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Cinema

Cinema di poesia

Il rapporto tra Pasolini e i “segni” rappresenta, forse, il sentiero più affascinante da esplorare, nel labirinto del vissuto culturale di questo nostro moderno Minosse sociale. La sua vita passata tra i dedali della cultura e tra le analisi anatomiche del corpo collettivo di una opulenta società colpita da una profonda sindrome modernista, lo ha condannato ad essere assurto, suo malgrado, al rango di giudice infernale. Questa forzata veste è stata il frutto di un senso di colpa collettivo, la reazione ad una identificazione, nella sua persona, di una reificata coscienza morale. Pasolini, che separava con forza la morale dal moralismo affermando che “il moralista dice di no agli altri, l’uomo morale solo a se stesso” [intervista a “La Stampa”12/7/1968], e che faceva di sé un uomo morale contro ogni “moralismo borghese”, ha visto se stesso, il suo corpo, la sua idealità, eletti a simboli di una forza critica giudicante. Una forza giudicante assolutamente insopportabile per una società incoscientemente proiettata all’interno dei facili miti del neocapitalismo consumistico. Di qui la disponibilità, se non una sorta di licenza, di questo corpo collettivo alla soppressione di una voce morale divenuta troppo ingombrante.
È quindi inevitabile che il sentiero dei “segni”, specie cinematografici, sia un percorso importante nel seguire, a ritroso, il filo d’Arianna che dovrà condurci, liberi, dentro e fuori il suo vissuto culturale. […]

ppp-124.jpg (8927 byte)La fitta riflessione teorica che, a metà degli anni sessanta, ha impegnato Pasolini in un ricco confronto con la critica, i teorici della comunicazione e i registi, è stata felicemente stimolata all’interno della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Tale riflessione (oggi raccolta, nei suoi spunti più importanti, nella terza sezione di Empirismo eretico), svolta parallelamente alla produzione filmica, ricorda l’intensa e tendenziosa produzione linguistica antiaccademica del decennio precedente.
Lo sfondo delineato brevemente, nelle sue coordinate essenziali, nei paragrafi precedenti, rappresenta un necessario punto di partenza, per inquadrare efficacemente il nodo centrale della semiologia pasoliniana che, riportando una nota definizione di Eco, potremmo chiamare Metafisica pansemiotica. L’idea topica di tale semiologia, semplificando all’estremo, consiste nel presentare il cinema come spontanea rappresentazione della realtà: “La realtà è un linguaggio. Altro che fare la semiologia del cinema: è la semiologia della realtà che bisogna fare!” [Pasolini, 1972, 139]. […] Per Pasolini il cinema, innanzi tutto, ha rappresentato una parafrasi di un nuovo “senso”, affermatosi nel mondo, in grado d’andare oltre i classici canoni di razionalità.

Parafrasando R. Barthes, Pasolini ha ricordato come il cinema sia un’arte profondamente metonimica. La metonimia è quella figura retorica che esprime una sovrapposizione del senso di alcuni segni che entrano in contiguità; essa permea ogni montaggio ed essendo il cinema fondato sul montaggio, ecco che la definizione di Barthes acquista una validità incontestabile. Andando oltre, egli ha affermato che ogni arte metonimica si specifica per esprimere un “senso” più che dei significati. Ha detto Barthes: “[…] il senso, per così dire, non è racchiuso nel significato.[…] l’arte, in quanto libertà, sembra adoperarsi, oggi, non a fare del senso, ma, al contrario, a sospenderlo”. Ma passando all’analisi della vita concreta e della storia, il “senso” delle cose oltre il loro significato, secondo Pasolini, è dato da “questo rovesciarsi nella quotidianità di valori negativi ed ideali, violenti e non violenti”. Si tratta di una nuova forma di coscienza, che esce clamorosamente fuori dai canoni classici del razionalismo, sia esso borghese, sia esso marxista. Pasolini, cioè, ha inteso affrontare una questione a lui assai cara, che riprenderà spesso nei suoi saggi e nei suoi film: la crisi sociale di un modello razionalista che ha fondato ogni ideologia di potere e d’opposizione ed oggi non in grado di spiegare un’ampia sintomatologia sociale sovvertitrice dei tradizionali assetti. Non a caso Pasolini si occupò ampiamente di quella “volontà sinceramente rivoluzionaria” che, specie negli Stati Uniti, si andava esprimendo in una vera nuova guerra civile. I neri e il Black Power, i neo-nazisti del Ku-Klux-Klan, i Beatniks ed il terzo mondo, esprimevano una nuova ventata a-razionale , assolutamente incompresa dalla borghesia e dal marxismo. Restringendo, per adesso, il campo d’indagine alle sole questioni semiotiche, è inevitabile, a questo punto, iniziare a trattare il cuore del problema: il “cinema di poesia”.

