricato di un forte impatto drammatico il primo piano (ma vale per qualsiasi porzione dello spazio filmico) modifica inevitabilmente la nostra percezione dello scorrere del tempo: la accelera, insieme ai battiti del nostro cuore, o la dilata.

Per quanto riguarda la dimensione temporale, invece, Arnold Hauser ci dice che, col cinema, il tempo “si spazializza” perché “nel tempo del film noi ci moviamo come di solito ci avviene solo nello spazio, cioè liberissimi di cambiar direzione: passiamo dall’una all’altra fase del tempo, come da una stanza all’altra, separiamo i singoli stadi dello sviluppo degli eventi e li raggruppiamo su per giù secondo criteri di ordine spaziale”. Ci ricorda, cioè, che nella pellicola cinematografica il tempo “si può fermarlo nei primi piani, invertirlo nelle visioni retrospettive, recuperarlo nelle immagini della memoria e saltarlo nelle visioni del futuro”.
Ora, è certo che, come sottolinea lo stesso Hauser, nel confronto con la struttura drammaturgica, quella cinematografica costituisca una forma espressiva assolutamente innovativa e che questa innovazione vada nel senso di un più stretto contatto con le problematiche sapienziali del secolo. Ma come va la cosa con la letteratura? Per quanto riguarda la modificazione della dimensione spaziale abbiamo visto che essa è legata ai modi in cui l’esperienza dello spazio viene rivissuta dalla coscienza dello spettatore. In questo senso non mi sembra si debbano registrare passi in avanti rispetto alle dinamiche della scrittura romanzesca perché nell’intera storia della letteratura lo spazio è, da sempre, uno spazio affettivo, e, come tale, elemento che agisce anche modificando il nostro tempo interno, dilatando o comprimendo il tempo della coscienza.

Per quanto riguarda il discorso sulla spazializzazione del tempo, poi, vorrei ricordare che le tecniche di arresto, reversione, rallentamento e accelerazione della scansione temporale, ciò che fa dire all’Hauser che nel cinema il tempo è percorribile come lo spazio, non possono assolutamente essere considerate esclusive del linguaggio cinematografico. Una delle scoperte più decisive della nostra epoca nel campo dello studio delle strutture narrative è legata al fondamentale richiamo, sorto nell’ambito dell’esperienza dei formalisti russi e poi sviluppato da tutto lo strutturalismo, a distinguere fra la fabula e l’intreccio in ogni testo narrativo; il che equivale a ricordarci che molto spesso il tempo del romanzo non è un tempo lineare. Infatti, se è proprio del Novecento l’aver richiamato l’attenzione e quindi l’aver sviluppato una consapevolezza di tutto ciò, le alterazioni della successione temporale nelle opere narrative sono tecniche fra le più antiche. Facciamo qualche esempio partendo dalle osservazioni dell’Hauser:

Sospensione del tempo narrativo: gli esempi potrebbero essere innumerevoli; prendiamone un paio dall’Ariosto che, nel Furioso, arresta sempre lo scorrere del tempo diegetico quando intende stornare l’attenzione da un personaggio per seguire le gesta di un altro:

Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge:
ma seguitiamo Angelica che fugge. (I, 32, vv. 7-8)

oppure:

Lascio Rinaldo e l’agitata prua,
e torno a dir di Bramante sua. (II, 30, vv. 7-8)

o ancora:

Lasciànlo andar, che farà buon camino,
e torniamo a Rinaldo paladino. (IV, 50, vv. 7-8).

Inversione attraverso le visioni retrospettive: basta pensare al Manzoni, le vicende giovanili di Fra Cristoforo e della monaca di Monza sono perfetti esempi di retrospettiva.

