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Omnia

Rope & Bug

La domanda, a questo punto, sorge spontanea. Ci si chiede: quale giustizia per Marta Russo?

Scattone e Ferrario, quelli che fino al processo d’appello – che ci sarà, lo vogliono sia l’accusa che la difesa – sono a tutti gli effetti i colpevoli responsabili d’una vicenda oscura e tragica, che sui giornali e le televisioni nazionali ha tenuto banco e fatto audience (ancora una volta: non c’è stata un’eccessiva spettacolarizzazione dell’evento giudiziario?) sono stati rimessi in libertà. Da colpevoli, colpevoli d’un omicidio odioso ed apparentemente insensato, quello della studentessa Marta Russo che ha avuto come unica colpa – pagata con la vita – quella di trovarsi quella mattina nel cortile dell’Università, sotto la tristemente famosa Aula 6.
Sono stati rimessi in libertà. Da colpevoli.

Sulla loro colpevolezza continuo però ad avere grossi dubbi, lo dico per onestà intellettuale. L’ho sempre sostenuto, e continuo a farlo, anche adesso che il verdetto c’è stato. Eppure, quello stesso verdetto m’inquieta, e mi costringe a scrivere un pezzo che altrimenti avrei pudore anche solo a pensare. So di non essere il solo, non provo compiacimento alcuno della mia opinione e m’accodo alla fila di quelli che hanno espresso forti dubbi sull’esito della vicenda giudiziaria rispettando comunque il lavoro del giudice.

Non capisco. E non afferrando le logiche della “giustizia” stabilita attraverso la sentenza, rivendico però il diritto sacrosanto alla critica su questo processo.
Non conosco nella loro straordinaria complessità gli infiniti diverticoli dell’indagine che hanno portato la giuria ad esprimersi come sappiamo. Pur tuttavia, conosco gli aspetti più eclatanti della situazione processuale, così come ne hanno dato evidenza le registrazioni, gli articoli, le disquisizioni giuridiche, le scioccanti sintesi del dibattimento, le ricostruzioni giornalistiche, le intercettazioni telefoniche e ambientali, i video di minacce poliziottesche, ecc.ecc. Ricapitolando: si tratterebbe, come molti hanno scritto – in maniera poco opportuna, forse – d’un caso a la Hitchcock, quello di Nodo alla gola (anche noto come Cocktail per un cadavere).
Rope (fune, canapo; capestro)è il titolo originale.

To know the ropes: “saperla lunga”, è proprio il caso di dire.

Non c’è l’arma, non c’è il movente, ci sarebbero i due studenti brillanti e perbenino (uno di loro scrive strane poesie e canzoni di sangue e morte, però questo – l’ammetto – l’ho fatto anch’io come, probabilmente, tutti i lettori di Dylan Dog), freddi e composti come quelli di Hitch anzi, ben di più, perché sempre solidali, sempre impenetrabili, a momenti quasi lontani, asettici, anche di fronte alla condanna; c’è una traiettoria ballerina del proiettile che potrebbe esser stato esploso – più volte è stato detto da periti di parte e non – anche da altri piani, da altre aule, forse dai bagni. C’è un misterioso bibliotecario, tal Liparota, mentitore in parte, poi ravvedutosi. C’è l’Alletto, che giurò sulla testa dei suoi figli il falso (ricordate il video dell’interrogatorio-minaccia, le lacrime, il continuo affermare la propria estraneità ai fatti, i non ricordo…?), per poi raccontare quella verità confusa che inchioderebbe i due giovani.
C’è un professore, Bruno Romano, dall’atteggiamento perlomeno discutibile, per il quale era stato chiesta la condanna a 4 anni. Probabilmente omertoso, Romano è andato assolto. Ci sono le due supertesti di parte opposta, entrambe poco attendibili: la Lipari e la Marcucci. C’è, infine, un p.m. dai metodi poco aggraziati e dal curriculum professionale non rassicurante.