La premessa essenziale è che “lo strumento linguistico su cui si impianta il cinema è […] di tipo irrazionalistico […]”. Contrariamente a quanto avviene nel caso dei linguaggi letterari, che possono fare riferimento ad una base strumentale fortemente istituzionalizzata, il cinema sembra non essere legato a nessuna forma strutturata e strutturante, in grado di fornire un serbatoio comunicativo da cui attingere la sua espressività. Siamo, fin qui, all’interno di un alveo fondamentale, ma da cui presto si distaccherà, tracciato sulla falsariga della tesi Metziana del cinema linguaggio senza codice. È un’astrazione, si è chiesto Pasolini, parlare di un linguaggio cinematografico? Non esiste l’equivalente delle parola o del dizionario con i suoi lemmi, “non c’è nessuna immagine incasellata e pronta per l’uso […] dovremmo immaginare un dizionario infinito”. Eppure se ammettessimo l’ipotesi della non esistenza del linguaggio non dovremmo ammettere anche l’esistenza del cinema e della sua capacità di comunicare, il che si rivela un assurdo.
In realtà il compito dello studio del linguaggio cinematografico spetta alla semiologia, di cui la linguistica non è che una parte importante […]
Ed è proprio alla semiologia che si è appellato Pasolini. Poiché, infatti, il cinema comunica “vuole dire che anch’esso si fonda su un patrimonio di segni comune”. Non esistono solamente segni linguistici, il vivere quotidiano è un pullulare di incroci di segni, appartenenti a sistemi differenti, “infatti una parola (linsegno) pronunciata con una data faccia ha un significato, pronunciata con un’altra faccia ha un altro significato”. Per Pasolini, ogni sistema di segni, ad esempio il sistema di segni mimici, è isolabile e analizzabile autonomamente. Ma, andando oltre, egli ha presupposto l’astratta possibilità di considerare il coacervo di intrecci dei sistemi di segni visivi, come un unico sistema, il quale rappresenterebbe la possibilità su cui si fonda l’esistenza del linguaggio cinematografico, “di essere presupponibile per una serie di archetipi comunicativi naturali”.

Infatti, lo spettatore è, allo stesso tempo, abituato a decodificare la realtà che lo circonda nello stesso identico modo. La mimica, la gestualità, la fisiognomica, la segnaletica, tutte cose “cariche di significato” che ci permettono di decifrare la realtà, nel vivo e sullo schermo. Ma c’è di più, ha asserito Pasolini: l’uomo e la donna vivono immersi in un universo che trova nelle immagini significanti l’unica forma espressiva, come il mondo dei sogni e della memoria. Pasolini definisce tali immagini significanti, gli im-segni. Quindi se l’autore cinematografico non può, come fa lo scrittore, prendere i suoi significanti dal dizionario, egli deve prendere i suoi im-segni dal “caos, dove sono mere possibilità”. In realtà la sua operazione è doppia:

1. deve prendere i suoi im-segni significativi dal caos come se esistesse un dizionario
2. come uno scrittore, deve aggiungere all’im-segno morfologico una qualità espressiva personale

È questo il motivo per cui la “comunicazione strumentale”, che sta alla base del linguaggio cinematografico, è assolutamente rozza. Lo è tanto quanto lo sono la realtà bruta e i sogni e la memoria: “sono fatti quasi pre-umani” e […] sono alla base di uno strumento comunicativo (il cinema) irrazionale: “e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema”.
[…]