Recupero per mezzo delle immagini della memoria: possiamo tranquillamente prendere un esempio di duemila anni fa dal momento che le avventure vissute da Enea nella sua peregrinazione le apprendiamo dal racconto che ne fa lo stesso protagonista alla regina Didone a partire dal secondo libro dell’Eneide (un episodio che, d’altra parte, riprende fin nell’attacco il modulo del racconto di Ulisse ad Alcinoo nell’Odissea, il che riconduce la nostra esemplificazione agli albori stessi della narrazione occidentale).

Salto attraverso l’anticipazione di fatti futuri: è uno degli espedienti più amati dell’epica antica (la catabasi, ossia ladiscesa agli inferi dell’eroe dell’epos comportava sempre anche una sbirciatina nei fatti futuri). Per noi l’esempio classico rimane Dante con le profezie di Ciacco nel VI dell’Inferno, di Cacciaguida nel XVII del Paradiso e con la gustosa illustrazione della presbiopia profetica dei trapassati del decimo canto dell’Inferno (anche se bisogna ammettere che non si tratta di autentiche prolessi diegetiche, cioè di un’anticipazione di azioni che — nella scansione temporale — dovrebbero seguire momenti che, invece, vengono differiti. Naturalmente la letteratura offre diversi esempi anche di tale dinamica, ma nessuno che possa reggere il confronto con quelli citati precedentemente per età e importanza).

Su queste basi, non solo non è possibile determinare l’asserita maggiore rappresentatività del cinema per quanto riguarda la nostra epistème nei confronti delle altre arti, ma neppure verificare l’incidenza delle rivoluzioni filosofiche e conoscitive del ‘900 sulle arti in genere (dal momento che le tecniche che avrebbero dovuto esserne il riflesso diretto ci si sono mostrate ben più antiche). Esiste, tuttavia una dimensione del rapporto fra spazio e tempo che, costituendo un connubio, un punto di incontro fra di essi, è propria della nostra epoca e non di altre, ci appartiene in modo peculiare. È la dimensione della simultaneità. Lo stesso Hauser ce lo chiarisce in modo straordinariamente efficace: “L’odierna esperienza del tempo consiste soprattutto nell’esser consapevoli dell’attimo in cui viviamo, nella chiara coscienza del presente. Le cose attuali, contemporanee, connesse l’una all’altra in quest’ora presente, possiedono per l’uomo odierno un senso e un valore speciale e, alla luce di questa coscienza, il nudo fatto della contemporaneità acquista ai suoi occhi un grande significato. Il suo mondo spirituale è permeato dall’idea dell’attualità e della contemporaneità, come il Medioevo da quella della trascendenza e l’illuminismo da quella dell’avvenire.” Per quanto riguarda la cinematografia, l’esempio classico proposto dall’Hauser è quello dei finali a montaggio alternato dei film di Griffith in cui l’esito dell’azione dipende da chi, dei due antagonisti, raggiunge per primo il luogo in cui la vicenda trova il suo compimento. La fanciulla è legata ai binari, e si dibatte; inesorabile il treno avanza sbuffando vapore; il cavallo dell’eroe è lanciato a tutta velocità verso il luogo dell’imminente tragedia; ecco il treno che sopraggiunge, ecco l’eroe; il treno, l’eroe; il treno, l’eroe…

