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Cinema

Corpi / non corpi

Le nuove tecnologie e il cinema

Sono stato invitato a dire qualcosa di cui non so molto: dell’aspetto tecnico, dell’aspetto scientifico, certamente tecnologico, dell’odierna ricerca nell’ambito degli audiovisivi, che è qualcosa che, ovviamente, mi affascina e m’interessa ma che da un punto di vista propriamente scientifico e tecnico non conosco affatto. Credo però che, indipendentemente dalle mie capacità, le conseguenze teoriche della situazione decisamente nuova nella quale da alcuni anni ci ritroviamo — e che ovviamente è in perpetua evoluzione, direi giorno dopo giorno, ora dopo ora, ormai- costituiscano un argomento oggettivamente d’interesse comune. Tralascio naturalmente quello che le nuove tecnologie promettono dal punto di vista della riproduzione in senso stretto, dal punto di vista, cioè, della resa dell’immagine, perché il problema appartiene ad un ambito che non ha molto a che fare, almeno originariamente, con l’estetica, dal momento che questa componente, o eventuale componente, ha già trovato spazio nella costruzione dell’opera filmica vera e propria, indipendentemente dalla qualità della sua visione.

Per quello che, invece, riguarda la concezione dell’immagine e, più in generale, tutto quello che costituisce il racconto filmato — e uso il termine “racconto” in senso molto lato (non deve essere necessariamente il racconto all’americana, può essere anche qualcosa di meno tradizionale) — è bene ricordare che a differenza di altri momenti innovativi del passato, con l’avvento del suono, o del colore — con le nuove tecniche digitali ed elettroniche in genere, non ci troviamo di fronte ad una modificazione del cinema che rappresenti un miglioramento dell’esistente nella direzione di una sempre maggiore verosimiglianza. Questo era stato, per l’appunto, il caso del passato, quando il colore aveva consentito certamente maggiore verosimiglianza al rappresentato, e così era stato anche per il suono. Qui ci troviamo, invece, di fronte a un modo radicalmente diverso di creare quello che già siamo in grado di creare; più specificatamente, d’evitare la ripresa d’una messa in scena, cioè d’una costruzione scenografica, creando dal nulla quella stessa messa in scena. Insomma, qualcosa che infine sia vicino al cartone animato, naturalmente non per la tecnica, ma per sostanza.

Mi sembra che, come spesso accade nella storia delle scienze, anche queste invenzioni obbediscano ad un mutamento di carattere culturale, ad un pensiero del mondo che sia diverso da quello che avevamo coltivato in precedenza; e che, per dirla brevemente, ciò che inventiamo, che stiamo inventando, è solo perché in linea con quello che pensiamo. In effetti, da un certo tempo a questa parte, si parla molto spesso di corpo. Se ne è parlato in passato, nel teatro, ma se ne parla sempre di più anche nel cinema. Non con il disprezzo che per il corpo coltivava l’etica cristiana, non con l’interesse scientifico che in questo aveva Cartesio, (ma forse bisognerebbe citare Leonardo) e più avanti il pensiero occidentale tutto, quello per il corpo-macchina. No, questa volta il corpo diventa, per cosi dire, una sorta di “soggetto in assenza”, comunque passivo, citato per poterlo manipolare, per poterlo modificare, magari addirittura per poterlo trascurare, e questo si può facilmente verificare in P. Dick, nelle pratiche del tatuaggio e del body percing, nei “Borg” di Star Trek, nei “Terminator”, negli snuff movies o nei guinea pig. Il rapporto è più stretto di quanto ci si aspetti, ed è un cammino, questo, che si muove sul terreno d’un’idea radicalmente diversa di corpo, diversa soprattutto da quella che per secoli è stata l’idea cristiana di corpo come tempio dell’anima, o diversa da quella settecentescamente laica di corpo come sede della ragione. Lo scarto, lo iato, il gap tra mente e corpo, forse, non è mai stato così grande, così enorme come di questi tempi. Il nostro pensiero, sembra non abbia più nulla a che fare con quello che in qualche modo, nell’immagine concreta, sostanziale, è corrispettivo tangibile, appunto, dell corpo. Nella vecchia etica che richiedeva una superficie, che richiedeva un’apparenza tale da far pensare a un’interiorità — che fosse questa pulita, ordinata — fa da riscontro una esteriorità caotica, ribelle, che non è necessariamente immagine del nostro pensiero, del nostro credo, d’una qualche nostra ideologia, ma che intende differenziarsi e proporsi di per sé e per costituirsi come autonoma, con un definitivo sganciamento fra corpo e, diciamo, non corpo. Naturalmente, la prova migliore della sua autonomia non può essere altro che in quell’apparenza radicalmente diversa che ha da quella del passato. Quest’autonomia è, o crede d’essere, talmente sviluppata da intendere il corpo come un terreno di esplorazione, come un terreno di esperimento.