Se gli im-segni non hanno forti convenzioni alle spalle, né una grammatica, essi, secondo Pasolini, sono un patrimonio comune. Ogni oggetto, ogni azione, ogni elemento della realtà ci dice qualcosa, “gli oggetti bruti […* sono abbastanza significanti in natura per diventare segni simbolici” e sebbene essi siano privi di una storia grammaticale, hanno una ricca storia pre-grammaticale. Tutto ciò assicura al linguaggio cinematografico una poeticità che è stata soffocata storicamente da una tradizione culturale prosaico-narrativa, ma che grazie al “nuovo cinema” sta inesorabilmente riaffiorando. L’apparente forma naturalistica e oggettiva del cinema racchiude, anzi, una contraddizione. Gli im-segni contengono al loro interno sia archetipi soggettivi (quelli del sogno e della memoria), quindi appartenenti alla sfera della poeticità, sia archetipi oggettivi (mimica ecc.) molto diversi, di natura pragmaticamente funzionale.
D’altronde la stessa selezione degli im-segni avviene sulla base di una doppia natura. Una soggettiva, data dalla scarsa istituzionalizzazione del “dizionario” da cui l’autore attinge, l’altra oggettiva data da una minima forma di istituzionalizzazione di una certa quantità di stilemi, dovuta al carattere di massa dal mezzo. Quindi, ha ricordato Pasolini, esiste una natura doppia delle immagini, simile a quella della parola, che può dare vita sia alla prosa che alla poesia. Solo in casi limite (surrealismo) la poeticità è inequivocabile. Comunque sia, la massima, espressione di questa riscoperta poetica, di questa nuova volontà di sfruttare massimamente la natura profondamente poetica del cinema, è data, per Pasolini dall’uso della “soggettiva libera indiretta” .

Pasolini ha introdotto la soggettiva libera indiretta nel tentativo di dimostrare l’esistenza concreta, empirica, di un indicatore semiotico in grado di rendere verificabile uno stile poetico nel cinema. Essa, in effetti, rappresenta la traslazione cinematografica del discorso libero indiretto letterario. Quindi, per Pasolini, l’esistenza del cinema di poesia è subordinata all’uso cinematografico della tecnica dell’immersione dell’autore all’interno dell’animo del suo personaggio: “l’adozione, da parte dell’autore, non solo della psicologia del suo personaggio, ma anche della sua lingua”. È impossibile non ritrovare, in questa definizione del discorso libero indiretto, lo stile letterario dello stesso Pasolini; basterebbe pensare all’uso dialettale e all’identificazione “spirituale” del narratore con i personaggi, in romanzi come Una vita violenta o Ragazzi di vita. Pasolini ha individuato nel naturalismo il momento fondante di tale stile letterario: citare il I Malavoglia di Verga (Verismo) è fin troppo scontato. Eppure Pasolini ha ritrovato tracce dell’uso di tale tecnica anche nel più lontano passato, ai primordi della lingua italiana, in autori come Dante (il criticatissimo “La volontà di Dante a essere poeta”).
Ciò che ha interessato maggiormente Pasolini, è stata la necessità di distinguere, però, tra un uso proprio ed un uso pretestuale del libero indiretto. L’uso pretestuale si ha quando l’autore, borghese e privo di qualsiasi forma di coscienza di classe, usa la lingua del personaggio come pretesto, appunto, per l’espressione della propria, personale visione del mondo (Weltanschauung). Al contrario, l’uso proprio è legato ad una “adozione” linguistica, ma anche psicologica, che si realizza non solo quando l’autore riporta i discorsi del personaggio in forma diretta, ma anche quando è l’autore a descrivere, a parlare: “il “libero indiretto”[…] è un vero e proprio discorso diretto senza le virgolette e quindi implica l’uso della lingua del personaggio”.