Non è difficile capire i motivi della grande portata che la nozione di simultaneità assume nel contesto moderno. Nonostante essa si collochi proprio all’intersezione delle dimensioni di spazio e di tempo e quindi risulti in vari modi sollecitata dalla riflessione intorno alla relatività di matrice einsteiniana, non penserei a un’influenza diretta delle categorie della scienza. A questo proposito, anzi, tenderei a dar credito alle parole di uno scrittore contemporaneo — cui pagherò il mio debito in seguito — che indica in una persistente “legge di conservazione dell’immaginario” l’origine dello scollamento esistente fra i risultati delle scienze contemporanee e l’immagine del mondo che circola condivisa a livello quotidiano. Penso piuttosto che la nostra attenzione sia catalizzata dalla diffusione dei mezzi tecnici che ci offrono quotidianamente la possibilità di esperire la simultaneità in vari modi: basti pensare a una semplice conversazione telefonica (per non parlare dell’esperienza della televisione o delle nuove tecnologie informatiche di comunicazione). Comunque sia la dimensione della simultaneità è uno dei luoghi che con maggiore insistenza le arti del nostro secolo hanno frequentato. È un esperienza irrinunciabile, comune a tutte le più importanti correnti artistiche: dal futurismo (coi suoi esperimenti di poesia cinetica e le sue “parole in libertà”) al cubismo (l’oggetto cubista e frutto di una scomposizione che mira a rendere visibili simultaneamente tutti i suoi lati) al surrealismo (gli esperimenti di scrittura automatica tendono alla registrazione degli immediati collegamenti mentali), per non parlare dello sviluppo della tecnica fotografica come arte. Inevitabilmente sull’esperienza della simultaneità convergono massicciamente, nel corso di tutto il Novecento, gli interessi dei romanzieri e dei cineasti.


III.

Immagine articolo Fucine MuteOra, data la sua importanza, è forse proprio attraverso l’osservazione del grado di convergenza e la misura dell’incompatibilità nei modi attraverso i quali si è verificata l’assunzione di questa “categoria” nei rispettivi linguaggi del film e del romanzo che possiamo sperare di vedere più chiaro in certi aspetti del loro rapporto. Innanzitutto possiamo osservare che, vista da vicino, la nozione di simultaneità non si presenta affatto come un ambito univoco ma si articola in due dimensioni a seconda che si enfatizzi l’uno o l’altro degli elementi che la compongono: lo spazio o il tempo. Parliamo di simultaneità, infatti, quando pensiamo a ciò che avviene in un medesimo istante in due luoghi lontani, ma anche quando un determinato processo mentale riunisce nel medesimo luogo (il nostro cervello) due diversi istanti della nostra esperienza. Entrambe queste dimensioni sono qualcosa che ciascuno di noi può sperimentare personalmente e che, come tali, possono venir ricreate con tecniche opportune. A questo primo livello — che potremmo definire della rappresentazione della simultaneità – l’accordo fra i due medium è completo. Se nel cinema, infatti, la prima nozione risulta esemplificata nei già citati finali delle pellicole di Griffith, in letteratura essa trova attenzione almeno a partire dall’Ulisse di Joyce, in particolare col capitolo denominato Simplegadi — le strade, in cui l’ambizione dello scrittore è di rappresentare tutto ciò che simultaneamente avviene nelle strade di Dublino a una determinata ora di un determinato giorno. L’altra dimensione, quella del contatto immediato fra due istanti di tempo lontani, spesso collegati da un tramite, da un elemento comune che scatena il processo, è alla base di una delle esperienze narrative più significative di tutto il Novecento, la Recerche di Proust. E il cinema la celebra attraverso uno dei suoi stilemi più rappresentativi, il flashback.

Un’altra prospettiva da cui possiamo guardare alla nozione di simultaneità riguarda quella che io definirei invece rappresentazione simultanea (di momenti, situazioni, immagini differenti). Si tratta di un’esperienza che riguarda più da vicino le componenti di avanguardia delle rispettive parabole estetiche del cinema e della letteratura ma che, quanto a queste, non fa che ribadire la sensazione di convergenza che, sotto questo profilo, le due discipline evidenziano. Per quanto riguarda il versante letterario mi riferisco in particolare agli esperimenti futuristi tesi alla sincronizzazione di sensazioni differenti attraverso una distribuzione sulla pagina di elementi grafici e verbali di tipo pittorico. Esperimenti preconizzati e in qualche misura anticipati dal fiorire di esperienze che, proprio a partire da quei confusi primi presagi di modernità che la fine dell’ottocento ci ha regalato, hanno coniugato nella passione per il calligramma l’aspirazione a un’offerta più ampia di sensazioni simultanee al lettore e l’interesse allora emergente per ogni tipo di comunicazione visuale. In ambiente cinematografico l’aspirazione a questa forma di rappresentazione plurale e sovrabbondante è ancora più evidente ed ha dato risultati decisamente più convincenti grazie al lavoro di artisti come Zbigniew Rybczynski o del più noto Peter Greenaway che mostrano la tendenza a scomporre la scena in riquadri contenenti immagini diverse che vengono mostrate simultaneamente allo spettatore con effetti di rafforzamento o invalidamento del senso.

