// stai leggendo...

Cinema

Il Friuli non è il Veneto; è Italia

Pasolini era un uomo del nord-est, e il nord-est è stato il luogo della sua educazione alla letteratura e alla politica. Il Friuli non è stato per lui motivo di rivolta o di cancellazione d’altra identità: è stato invece ragione, nel suo specifico, di una definizione dialettica della identità nazionale. Il primo libro pasoliniano Poesie a Casarsa è del 1942. […] Esisteva, esiste, una tradizione lirica in lingua Friulana. Non esisteva la cristallizzazione poetica della lingua che si parla “di cà da l’aga”, di qua dal Tagliamento, sul versante di Pordenone. A quella lingua, con i propri versi, Pasolini volle dare dignità letteraria. Ciò significava per lui promuovere un gergo all’altezza della storia. Fu un atto di presunzione? Può darsi, ma Pasolini ebbe ragione ad essere presuntuoso. Poesie a Casarsa segna una svolta nella poesia italiana del ‘900: se il lessico e la sintassi sono quelli dei parlanti casarsesi, quella loro lingua risulta qui imbevuta della tradizione del decadentismo europeo e confrontata ai risultati più alti del novecentismo italiano.

Dedica

Fontana di aga dal me paìs.
A no è aga pì fre-scia che tal me paìs.
Fontana di rustic amòur.

(Dedica — Fontana d’acqua del mio paese. / Non c’è acqua più fresca che nel mio paese. / Fontana di rustico amore. Da “Poesie a Casarsa” 1941-43, in “Bestemmia”, vol. I. Garzanti, Milano 1993)

Pasolini era poco più che un ragazzo, ma aveva idee chiarissime. Più avanti negli anni precisò: “Bisognava portare il Friuli a un livello di coscienza che lo rendesse rappresentabile, esserne sufficientemente staccati; — marginali, non essere troppo friulani, e adoperare con libertà e con un senso di verginità la sua lingua, non esserne troppo parlanti”. Bisognava, cioè, liberare la poesia cosiddetta dialettale dalla propria connaturata vocazione di “regresso”. Il poeta non doveva risolvere la propria ispirazione nel cerchio chiuso del dilettantismo psicologico, ma rompere quel cerchio, sentirsi provocato da ragioni più complesse sia interne sia esterne allo stesso dialetto.
Quest’uomo del nord-est antico e contadino intese portare la propria lingua, il proprio paesaggio morale, a confronto con “Shakespeare, Tommaseo, Carducci” (sono nomi da lui stesso ricordati nella Religione del mio tempo), perché “la storia, la Chiesa, la vicissitudine / d’una famiglia” non fossero soltanto “un po’ di sole profumato e nudo”.
Tutto questo potrà apparire semplice, anche trascurabile questione letteraria. Non è così. Dare a una lingua fino a quel punto soltanto orale la dignità di una lingua scritta, fissare in parole scritte valori ed emozioni, è un atto non solo d’arte ma anche politico, secondo un significato che non limita la politica alla gestione del contingente ma le offre l’analisi dell’essere e del fare. L’esercizio politico di questo scrittore ebbe il proprio battesimo, perciò, con un opuscolo di versi. Intorno a quei versi si raccolsero in una piccola “accademia” di ricerca un gruppo di innamorati della propria lingua, che di essa progettarono di fare storia. […]

Si precisò in lui l’idea delle “piccole patrie”, che lo sorresse non solo nel definire l’interiore forza dinamica del suo Friuli, ma quella propria di ogni peculiarità antropologica. È l’agosto del 1945 e scrive: “Insieme al nostro disinteressatissimo e deciso amore per l’Italia, dichiariamo subito apertamente la nostra tendenza ad una parziale, piuttosto ideale, autonomia della Piccola Patria… Lavoriamo anche noi, con la nostra piccola lingua, per una piccola eternità”. Non era estraneo a Pasolini il sogno di Cattaneo per il quale nei “fiochi dialetti” dovessero ravvivarsi “lingue assolute e indipendenti”. Le isole linguistiche non sono un semplice “dato fisiologico”, ma “forme interiori dello spirito” collocate nel tempo e nello spazio, in cui ritrovare significati universalmente utili. […]
La furente percezione antropologica pasoliniana, quella che i lettori dei quotidiani nazionali conosceranno negli anni Settanta [Scritti corsari ], è già compiutamente disegnata in queste parole. Ma v’era in essa anche la coscienza che la parcellizzazione linguistica o, appunto, antropologica non istruisce ulteriori e irreversibili differenziazioni. L’autonomismo delle piccole patrie diventa fattore di progresso civile per Pasolini, non un incentivo al campanilismo, ai vernacolarismi sentimentali e regressivi.
Dunque il Friuli non è Veneto, ma “è Italia, questo sì: ma c’è da arrossire soltanto a enunciarlo, quasi nel timore che possa esistere e venire formulata la proposizione contraria”. In quegli anni il nord-est, particolarmente friulano, per via della pressione slava sui confini, proponeva in modo dirompente il proprio autonomismo. I partiti politici ne discutevano con accanimento, e le posizioni erano ben nette.