Ci sono, dunque, tutte queste belle cose: la ragazza morta chissà perché, 450 giorni circa di carcerazione preventiva a danno dei due (anti)cristi, e il dolore dei genitori della Russo. Ma c’è soprattutto un intreccio di menzogne, una matassa così intricata di paure, dubbi, ricatti da render plausibile il sospetto che il dibattimento, le indagini avessero ancora bisogno di tempo.

Hitchcock faceva risolvere al professore il puzzle di morte di Rope in 80 minuti di cinema coraggioso, tutto d’un fiato, in un pianosequenza fatto di tanti pianosequenza uniti da raccordi abilmente nascosti. L’inganno stava nel film stesso, dunque. Il docente, interpretato da James Stewart, scopre che i propri protetti, i due lettori pur disattenti di Nietzsche, superomisti ed omosessuali interpretati da John Dall e Farley Granger, hanno ucciso per il solo piacere di farlo. Alla Sapienza sarebbe accaduto qualcosa del genere: i due avrebbero giocato alla finestra con una qualche pistola dalla quale, inavvertitamente, sarebbe partito un colpo.
Omicidio colposo, dice la corte. Colposo perché figlio di un colpo? Me ne intendo poco, ma è davvero possibile definire “colposo” un omicidio che nasce da una situazione così dolosa? Per decorrenza dei termini della carcerazione cautelare, Scattone, lo sparatore, e Ferrario, quello che stupidamente, masochisticamente quasi, avrebbe sino ad oggi sostenuto e spalleggiato il collega (ma che proprio dal “vendere” il collega avrebbe tratto certo giovamento per uscire di galera prima, e in maniera pulita), questi due, dicevo, escono e tornano a casa. Colpevoli, tuttavia, e condannati: l’uno secondo l’art.589 del Cod. di Proc. Penale, l’altro per il 378.

Mi chiedo quale giustizia, dunque. Per Marta, e per i due studiosi ex-carcerati. Certo è che dovrebbe essere in dubio pro reo. Si diceva così una volta.

Cambiando discorso, un film di cui ho un ricordo vago, salvo per le scene di morte dei personaggi, estremamente cruente e memorabili, con i corpi che all’improvviso si trasformano in torce umane, è Bug (Bug, insetto di fuoco). Mi sovviene di questo B-horror, tutto d’un tratto, col suo insettaccio orripilante, mentre leggo, nello scrolling veloce delle informazioni, della “tecnoutopia” del momento (ne faranno addirittura un kolossal cinematografico) e delle previsioni a questa correlate, più o meno catastrofiche: il “Millennium Bug”, anche noto come Y2K (Year 2k, anno 2000). È un problema che ci perseguita dappertutto – su web, sui giornali, addirittura nei programmi televisivi condotti da Cecchi Paone – come fosse l’insetto di fuoco, con la forza che si assegna, per l’appunto, alle paure mitiche, da costruire al cinema e in TV, quelle millenaristiche dello spegnimento del mondo, della rivolta delle macchine di Stephen King, dell’azzeramento totale (dei soldi in banca, dei dati all’anagrafe, ma forse anche dei debiti a nostro carico… ;).

Osservatori, forum, visioni apocalittiche: suggerirei ad enti e istituzioni, ospedali, banche, università ecc. di provvedere (perché è possibile farlo, anche se è difficile per tempi, modalità di realizzazione, e riconversione degli archivi). Vedano di non angosciarci troppo, perché sono decisioni ed iniziative che non possono spettare al cittadino – nemmeno nei termini d’una generica pressione politica che potrebbe esser attuata – ma che competono a tecnocrati, burocrati, politici.

Per intanto noi comuni mortali
abbiam ben altro di cui preoccuparci /
checché Cecchi Paone cerchi di dirci.

Ed allora, Fucine Mute n.5: sesto numero, in realtà (c’è anche lo zero). 337 foto a corredo, che, assieme ai testi producono l’equivalente informativo di tre milioni di caratteri. Complessivamente 15 articoli, a costo zero. Buona lettura.

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