Immagine articolo Fucine MuteIn entrambe le situazioni citate, quella della rappresentazione della simultaneità e quella della rappresentazione simultanea, tuttavia, il lavoro compiuto dagli artisti mantiene le caratteristiche di un gioco con questa fondamentale dimensione la cui esperienza viene ricreata ad arte per permettere al fruitore di goderne. In entrambi i casi, pertanto, ci troviamo a confrontarci con delle tecniche che, pur nella diversità delle due tipologie narrative, possono essere largamente sovrapposte. Esiste però una terza prospettiva da cui guardare alla dimensione della simultaneità che, riferendosi alle stesse condizioni di possibilità della rappresentazione, squalifica irrimediabilmente la scrittura narrativa e rimane patrimonio del solo linguaggio filmico, quella che io definisco della simultaneità rappresentativa. Ciò che nessuna tecnica narrativa di scrittura può in alcun modo mimare, infatti, è la condizione di presa diretta in cui l’attività rappresentativa del cinema si compie, l’immediatezza con cui la macchina da presa registra — e quindi rappresenta — il reale. Che l’attività rappresentativa del cinema si eserciti su di una realtà continuamente aggiustata e messa in posa non modifica i termini della questione ed è questione che riguarda, semmai, la preventiva attività di selezione del materiale e di opzione sul punto di vista che la stessa scrittura narrativa non può fare a meno di compiere.

Ma la completa simultaneità fra “percezione” e rappresentazione, che è la condizione normale in cui il cinema opera, è una possibilità del tutto inaccessibile alla letteratura che lavora necessariamente attraverso una scomposizione e una “messa in forma” del proprio oggetto. Simultaneità e forma vengono pertanto a essere due istanze contrapposte e incompatibili nella cui contrapposizione si cela l’origine della profonda diversità fra scrittura filmica e scrittura narrativa.
Si dirà che l’osservazione non è certo sconvolgente né del tutto inedita e che il vecchio luogo comune secondo cui “un’immagine vale mille parole” ne rendeva già sufficientemente conto. Non intendo negarlo. Ciò che mi interessa, tuttavia, è sottolineare come un sottile senso di frustrazione o forse di rimpianto — dal momento che senza dubbio si può provare rimpianto anche per qualcosa che non si è mai posseduto nel momento in cui qualcun altro se ne fa bello — discenda alla letteratura proprio da questa immodificabile e originaria condizione, e come alcuni fra i più sensibili rappresentanti del mondo delle lettere, ancora in tempi recenti, abbiano evidenziato in modi differenti una sensibilità accentuata verso questo tema.

Immagine articolo Fucine MuteLa logica suggerisce che le tracce remote di questo rimpianto debbano essere ricercate proprio in uno di quei rari momenti di straordinaria comunione e consonanza di obiettivi fra cinema e letteratura di cui si diceva all’inizio: l’esperienza del nouveau roman. È a partire da questa fase in cui il romanzo novecentesco trova una sua inedita dimensione nel farsi registrazione di uno sguardo, infatti, che la coscienza della distanza fra i due moduli rappresentativi della letteratura e del cinema si fa più acuta. È nel momento in cui la scrittura romanzesca si appiattisce (il che è detto senza implicare alcun giudizio di valore) sulla sua componente visiva che i letterati si trovano implicati in un confronto con le forme moderne della narrazione per immagini e sono costretti a fare i conti con la specificità del loro strumento, con la sua lentezza e la sua vocazione analitica.