L’autonomismo proposto dalla Democrazia cristiana, sollecitava le intemperanze campanilistiche come argine al filoslavismo serpeggiante. La politica di Togliatti e dei comunisti era irriducibilmente “per l’unità”. Pasolini, “da sinistra”, e comunista, polemizzò con i comunisti: sosteneva che ci fossero “basi piuttosto solide per l’autonomia”: ma essa andava spiegata non in una logica antiunitaria, ma come un modo di “trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza”. Di qui il suo attivismo: cineclub, scuola, dibattiti politici e filologici sulle letterature romanze, la italiana e la dialettale; la cultura fu per lui conoscenza e organizzazione.
Sempre sulla Libertà di Udine aveva scritto: “Non c’è di meglio che opporre alla subdola dilagazione slava una Regione Friulana cosciente di sé, elettrizzata dalla dignità conferitagli a diritto per la sua lingua, le sue usanze, la sua economia nettamente differenziate”.
Se il professor Pasolini, per i suoi studenti, scaldava con esempi ricavati dalla vita quotidiana, “l’intirizzita grammatichetta latina”, e li sollecitava a tradurre la propria esperienza in versi “casarsesi”, lo scopo non era elusivo o esornativo: desiderava che quei ragazzi fossero consapevoli di appartenere al loro nord-est, partecipi di una comunità più vasta dove lingua e costumi si facevano per contrasto più veri e autentici, antichi nelle radici, nuovi per la storia cui si confrontavano. E proprio per questo erano italiani: la loro terra era Italia.
Qualche anno dopo, il 1954, avrebbe detto in versi: “Questa è l’Italia, e / non è questa l’Italia: insieme / la preistoria e la storia che / in essa sono convivano, se / la luce è frutto di un buio seme”.

Da “la Repubblica” del 29 maggio 1997

Pier Paolo Pasolini, in Friuli negli anni Quaranta, fece politica attiva. Tra i suoi primi impegni vi fu l’adesione all’associazione “Patrie tal Friuli“, che aveva un programma politico autonomista. A quell’epoca vi erano per il Friuli mire di annessione jugoslave.
Vi fu, tra l’altro, un dibattito nel quale si discusse la possibilità di far nominare provincia friulana la città di Pordenone, iniziativa alla quale Pasolini era contrario. Il poeta così intervenne sul giornale di Udine “Libertà” del 6 novembre 1946: “Pordenone è un’isola linguistica quasi nel cuore del Friuli, e questo non è un mero caso, un trascurabile caso: è semplicemente il risultato di una storia diversa, e quindi di una civiltà (nel senso di mentalità) diversa. Basta salire in treno (quello ad esempio che passa per Casarsa alle sette del mattino) e confrontare gli studenti e gli impiegati pordenonesi con quelli casarsesi e soprattutto con quelli di Codroipo e di Basiliano”.
Scrive ancora Pasolini: “Sentiamo, irrazionalmente noi […] sentiamo che il Friuli non è il Veneto; è Italia, questo sì; ma c’è da arrossire soltanto a enunciarlo, quasi nel timore che possa esistere e venire formulata la proposizione contraria”.
Ed ecco come approfondisce questo argomento Enzo Siciliano – autore tra l’altro di una Vita di Pasolini ripubblicata nel 1995, dopo sedici dalla prima edizione, da Giunti – nell’articolo della “Repubblica” di cui qui di seguito si riporta un ampio stralcio. Con un sottinteso accenno alle polemiche che vengono agitate in questo travagliato periodo nel nostro Paese, Siciliano mette in evidenza, già dal sottotitolo dell’articolo, il pensiero pasoliniano rispetto all’autonomismo: “Il poeta friulano scrisse in dialetto e aveva un’idea dell’autonomismo come fattore di progresso. Ma il sogno di una ‘piccola patria’ non era né campanilista né separatista”.

Commenti

Non ci sono ancora commenti

Lascia un commento