Naturalmente, nel cinema, al discorso diretto corrisponde la soggettiva, mentre, come abbiamo detto, secondo Pasolini, è la soggettiva libera indiretta che sostituisce il libero indiretto. Ma nel cinema la questione si complica, in quanto non è possibile per l’autore adottare una lingua diversa dalla sua, sia gergo o dialetto, appartenente al suo personaggio. Nel cinema esiste un’unica “lingua”, “interdialettale e internazionale: perché gli occhi sono uguali in tutto il mondo”. Come può, cioè, il regista materializzare il suo calarsi nella psicologia e nella lingua dal personaggio? Per quanto sia assodato che soggetti appartenenti a classi sociali differenti, di fatto, vedano cose diverse, rimane il problema di come si possa, in termini istituzionalizzati, esprimere ciò attraverso le immagini. È qui che Pasolini si è richiamato ad una necessità stilistica. La soggettiva libera indiretta è una operazione stilistica e non meramente linguistica, che si concretizza in “un monologo interiore privo dell’elemento concettuale e filosofico astratto esplicito”. Ciò si esplica nella liberazione delle possibilità espressive che sono state storicamente soffocate dalla tradizione prosaica del cinema.
Costa ha definito la soggettiva libera indiretta di Pasolini come la materializzazione di un certo modo di intendere la realtà di un personaggio in tutte le inquadrature, anche quelle chiamate oggettive. Così, se il personaggio è un nevrotico, che distorce nevroticamente la sua realtà, l’autore deve trasferire questa nevrosi nelle immagini, non solo in quelle soggettive, ma in tutte le inquadrature, il montaggio, la luce, la scenografia, la fotografia ecc. L’esempio fatto da Costa, è quello dell’esperienza espressionista, in cui si ha una costante deformazione percettiva e stilistica del pro-filmico [Costa, 1993]. Naturalmente, così come avveniva per il discorso libero indiretto, anche per la cinematografica soggettiva libera indiretta si ha un uso proprio ed uno pretestuale. Dove l’uso pretestuale è quello in cui l’autore, con la soggettiva libera indiretta, in realtà impone al suo personaggio una sua condizione personale, per lo più borghese. Lo stile, cioè , non rispecchia affatto l’animo del personaggio, bensì la condizione esistenziale soggettiva dell’autore, priva di alcuna coscienza “sociologica”. Pasolini ha individuato quest’uso pretestuale in autori come Antonioni, Bertolucci e Godard. […]

Così come la lingua scritta si presenta a noi come convenzione che ha il compito di fissare la lingua orale, il cinema viene visto da Pasolini come il momento scritto della lingua naturale che è l’azione: “L’intera vita, nel complesso delle sue azioni è un cinema naturale, vivente”. Il cinema, allora, è visto come un modo di fissare la lingua dell’”agire nella realtà”. Però, la lingua scritto-parlata assume, nella sua struttura grammaticale, una costituzione “parallela” rispetto alla realtà. Si tratta, secondo Pasolini, di un parallelismo che si esprime su una linearità orizzontale, che specifica la distanza evocativa esistente tra realtà e lingua scritto-parlata. Al contrario, nel caso del cinema, esiste un rapporto “verticale”, una “linea, cioè, che pesca” nella realtà, nei suoi oggetti (i cinemi), che specifica la vicinanza riproduttiva tra il reale e la lingua audio-visiva. Entrambe traducono la realtà, ma una lo fa per evocazione, l’altra per riproduzione.
Nella seconda parte della relazione Pasolini ha cercato di costruire una grammatica filmica che materializzasse le sue posizioni teoriche sulla “cinelingua”.
Egli ha individuato quattro “modi “grammaticali:

1. Modi della riproduzione
2. Modi della sostantivazione
3. Modi della qualificazione
4. Modi della verbalizzazione

Il primo punto rappresenta una sorta di ortografia cinematografica, comprendente le tecniche riproduttive che vanno dalla soluzione dei problemi cromatici e di luce, al funzionamento della cinepresa e della presa diretta ecc.