Uno dei casi più emblematici e quello dello scrittore francese Claude Simon, legato sicuramente a doppio filo all’esperienza dell’école du regard pur mantenendo sempre una sua autonomia e una sua originalità poetica. Al di là di tutto ciò che si potrebbe dire riguardo l’aspirazione all’immediatezza che la sua arte mostra nella rapidissima giustapposizione di frammenti “visivi” e nella loro abilissima orchestrazione, — ma sarebbe meglio dire “montaggio” — vorrei attirare l’attenzione dei lettori su alcuni segnali che, a mio avviso, possono essere significativi nonostante — e, forse, proprio grazie al fatto che — si esprimono attraverso boutades ironicamente provocatorie che esplodono all’improvviso nel fitto aggrovigliarsi della sua scrittura anarchica:

Per non parlare delle parole come passione o amore anche scritte con la p e la a minuscole e al plurale capaci solo di far ridere i polli. Non sapevo ancora molte cose necessarie non ancora acque morte lingue morte parlare a gesti vorrei unae un paio dicon patta lampo brachetta (…).

Anche da questi piccoli particolari si può riconoscere la predominanza di una certa problematica in una determinata epoca culturale.


IV.

Ma non bisogna credere che l’importanza di tutto ciò sia stata avvertita soltanto dalla ristretta cerchia dei letterati che possiamo ricondurre al nouveau roman o, peggio ancora, dal solo Simon (per di più in forme così ambigue). Soprattutto perché, se pure la parabola dell’école du regard deve considerarsi conclusa nell’esaurimento interno della sua istanza avanguardistica, a partire da essa le esperienze più meditate e consapevoli della letteratura contemporanea cominciano a riconoscere nella visibilità una dimensione propria anche alla scrittura narrativa. Come efficacemente sintetizzava Renato Barilli in un suo intervento l’insistenza sulla visibilità e quella sorta di “monologo esteriore” che i nouveaux romanciers hanno introdotto “hanno fatto scuola, divenendo davvero una realtà diffusa e “normale”, cui un giovane narratore dei nostri giorni deve aderire quasi obbligatoriamente”. Ma, stando così le cose, come ha reagito la letteratura contemporanea a quella condizione di minorità in cui il linguaggio cinematografico, una volta che essa è scesa a confrontarsi sul suo stesso terreno, l’ha posta? Quali soluzioni ha saputo inventare per far fronte a quel suo “complesso della simultaneità” di cui già Simon dimostrava di soffrire sia pur nel modo ironico sopra esemplificato?

La risposta non sembra particolarmente difficile. Questa reazione è passata soprattutto attraverso l’utilizzo via via più largo di un espediente tipico della postmodernità, la citazione; quel particolare tipo di citazione che si realizza attraverso il rimando a una scena o situazione cinematografica ben nota e riconoscibile. Non potendo in alcun modo pervenire a una rappresentazione simultanea della realtà in un epoca in cui tutto sembra premere in tale direzione, infatti, la narrativa contemporanea ha iniziato, sempre più spesso, a rimandare, attraverso l’introduzione di scarsi, facilmente identificabili elementi, la memoria dei lettori a frammenti di situazioni note per averle viste e riviste mille volte attraverso la quotidiana fruizione di storie a mezzo immagine. L’escamotage è semplice ed efficace: stante l’impossibilità di riprodurre con immediatezza una determinata condizione o di indurre uno stato d’animo altrimenti che attraverso una lunga giustapposizione di elementi adatti allo scopo, si aggira l’ostacolo precipitando il lettore in un sentimento ad esso già noto facendogli balenare davanti agli occhi in tutta la sua articolazione una scena con la semplice menzione di due o tre aspetti ad essa legati in certa cinematografia.