Tutta la ricca tradizione robotica — ma forse sarebbe meglio dire dei “cyborg” — della recente fantascienza cinematografica mi sembra ne dia ampia testimonianza, a partire da Robocop, Terminator, appunto, all’ibridazione rappresentata dai replicanti di Blade Runner. Queste sono tutte figure che esemplificano l’innaturale innesto fra organico e inorganico. Ma la cosa non si limita a quest’ambito, l’ambito fantascientifico. Non c’è alcun dubbio che una delle figure più rappresentative dell’immaginario cosiddetto post- moderno sia quella della metamorfosi, vale a dire un altro modo di concepire ed esaltare il corpo come differenza, come altro, diverso da un sistema che un tempo invece era immutabile. E anche qui sono molti, moltissimi i film, che in varia misura se ne sono occupati, da La Cosa di Carpenter, a La mosca di Cronenberg, per fare qualche titolo. Film, tutti questi che spesso e volentieri si sono serviti del “morphing”. Quello che è importante sottolineare è che questa diversa idea del corpo si è portata dietro una serie di mutamenti anche in relazione a ciò che con il corpo si pone in diretto rapporto: prima di tutto, lo spazio. Da un punto di vista teorico, la nozione di virtualità è la conseguenza, molto di moda da qualche tempo, d’una diversa idea di corpo nutrita dalla nostra cultura. Affamata di uno spazio entro il quale muovere un corpo diverso, questa cultura, ha in realtà fatto quello che di norma fa la fantascienza. Ha adottato, indicandolo come novità, un modello già sperimentato, già noto: il modello spaziale tridimensionale, a cui eravamo abituati (pensate a quegli spazi rettilinei, quasi dei corridoi, percorsi a velocità folle dal protagonista in motocicletta virtuale di Tron, e domandiamoci se sono poi tanto diverse, quelle strade labirintiche, dalle strade di S. Francisco, nell’inseguimento tra automobili di un film come Bullit). La dimensionalità è identica.

Come sempre accade, quello che non conosciamo del tutto, che non riusciamo ad immaginare appieno, è frutto delle strutture di riferimento di cui normalmente ci serviamo. Come racconta una nota barzelletta, ma anche un film come il recente Al di là dei sogni, persino il mondo dei morti è costruito a somiglianza di noi stessi e dei nostri gusti. Ecco perché a tutt’oggi gli esiti figurali delle nuove tecniche non possono certamente competere con la qualità di riproduzione della pellicola, che rimane ancora il mezzo più verosimile che il cinema ci offre. Per questo non posso personalmente concordare con tanta giovane critica, entusiasta delle nuove tecnologie e alfiere di queste in maniera assai indiscriminata. Per fare un esempio, un giovane critico d’una nuova e interessantissima rivista italiana, parlando di nuove tecnologie, scrive (cito): “La possibilità di dare vita a immagini, tratte direttamente dalla nostra immaginazione, innesca, in chi si avvicina al mezzo cinema come creatore, un forte cambio di prospettiva”. E poi: “Non racconto ciò che ho voluto creare fuori di me, ma direttamente le cose come le ho pensate”. Oppure: “A cento anni dalla rivoluzione freudiana il cinema acquista il diritto all’inconscio”. Ora, a prescindere dal fatto che raccontare le cose direttamente come le si sono pensate non vuol dire affatto raccontare il proprio inconscio, non direttamente almeno, mi sembra che questa affermazione riveli una confusione fondamentale tra medium e messaggio, perché le immagini dovute alla computer graphics non sono affatto le cose come io le ho pensate, ma soltanto la loro traduzione in termini tecnologici aggiornati. Tuttavia, nel cinema odierno, ci sono dei morphos, diciamo così, di alto livello tecnologico, di straordinaria, eccezionale, resa fantastica. è proprio qui il punto: fino a quando le nuove tecnologie ci proporranno esiti di carattere fantastico, risolvendo in questo modo problemi che in passato erano stati affrontati con armi molto meno sofisticate, queste stesse tecnologie non potranno che essere all’avanguardia nell’utilizzo che ne fa il cinema. Quando queste stesse tecnologie verranno utilizzate per riprodurre qualcosa — ad esempio, la figura umana, come si vocifera ultimamente — che la pellicola sa rendere infinitamente meglio, allora queste stesse tecnologie ne usciranno perdenti. In tal senso fanno pensare ad un’applicazione assai infantile, a qualcosa che non può non essere destinato ad un pubblico del tutto disinteressato alla verosimiglianza. Quando in” Star Trek: l’ira di Khan”, assistiamo alla rinascita del pianeta Genesis, le immagini di metamorfosi sono così potenti e in certa misura così credibili, che la computer graphics, in quel caso quella della Industrial Light&Magic di Lucas, si laurea come tecnica efficace nel rendere quello che diversamente non potremmo vedere, almeno con questa stessa straordinaria impressione d’effetti.