Il secondo punto affronta delle questioni sostantivali. In primo luogo, la questione della limitazione dei cinèmi, limitazione necessaria a chi si appresta a comunicare audiovisivamente. In realtà, ha detto Pasolini, è sempre impossibile fare una “lista chiusa”, cioè limitata, dei cinèmi che debbono rientrare nell’ambito di una composizione d’inquadratura. Ciò che si può attuare è una tendenziale chiusura della lista dei cinèmi, che si ripercuote sui monemi cinematografici (inquadrature), i quali sottostanno, per ciò, ad una “infinitosemia” che si riduce a tendenziale monosemia. L’esempio fatto da Pasolini, in cui la tendenziale limitazione si esplica nell’”impossibilità” di trovare oggetti esotici nell’ambito di un’inquadratura di un insegnante occidentale, serve da spunto, poi, per svelare come l’universalità del “lessico” cinema, si specifica in una differenziazione etnico-storica. Secondariamente, Pasolini ha affermato come il monema cinematografico corrisponda alla proposizione relativa della lingua scritto-parlata, dato che ogni inquadratura rappresenta qualcosa che è lì o fa o dice ecc. Naturalmente il monema non coincide necessariamente con un’inquadratura, dato che ci si trova spesso davanti a dei piano-sequenza, dove i monemi vengono “accumulati”.

Il terzo punto, dopo avere individuato le definizione tecniche della qualificazione, tenta di differenziare, analogamente alla qualificazione verbale, le forme della qualificazione filmica: attiva, passiva, deponente. Si ha il primo caso quando si realizza, mediante una prevalenza della cinepresa sul soggetto, un’accentuazione dei momenti “lirico-soggettivi” (cinema di poesia). Il secondo caso si verifica nella situazione opposta, mentre il terzo rappresenta una forma intermedia tra i primi due.
Infine, il quarto punto realizza una classificazione analoga, ma riferita alla verbalizzazione. I modi relativi, in realtà, coincidono con il montaggio che si differenzia in:

  a. montaggio denotattivo
  b. montaggio connotativo

Il primo tipo di montaggio è stato fatto coincidere, da Pasolini, con il momento sintattico. Si tratta di un montaggio esclusivamente strumentale alla comunicazione di un discorso, il racconto. Esso, naturalmente, si specifica nelle classiche giunzioni ellittiche di natura oppositiva che danno vita alle “frasi”. Secondo l’esempio pasoliniano, l’accostamento oppositivo dell’immagine di un maestro a quella di alcuni scolari che ascoltano dà vita alla frase: il maestro insegna agli scolari. La durata dell’inquadratura è l’elemento essenziale stabilito da tali “attacchi “.

Il secondo tipo di montaggio, invece, opera a livello espressivo, di contenuto. Esso è stato definito anche montaggio ritmico, per volere evidenziare l’importanza che assume, in tale tipo di montaggio, il ritmo. Infatti con questa forma di montaggio viene definita la durata dell’inquadratura in sé e, soprattutto, in relazione con le altre inquadrature. Per tale motivo, parzialmente, montaggio connotativo e denotativo coincidono. La durata specifica la connotazione nella misura in cui essa, rendendo noto quanto il regista ha inteso soffermarsi su una figura, un dettaglio, un personaggio, carica di espressività variabile quella stessa figura o personaggio. Quanto, invece, al ritmo vero e proprio (durata in relazione alle altre inquadrature), esso è sempre presente e consiste, per Pasolini, in un “ritmema”, che rappresenta l’elemento realmente convenzionale ed arbitrario del cinema. Sono, infatti, solo i ritmi, nel cinema, a non coincidere, se non incidentalmente, con la realtà.
Naturalmente, con coerenza, Pasolini ha applicato questo nuovo schema, con interezza, al proprio discorso teorico sul cinema di poesia, ribadendone la distinzione dal cinema di prosa. Una distinzione adesso carica di verifiche sintattiche e grammaticali.
Pasolini ha spinto fino all’estremo, come era sua abitudine, le conseguenze di una simile impostazione semiologica, che vede nel cinema una lingua che non fa altro che fissare in maniera riproduttiva il linguaggio della realtà. Spingere all’estremo ha significato costruire un parallelo tra una tecnica meramente cinematografica come il montaggio e un elemento esistenziale, fortemente legato al vivere della realtà, come la morte.