Con questa possibilità hanno giocato e si sono divertiti gli scrittori più attenti e riflessivi della nostra epoca traendone effetti di vario tipo: per restare al panorama italiano basterà citare i lavori di Andrea De Carlo che, nel 1981, esordisce proprio con un romanzo ambientato a Hollywood e infarcito di immagini del suo mondo dorato, ma si potrebbero mettere sul medesimo conto, ad esempio, gli incipit di due opere di grande rilievo come Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino e Altri libertini di Tondelli affidati, pur nella ricerca di effetti assolutamente diversi (una accentuata metaletterarietà nel primo caso, la ricostruzione di una determinata atmosfera di provincia nel secondo) a una descrizione assolutamente “filmica” di una stazione ferroviaria. E il caso di maggior interesse fra questi è forse quello di Daniele Del Giudice, autore cui devo moltissimo della mia sensibilizzazione rispetto a questi temi (oltre all’osservazione precedentemente citata sulla “legge di conservazione dell’immaginario”) che dedica in larga parte una sua opera alla consapevolezza di una incompatibilità fra le istanze della simultaneità e della forma per quel che riguarda la rappresentazione e, d’altra parte, utilizza in più casi elementi di provenienza cinematografica nella sua scrittura, sempre con quel valore per lo più ironico che la pratica stessa della citazione e la consapevolezza di sfiorare un confine della possibilita narrativa inducono.

Nel ricorso sempre più massiccio e indiscriminato a questa modalità rischiano invece di rimanere invischiati molti degli autori appartenenti alle ultime leve che, sia pure senza generalizzare, mi appaiono scarsamente dotati di contravveleni critici tali da consentir loro un utilizzo consapevole di questa virtualità. Ad ogni modo, dopo decenni di saccheggio continuato esercitato dall’industria cinematografica ai danni del serbatoio narrativo accumulato dalla letteratura nei secoli, quest’ultima reagisce andando ad attingere ampiamente dai magazzini dell’antagonista. Non certo per trarne — al di là di casi ancora sporadici — idee e materiali, né rivolgendosi ad esso, come pretendono alcuni, per derivarne tecniche e meccanismi che le appartengono da sempre, quanto per accedere a sua volta al patrimonio culturale che, piaccia o non piaccia, è alla base dell’immaginario contemporaneo. Sbaglieremmo, tuttavia, a vedere in questo il segno di una definitiva soggezione dell’arte della scrittura al contemporaneo strapotere della narrazione per immagini. E non è vero che in questa sua necessità di ricorrere a un serbatoio di conoscenze pregresse del lettore del tutto estranee al mondo della letteratura stessa si consumi il dramma di una sua definitiva perdita di identità. Io credo molto più semplicemente che, come mille altre volte nel corso della sua storia, la letteratura, in quanto ambito in cui si esercita un atto comunicativo, si sia trovata nella condizione di cercare un codice culturale che fosse condiviso da scrittori e lettori e che, trovandolo inevitabilmente nei prodotti della “fabbrica dei sogni”, ne abbia approfittato per esorcizzare in qualche modo un fantasma dimorante nelle sue stesse viscere.

Un’ultima osservazione potrebbe aiutarci a riequilibrare ulteriormente i termini del rapporto fra i due contendenti. Se è vero, infatti che la letteratura, come si vede, mostra una recente tendenza ad avvicinarsi al cinema “per cenni”, esiste almeno un senso in cui possiamo trovare le tracce di un processo parallelo e inverso dell’arte cinematografica. I segni cioè di un riavvicinamento che, a sua volta, si compie al livello delle modalità stesse della rappresentazione. Infatti l’immagine di sintesi, l’immagine costruita attraverso procedure informatiche sofisticatissime che sempre più spesso la pellicola affianca alla vera e propria ripresa, di cosa è espressione se non di un complesso, lento, meditato comportamento di messa in forma? Non è forse vero che un numero sempre maggiore delle immagini che la cinematografia ci propone non scaturiscono da una simultanea capacità di riproduzione del reale ma dalla paziente opera di scomposizione e ricomposizione di un oggetto compiuta per il tramite di un sistema di segni ben più formalizzato e convenzionale di qualsiasi linguaggio umano?

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