Ma quando incontriamo il mondo molto simpatico, certamente, ma freddo e artificiale di Toy Story, non possiamo non domandarci perché mai l’industria dovrebbe spendere miliardi per realizzare qualcosa che in passato ha avuto per meno, che di meno è costata, e che comunque può venire anche da altre tecniche con risultati forse più fluidi e gradevoli (anche se devo dire che c’è già chi assicura che la computer graphics comporta l’abbattimento dei costi, e lì bisognerebbe mettersi d’accordo, perché le mie fonti dicono, invece, che un film come Toy Story costa un sacco di soldi, rispetto a un cartone animato più o meno normale). D’altra parte non ha certamente torto una voce insospettabile, come quella del curatore degli effetti speciali di film come Casper e Jumanji, proprio per Industrial Light & Magic, quando si chiede: “Ricreare un attore, un protagonista umano, che non abbia niente di speciale, che giustifichi il True Case? Sarebbe davvero operazione priva di senso! Se una star è pagata così tanto, è perché il pubblico la ama, ed è poi questo che fa il successo del film, il che non potrà mai cambiare. La gente vuole poter vedere e toccare la star! Un attore virtuale, non sarebbe certo ugualmente eccitante”, il che mi pare francamente inoppugnabile.

Fin qui siamo rimasti ancora nell’ambito d’una concezione tradizionale della nozione. Dell’idea generale di cinema, comunque, parlavo con autorità come Spielberg, pronosticando un futuro prossimo in cui tutti potranno vedere il loro proprio film nel loro proprio cervello, direttamente, nel grado ultimo della dissociazione tra fruizione del prodotto e ritualità collettiva (dissoluzione che già oggi è in uno stadio alquanto avanzato). Mi pare allora che ci si pari dinnanzi una diversa concezione di cinema, ancora più diversa se ad essa applichiamo quella che sembra una componente inevitabile dei nuovi modi e delle nuove modalità di racconto, non soltanto per l’instaurazione d’un rapporto attivamente, creativamente biunivoco fra fruitore e testo, come in quello che si definisce ipertesto. Forse questo non avverrà tanto facilmente nelle grandi sale cinematografiche del futuro, ma giungerà certamente sui videoterminali di casa nostra e anche questo, in fondo, è e sarà cinema. Ed è un fenomeno, comunque lo si giudichi, di grande interesse: da un lato, infatti, quest’interattività obbedisce a modi di procedimento squisitamente popolari, direi di tradizione popolare, così come accade nelle sagre, nelle piazze da tanti secoli, con la raccolta della sfida lanciata dal cantastorie al pubblico… Qui, invece, non siamo o non saremo, se la cosa riguarda il futuro, su una piazza popolare. Saremo nel nostro intimo, e quello che eventualmente faremo non sarà più per quel momento nel quale una voce particolare si fa rappresentante d’una voce generale, del gruppo, del popolo ma, al contrario, per quello in cui rappresenterà soltanto se stessa di fronte a noi stessi, cosicché passeremo dal momento culturale del gruppo al gioco individuale consumato nel silenzio e nel segreto della nostra privacy. Intendiamoci, non c’è niente di male a risolvere i rebus, le parole crociate, ecc., ma di certo quest’attività non si configura come rappresentativa di un modo di sentire che sia corale, d’un gruppo, sociale, e certamente non si esplica in termini collettivi e di nucleo. La sua funzione e la rappresentatività del suo valore culturale sono certamente di valore inferiore. A quel punto dovremo chiederci dove sarà finito l’incanto dell’ascolto dell’aedo, del bardo, del cantastorie, del poeta popolare che ci ha intrattenuto per secoli, per millenni, anzi, nutrendo la nostra fame di vita con un immaginario che giustamente è rimasto nel tesoro culturale dell’intero pianeta e che è patrimonio comune, a Est come a Ovest.