Il cinema, ha detto Pasolini, è cosa diversa dal singolo film che noi guardiamo quotidianamente. Il cinema, come entità sostanzialmente astratta, è un infinito piano sequenza. Attraverso l’uso della lingua del cinema, infatti, si resta nell’ambito della realtà senza soluzione di continuità, in continuum che non utilizza le interruzioni di una lingua simbolica, arbitraria. Quest’ultima, abbiamo detto, evoca la realtà e ciò facendo la interrompe. Pensando al cinema, Pasolini, ha pensato ad un immaginario occhio virtuale, in grado di non perdere alcuna delle azioni che riguardano la vita di ognuno, con nessuna interruzione, in ogni dettaglio.
Nella concretezza dei singoli film, invece, ciò non si realizza, specie nei film dello stesso Pasolini, che fa un uso estremamente parsimonioso del piano sequenza. L’uso del montaggio, che spezza la continuità del cinema, è stato giustificato da Pasolini, con la necessità di mantenere una condizione non naturalistica anche nel film. Così come la nozione del cinema come infinito piano-sequenza è assolutamente non naturalistica, l’uso concreto del piano-sequenza, nel film, ha un effetto naturalistico. Diventa quindi necessario smantellare tale naturalismo per riequilibrare le sorti di cinema e film. La continuità viene recuperata a livello “sintetico” grazie al montaggio. […]

Tornando al parallelo tra montaggio e morte, esso si realizza in quanto la morte da alla vita ciò che il montaggio da al film, cioè il senso. Finché un uomo o una donna sono vivi, la loro vita è “un caos di possibilità”, in quanto tutto può ancora succedere loro, modificando il corso e quindi il significato della loro vita. Finché vivi, essi sono solo potenzialità ; la morte dona loro un senso, azzerando il possibile, annullando il divenire. La morte trasforma il presente del vivente in passato. Chiarisce ogni azione alla luce di un finito susseguirsi di altre azioni, compiute nel passato e mai più modificabili, riassunte in vero “fulmineo montaggio” della vita. Lo stesso avviene nel passaggio dal cinema astratto al film concreto, a cui il montaggio da un senso finale trasformando, anche in questo caso, il presente in passato. Un passato che “per ragioni immanenti al mezzo cinematografico, […] ha sempre i modi del presente (é cioè un presente storico)”. È possibile, da questa trattazione sommaria, evincere il carattere della semiotica pasoliniana.
[…]
La semiotica pasoliniana, centrata così fortemente sul reale e la sua “filosofia”, ha avuto una palese ricaduta induttiva nell’estetica, nei contenuti, nei personaggi della sua concreta produzione filmica. Tutta la produzione è stata permeata da uno “spirito realista” ineliminabile, anche se analizzabile da molteplici punti di vista. Anzi, possiamo concordare pienamente con Ferrero, quando asserisce che Pasolini ha saputo opporre al potere repressivo delle classi egemoni la materialità, la realtà corporea delle classi sottomesse, la fisicità del popolo, spesso rappresentandone letteralmente il corpo, la nudità, il sesso [Ferrero, 1977]. Credo sia superfluo, a tal proposito, ricordare le sequenze “scandalose” della “Trilogia della vita”. Nella “Trilogia” Pasolini ha voluto rappresentare la vitalità passionale del popolare attraverso la pura rappresentazione della corporeità sessuale e non, priva di ogni perversità, allegra, carica di una spontanea e naturale “eversività”. Il reale ha sostituito il tentativo borghese del possesso del reale.

