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Cinema

Perché non eravamo sempre d’accordo

Quando ho sentito la notizia alla radio ho avuto un primo moto di rimorso: mesi fa, a proposito del suo articolo sull’aborto, lo avevo attaccato con cosciente cattiveria, e lui se ne era molto risentito, contrattaccando (una sola battuta nel corso di un’intervista) con altrettanta cattiveria. E al saperlo morto ammazzato, così bruttamente, ho avuto un sentimento di colpa, come se quei segni sul suo corpo fossero le tracce di un lungo linciaggio, a cui anch’io avevo preso parte. Poi mi sono reso conto che non era quello il punto. Lottatore per vocazione, per rabbia e per baldanza, Pasolini l’attacco lo cercava, lo stimolava quando la reattività pubblica si assopiva, si sentiva vivo solo quando poteva dire: “Perché mi sparate addosso?”.
Lui sosteneva: la società mi lincia perché sono diverso, e certo il primo moto di ribellione gli era venuto dal sentirsi respinto ai margini per quella sua diversità sessuale che esponeva a tutti i venti con esasperata sincerità. Ma questa stessa sincerità lo aveva, per così dire, autorizzato a gestire pubblicamente la sua diversità.

Certo, la società non perdona mai del tutto ai diversi, se non li punisce li ricatta con l’ironia, ma lui avrebbe almeno potuto sentirsi in fase di armistizio. E invece dall’esperienza originaria della diversità sessuale, gli era venuto l’altro impulso (forse più sublimato, o più socializzato, non so) a crearsi una situazione di diversità ad oltranza. Con un fiuto rabbioso per le posizioni impopolari. Una vocazione alla emarginazione, dunque, a dispetto del successo, anzi usando il successo come frombola per lanciare altre provocazioni che obbligassero gli altri a sparargli addosso. Un gioco pericoloso, sul filo della corda, dove le idee che metteva in questione contavano sino a un certo punto, talora erano tipiche scelte teatrali: il gioco del Bastian contrario. Si diceva una volta, per scherzo, che un giorno avrebbe affermato che i poveri sono cattivi per avere la soddisfazione di vedersi svillaneggiato da tutti: bene, lo ha fatto.
Era qualcosa di più di una vocazione masochistica, qualcosa di più ambizioso e di più tragico: una mimesi mistica del Crocifisso, naturalmente a testa in giù, nella scia di quegli gnostici che asserivano che il Figlio per arrivare alla purificazione, avesse dovuto commettere tutti i peccati possibili. Se questo è vero, egli era l’ultima personificazione di un superomismo romantico, il poeta che vive di persona il proprio ideale estetico; salvo che l’esteta della decadenza incarnava sogni di gloria fastosa ed egli invece sogni di spaesamento e persecuzione; quindi se modello c’era, era Rimbaud e non D’Annunzio: anche nel successo egli aveva scelto di testimoniare l’emarginazione.

Immagine articolo Fucine MuteLa conoscenza primitiva della emarginazione sua e altrui lo aveva segnato per la vita, così che non poteva più rifiutarsi a questo gioco, anche se la società era disposta a integrarlo. Anche in questo è stato contraddittoriamente coerente, astuto come il serpente e candido come la colomba. Ciò che lo limita è semmai il fatto che avesse deciso di emarginarsi come testimone dei propri umori e non come portavoce di una coscienza collettiva. Di qui l’esito oggettivamente regressivo di certi suoi appelli eversivi: il confondere la società futura con una società “naturale”, adolescente e incontaminata solo nei suoi ricordi privati. Che è poi il rischio del poeta quando presenta la memoria come utopia. Di qui le sue lucciole pauperistiche, i paradossi di un paternalismo preindustriale tutto sommato più “naturale” del consumismo tecnologico. Ma è che la violenza positiva del suo messaggio non stava nei contenuti, bensì negli effetti di cattiva coscienza che riusciva a produrre. Erano un pretesto per essere rintuzzato e testimoniare così che l’emarginazione esisteva ancora. Segno di contraddizione, il suo genio consisteva nell’impostare il gioco in modo che a contestarlo ci si cadeva dentro. Anche ora, dopo la sua morte. All’obiezione: “Sei morto come uno dei tuoi personaggi, non sei contento?”, egli risponderebbe: “Sono morto, siete contenti?”. E a dirgli: “Hai cercato di mostrarci che il mondo della borgata selvaggia del dopoguerra era più puro e mite di quello della borgata consumistica, e sei morto in un episodio da borgata all’antica”, egli obietterebbe: “Parlavo della violenza di oggi e sono morto oggi, mi ha ucciso la vostra violenza che mi ha spinto a una ricerca impossibile”.

Allora, per uscire dal suo gioco, non resta che vedere se si può utilizzare la sua morte come lezione che non riguardi lui solo. Ci provo. Egli ci ha ripetuto che c’erano dei diversi respinti ai margini, e che non avremmo mai capito appieno la loro sofferenza. La sua morte ci ricorda che, per quanto rispettato dalla società, un diverso deve pur sempre tentare la sua ricerca in luoghi oscuri, dove c’è violenza, rabbia e paura (la stessa del ragazzetto che fugge come un pazzo sulla macchina della sua vittima). E se i diversi che hanno il coraggio di definirsi tali devono ancora rifugiarsi ai margini, come i diversi che hanno paura, questo significa che la società non ha ancora imparato ad accettare né gli uni né gli altri, anche se fa finta di sì. Certo Pasolini avrebbe potuto permettersi di vivere la sua diversità altrove che non alla macchia. Può darsi abbia voluto continuare a farlo per orgoglio. Ora ci impone un esame di coscienza fatto con umiltà.

Da “l’Espresso” 9 novembre 1975: la storia e la personalità di Pier Paolo Pasolini raccontata da Valerio Riva, Cristina Mariotti, Alberto Moravia, Umberto Eco, Giovanni Testori, e dal poeta stesso.

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