A quel punto ognuno, individualmente, sarà il piccolo Omero di se stesso, o per dirla con il Thomas Gray di “Elegy written in a country churchyard” sarà il muto inglorioso di cui il povero cimitero di campagna (appunto: il nostro salottino televisivo) sarà il triste teatro vuoto, dove l’interattività a cui sarà chiamato non farà altro che aggiungere al testo, al racconto, qualche cosa che egli sa già, mettendo in circuito componenti che a quello stesso circuito già appartengono, laddove la vera, grande gloria della narrativa e della sua tradizione è, invece, esattamente nel contrario di ciò, e cioè, nell’immettere novità, storie e personaggi inusitati nelle nostre conoscenze, nei nostri modelli. Novità che possono essere di contenuto (storie, personaggi inusitati, inauditi) o di forma (linguaggio o modi del raccontare mai inventati sino allora e utilizzati solo da quel momento). Sarebbe questo, dunque, il futuro che ci apre la nuova tecnologia? Non voglio fare la voce apocalittica nel deserto di chi non starà a sentire, ma dico solo: stiamo attenti! Stiamo attenti all’uso, all’utilizzo dei nuovi mezzi. Stiamo attenti a distinguere i modi di applicazione e quello che possiamo fare noi in relazione alle nuove tecnologie, prima ancora o contestualmente a quello che loro possono fare per noi.

Quanto al linguaggio c’è certamente un ulteriore aspetto della questione sul quale forse non ci si sofferma mai abbastanza, non lo fa la critica né il pubblico, che di norma, appunto, celebrano ogni pixel ed ogni byte conquistato in più da una tecnologia che non segna mai il passo, e che avanza giorno dopo giorno, ora dopo ora verso un sogno che a mio parere è sostanzialmente frankensteiniano: la creazione della vita o quanto meno della sua illusione, dell’illusione della creazione della vita secondo la tecnologia odierna. Noi celebriamo, osanniamo la sempre più potente capacità di riprodurre le sembianze della vita, non più attraverso la sua messa in scena, come dicevo prima, ma percorrendo la supposta scorciatoia della sua immagine elettronica. Il che, a me personalmente, non sembra debba essere il vero obiettivo del nostro futuro tecnologico. Non mi sembra molto importante, voglio dire, che attraverso tecnologie molto sofisticate si possa o meno ricreare l’impressione di realtà che, dopotutto, conoscevamo sin dai tempi del famoso treno dei Lumière. Credo piuttosto che se non riusciremo ad organizzare l’ammasso di conoscenze visive garantite dalle nuove tecnologie e dal nuovo linguaggio, saremo condannati a balbettare come dei bambini pieni di fantasia ai quali però manca lo strumento primario per comunicare la propria immaginazione, il proprio talento. Ci sono voluti, più o meno, una ventina d’anni a partire dalla sua nascita perché il cinema prendesse coscienza del fatto di potersi organizzare come un vero e proprio linguaggio (dai Lumière a Griffith per intenderci).