Attraverso il sesso, il rutto, il peto, Pasolini ha voluto recuperare l’istintiva naturalezza del linguaggio del corpo, in totale opposizione alla cultura sessuofobica della società dei consumi. Amore omosessuale, eterosessuale o pedofilo è stato rappresentato come valore, bene libero da schemi oppressivi, diversità che è unica e reale resistenza all’omologazione del potere.
Tuttavia, è stata proprio la ricorrente esaltazione ossessiva, morbosa, passionale e temeraria della presenza realistica del popolo a rappresentare il punto di maggiore scontro tra i detrattori ed i sostenitori dell’estetica pasoliniana, sia dal punto di vista artistico e culturale, sia da quello inerente la vita privata dell’autore e delle sue peripezie giudiziarie.
A dire il vero, proprio quest’atteggiamento così profondamente proteso verso un’ebbrezza panica rivolta pressantemente alle figure, agli ambienti, ai modus vivendi, alle psicosomatiche popolari, gli è costato l’accusa più classica che gli sia mai stata rivolta: populismo. Basterà ricordare l’asprezza critica con cui un intellettuale del calibro di Asor Rosa ha accolto il lavoro artistico di Pasolini. Per Asor Rosa, che pure ha generosamente difeso il lavoro di Pasolini dalle vessazioni censorie, la sua produzione cinematografica, teatrale, letteraria non possiede alcuna validità progressista, in quanto le sue opere si pongono al di fuori “del patrimonio ideale del movimento operaio”, e i suoi personaggi sono elaborati all’interno di un contesto sociale che, lungi dal rappresentare il locus privilegiato dalla figura operaio-rivoluzionaria, espressione di una avvenuta presa di coscienza marxista e innovatrice, rappresenta “l’arco di una periferia non operaia, sbandata e incerta (ladri, prostitute, ruffiani, pederasti, pugilatori, disoccupati, sottoccupati ecc.); le forze positive di questo mondo sono quelle elementari dell’esistenza: anzitutto il sesso, poi gli altri appetiti fondamentali […]” [Asor Rosa, 1961].

Ha affermato Asor Rosa che non vale “rappresentare ambienti e personaggi popolari, per inserirsi ipso facto in una prospettiva progressiva e socialista”. Siamo di fronte ad una chiara accusa di populismo generico e reazionario, in quanto privo di una coscienza prospettica realmente inserita all’interno della consapevolezza dei reali meccanismi progressivi della storia. Accuse che, dotate di una grossa e fondante riflessione politico-culturale, chiaramente rimandano ad un certo humus ideologico e che non stupiscono se inquadrate all’interno di un certo modo d’intendere la cultura e la morale da parte di una grossa fetta dell’intellighenzia comunista di quegli anni. Ricordiamo, d’altronde, che qualche anno prima Pasolini era stato espulso dal Pci per “”deviazionismo” intellettuale alimentato da letture di scrittori “borghesi e decadenti””, come Enzo Siciliano, nella sua mirabile biografia, ci ha ricordato. Lo stesso Siciliano ha commentato che in quegli anni (è il 1950) “nel clima feroce della guerra fredda lo schematismo politico e morale era un obbligo” [Siciliano, 1978]. Lo spunto per l’espulsione era nato dall’accusa di corruzione di minori e atti osceni, da cui Pasolini sarà poi assolto. Vogliamo, cioè, ricordare come Pasolini, contrariamente alle odierne lusinghe pluriconvergenti, se a destra fu odiato, a sinistra non ebbe assolutamente vita facile, anche a causa della sua ossessiva e scandalosa voglia di rappresentare la realtà di una fascia sociale marginale, che per definizione sociologica si è posta alla periferia della storia, all’esterno dei processi di lotta per il potere ingaggiata dalle classi centrali: borghesia e proletariato. […]

Non sappiamo ancora con certezza da chi Pasolini fu assassinato, ma sappiamo che la mano di Pelosi eseguiva un input neuronico che proveniva anche da un corpo sociale, quello italiano, che ha rappresentato lo sfondo di odio che ha “determinato” l’omicidio. Ha ragione Dacia Maraini a parlare di un mandato sociale. Forse (mi si perdoni l’azzardo), se Pasolini non fosse stato barbaramente assassinato, oggi, età permettendo, avremmo “subito” le sue dolci invettive proprio dalla Rete Virtuale. In questo senso, il culto di Pasolini su Internet rappresenta la manifestazione più avanzata, più attuale e meno banale di una profonda nostalgia per il suo pensiero, il suo agire, la sua “scandalosa” sovversività.

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