La rivoluzione che di questi tempi le nuove tecnologie promettono o minacciano (come preferite) è prima di tutto quella d’una tecnica che trascura la propria fondazione in linguaggio e che dunque sembra voler soppiantare il cinema “tradizionale”, senza esibire un’adeguata e comparabile autocoscienza linguistica e sintattica. Poco importa che le nuove tecniche possano aggiungere e dare corpo a quello che il cinema già sapeva fare prima del loro avvento. Al massimo, dato e non concesso che tali tecnologie comportino un risparmio di denaro, potranno risvegliare l’interesse della produzione, che ovviamente sarà un interesse squisitamente economico. Nel migliore dei casi, comunque, il potenziale estetico rimane lo stesso del cinema “tradizionale”. Come già mi era capitato di sostenere parecchio tempo fa, circa 15 anni fa, la riproducibilità in sé non esiste se non come riproducibilità attraverso un linguaggio: in tal senso le nuove tecnologie sono solo parzialmente innovative perché forniscono una riproduzione sempre più plausibile ma più raramente un ampliamento al vecchio linguaggio, o il presupposto per fondarne uno nuovo. In linea storico-teorica, tuttavia una tecnologia che fornisca queste possibilità può trovare esito in tre direzioni:

1. quella di chi impiega quelle risorse tecnologiche per perpetuare lo status quo;

2. quella di chi, a priori, considera la tecnologia e i suoi prodotti un linguaggio già di per sé a priori;

3. quella di chi cerca d’impiegare il prodotto tecnologico avvicinandosi ad esso con l’intenzione di trovare una sua fondazione come linguaggio, non dando affatto per scontato che la tecnologia sia già un linguaggio ma cercandone i presupposti all’interno di essa, o con essa.

Nel primo caso, per esempio, rientra la gran parte della produzione in computer graphics per il cinema commerciale, che si avvale delle risorse tecnologiche per perpetuare esperienze, come dicevo, sostanzialmente non diverse da quelle già proposte in passato con mezzi meno sofisticati; nel secondo caso rientrano tutti coloro che nel prodotto tecnologico vedono un formidabile marchingegno di sperimentazione estetica, aprioristicamente; nel terzo caso quelli che concedono alla tecnologia un compito importante, ma per i quali i suoi prodotti non garantiscono necessariamente uno statuto di linguaggio.

A mio avviso sbaglia chi vede nella tecnologia videoelettronica e digitale contemporanea la possibilità d’una ricerca d’avanguardia, nonostante vi siano addirittura dei festival a proposito ben varati e ben solidi. In questo senso, a mio avviso, i supporti devono prima elaborarsi, svilupparsi in linguaggio e solo a quel punto il video e lo schermo forniranno gli elementi necessari sui quali una pratica d’avanguardia può intervenire e lavorare, portando com’è sua prassi le componenti di quel linguaggio alle loro estreme conseguenze. Ma perché possa darsi un linguaggio in quest’ambito è prima necessario che l’industria e il profitto — sì, persino il profitto — stabiliscano il codice sul quale l’operazione estetica deve intervenire: diversamente il video diventerà davvero un game, un gioco su significanti astratti, o nel migliore dei casi, su significanti cui si attribuiscono significati che sono loro estranei, mutuati dal codice linguistico immediatamente precedente a quello che l’invenzione tecnologica intenderebbe come nuovo.

Insomma sarebbe come se s’inventasse una fonetica e non le si desse modo di articolarsi secondo una grammatica, secondo una sintassi elementare, tentando immediatamente un suo impiego in termini filosofici ed estetico-scientifici. Certo, l’arte nasce dal superamento, l’arte nasce dal dissenso: ma superamento e dissenso rispetto a che cosa? L’avanguardia irriducibile mi risponderà che attraverso il prodotto tecnologico il vecchio linguaggio e la vecchia ideologia possono venire polverizzati, dimenticando però che la vera avanguardia opera sempre su modelli forniti dall’uso, dalla pratica, dall’ideologia; ma quale sarà quell’uso? Quale la pratica? Quale l’ideologia? Si possono fornire i prodotti della tecnologia se poi se ne anticipa in senso sperimentale, in senso esteticamente sperimentale, il loro impiego? Qui non si tratta certo di scardinare vecchi modelli ormai ampiamente esorcizzati, ampiamente noti e digeriti, bensì si tratta di attendere quelli che l’industria della tecnologia ci fornirà, che già ci sta fornendo.

Anche l’immagine, in quanto prodotto tecnologico, ha una storia. Intervenire sull’immagine senza che su di essa si sia prima condensato un significato, è cosa che si può fare solo attraverso la storia dell’immagine e rimane un’operazione che appartiene ad altre discipline. Non sto dicendo con questo che si tratta di rallentare i ritmi stessi dello sviluppo culturale, perché di fatto l’anticipazione può anche far sortire esiti geniali, ma vale la pena porsi certamente la domanda: è il caso di sacrificare la dialettica culturale per un’occasionale prodotto d’eccezione? Dobbiamo dare alla tecnologia lo spazio per sviluppare quel linguaggio comune, quella koiné culturale che i mezzi di massa di oggi forniscono, certamente in tempi più brevi che nel passato? Dobbiamo cercare di scardinare i modelli in via di sclerotizzazione perché nuovi linguaggi, una volta che siano davvero fondati, possano richiedere nuovi modelli critici (e la critica non si esercita solo sull’immagine, come dicevo, ma soprattutto sulla storia dell’immagine).

In conclusione. Mi pare che all’inverso di quanto si ritiene comunemente, sia poi il presente che spiega il passato. Sin tanto che il presente rientrerà nell’itinerario d’una dinamica, d’una storia, sarà bene non ridurre il cinema e l’immagine a una lingua morta; sarà bene concedere al cinema e all’immagine un presente, perché soltanto così avremo dato loro un passato, e soltanto così potremo dar loro un futuro.

Vorrei che fosse molto chiaro che questa tesi che sto esemplando qui non vale in termini apocalittici, non è una presa di distanza, dalle nuove tecnologie. Tutt’altro. Tenderebbe, vorrebbe, avrebbe la buona intenzione di mettere a fuoco la distanza che effettivamente ancora ci separa dalle nuove tecnologie. Per il fatto che esistano, queste nuove tecnologie, non vuol dire ovviamente che noi si possa dire di conoscerle. Vuol dire che siamo soltanto coscienti della loro esistenza, ma la coscienza dell’esistenza non è mai conoscenza. A mio avviso questa può avvenire soltanto nel lasciare che la nuova tecnologia si organizzi come linguaggio, e questo lo può fare soltanto una grande, perfetta macchina come quella industriale, come poi è sempre stato, con la letteratura, con i caratteri a stampa, con il romanzo, con qualunque prodotto dell’immaginario — di qualunque tipo fosse, di qualunque medium, anche non necessariamente visivo — si trattasse. Solo a quel punto possono nascere le avanguardie. A quel punto potremo operare su materiali che davvero conosciamo perché si sarà stabilito, si sarà fondato un linguaggio, di tipo, peraltro, almeno narrativo. Diversamente, non mi stancherò di ripeterlo, saremo soltanto dei bambini che si trastullano con un materiale di cui non conoscono il valore, le cui potenzialità andranno sprecate così come vanno sprecate quelle dei bambini.

Un mio caro amico, Gianni Toti, se fosse presente tra voi, mi avrebbe già strangolato. Forse lo conoscete, non lo so: Gianni Toti è un videoartista, che fa cose anche d’interesse, ha vinto dei premi, anche all’estero, in Francia, ad esempio. Vorrei comunque rassicurarlo, perché questo mio intervento non vuole essere una pugnalata alle spalle di Gianni, né abbiamo parlato spesso di queste cose. Certamente io gli contesto il fatto che per quanto interessanti possano essere le sue cose, che fra l’altro sono supportate — è davvero un brutto termine, questo “supportate” — da conoscenze profonde delle tecniche digitali più sofisticate, ancora non possono essere paragonate a qualcosa d’altro, magari in termini dialettici, di opposizione, per cui rappresentino la critica. Posso ammirare il prodotto da un punto di vista figurativo, come ammiro un bel quadro o magari un bel film d’avanguardia. Possono essere un film di Mekas, uno di Warhol, ma la struttura di riferimento che ho in mente, nel momento in cui vedo l’opera di Gianni è una struttura che già conosco, ed è una struttura filmica regolare, fatta con tecniche, che non sono tecniche digitali, non sono tecniche elettroniche.

Soltanto così, possiamo davvero misurarci con tecnologie che sono lingua, che diventano linguaggio. Diversamente sarà ancora il caso di tecnologie che usano un linguaggio appartenente ad una tecnologia precedente.

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