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Cinema

Laghi di Lombardia: sulla pagina e sullo schermo (II)

Una “pace separata” sul Lago Maggiore in “Addio alle armi” di Hemingway.

Ernest Hemingway ha trent’anni nel 1929, e da quasi dieci si dedica al giornalismo e alla narrativa. A Parigi ha fatto parte di un singolare quanto famoso gruppo di artisti e intellettuali giunti in Francia nel dopoguerra: americani come Scott Fitzgerald, Dos Passos, Gertrude Stein, Sylvia Beach, e inoltre Picasso, Joyce, Ezra Pound. Era protagonista.
come disertore un avere per e Caporetto di sconfitta della descrizione cruda la bando al messo fu dove Italia, in non Ma Paesi. i tutti tradotto subito mondiale successo ebbe romanzo Il 1929). del armi, alle addio (Un Arms? to farewell ?A suo base è guerra E nell’anima. certamente corpo, nel se ferita, profondamente dalla uscita generazione questa romanzo-emblema il (Fiesta), ancora? sorge sole ?Il dopo l’anno Time?, our ?In racconti pubblicato aveva Herningway 1925 Nel perduta. Generation?, ?Lost etichetta l’indelebile gruppo questo a applicare ad Stein stata “Addio alle armi” parte da uno spunto autobiografico. Hemingway si era arruolato volontario nel ‘18 ed era stato inviato in Italia dalla Croce Rossa americana come addetto alle autoambulanze sul fronte dell’Isonzo. Era stato ferito ad una gamba e ricoverato all’ospedale militare di Milano, dove si era innamorato di una crocerossina inglese, Agnes von Kurowski, di pochi anni maggiore ci lui. La cosa durò fino alla fine della guerra, in pratica pochi mesi, e i due non si rividero più. Ma la passione amorosa del giovane americano  lasciò un ricordo indelebile. E soprattutto il romanzo, probabilmente il suo capolavoro.”Addio alle armi” è scritto in prima persona, nella prosa asciutta ed immediata del suo autore, con i dialoghi brevi ed i famosi “incipit” di ogni capitolo, fin dall’iniziale “Sul finire dell’estate di quell’anno” che apre la vicenda.

Immagine articolo Fucine MuteTutto il romanzo si sviluppa sotto il peso intollerabile della guerra e della ribellione di quest’uomo solo che vuole abbandonare ogni cosa per poter vivere il suo momento di felicità vietata. Seguiamo brevemente i fatti. Il tenente Frederic Henry torna al fronte, dopo il ricovero a Milano. Viene coinvolto nel caos spaventoso dell’esercito in disfatta, e ne esce salvandosi in un fiume a nuoto sotto le fucilate dei carabinieri a caccia di disertori. Un treno merci lo riporta a Milano ancora una volta, poiché ha saputo che la sua amata (Catherine, nel romanzo) è ora a Stresa sul Lago Maggiore, con una collega. Un treno, l’ultimo questa volta. Nello scompartimento, “alcuni soldati evitavano di guardarmi e mostravano molto disprezzo per un borghese della mia età, poi scesero a Gallarate e fui lieto di restare solo”.

Ecco il tema chiave di tutto il romanzo: “I was going to forget the war, I had made a separate peace”. Il tenente Frederic Henry, disertore, va a dimenticare la guerra e a fare una pace separata. Da solo, e per amore di una donna. E riesce a raggiungere Catherine che aspetta un bambino, ed ecco Stresa semideserta con il Lago Maggiore autunnale e l’enorme “Hotel des Iles Borromées” quasi vuoto. È necessario fuggire al più presto: in albergo gli fanno sapere che la polizia militare lo sta cercando, e che l’unica via di salvezza possibile è ancora il lago, verso la vicina Svizzera.
Una prima rapida ispezione alla riva della partenza, in vista dell’Isola Bella (proprio quella di Franco Maironi di “Piccolo mondo antico” in partenza per un’altra e ben diversa impresa). E, nella notte, l’inizio dell’avventura, su una barca a remi attrezzata alla meglio per una fuga di trentacinque chilometri, un ombrellone per riparare Catherine dalla pioggia,che servirà anche da vela improvvisata, cibo, del cognac , e le sommarie istruzioni avute dal barman dell’albergo.
La descrizione, quasi una cronaca, della fuga notturna sul lago, è uno di quei pezzi di rara abilità nei quali Hemingway sarebbe stato maestro.

Ecco le luci di Intra, e sulla sponda opposta forse quelle di Luino. E poi ancora Cannobio più a nord, e il passaggio di una lancia della “Guardia di Finanza” (in italiano nel testo) che, grazie alla fitta pioggia, non li scopre. Poi sono sotto Il Monte Valmara (che nel testo diventa Tamara), e poco dopo c’è Brissago, in Svizzera, all’alba. Frederic è stremato di fatica, e Catherine ha resistito magnificamente. Sono salvi. Hanno anche una buona scorta di denaro, per cui i gendarmi svizzeri si rivelano subito ospitali, quasi premurosi per questi due “turisti” non italiani. Un breve periodo di riposo a Locarno. I giornali riferiscono che la guerra potrebbe concludersi entro questo 1918. Lei è quasi al termine della gravidanza: si spostano sul lago dl Ginevra, prima a Montreux e poi a Losanna, in vista del parto imminente. E poche settimane dopo, il ricovero. Tutto sembra procedere bene, ma subentrano complicazioni: il bambino muore appena nato, e Catherine muore per una infrenabile emorragia. Frederic li ha perduti entrambi.
La fine del romanzo è angosciosa. E le parole dello scrittore essenziali come sempre. Lui vuol vedere la sua donna: “lt was like saying goodbye to a statue”, “era come salutare una statua, e dopo un po’ me ne andai dall’ospedale e tornai in albergo sotto la pioggia”.
Un’osservazione sul titolo inglese. “A Farewell to Arms” è chiaramente traducibile con “Un addio alle armi”. Ma può significare anche “Un addio alle braccia”, forse quelle della donna amata. Lo fa notare Fernanda Pivano, la traduttrice “storica” dl Hemingway. Si può prenderne nota.

Guerra e melodramma: le due versioni per il cinema.

La prima è di Frank Borzage, ed è del 1932. Negli anni ‘30, Borzage è uno dei più affermati registi americani: ha trentanove anni quando questo suo film, dopo parecchi problemi di produzione, è ultimato dalla casa Paramount. È stato molto attivo negli anni precedenti, con un bel passato dl attore del “muto” e poi di direttore di film famosi fra il 1927 e il 1930: Settimo Cielo, Il Fiume, Lucky Star, Liliom. L’arrivo del sonoro non ha per nulla arrestato la sua attività, e alla fine del 1932 esce a New York “Addio alle armi” con tre protagonisti già famosi, come Helen Hayes, Gary Cooper e Adolphe Menjou. La sceneggiatura voleva mantenersi piuttosto fedele al testo, ma si scontrò con severi ostacoli. In primo luogo, l’avversione totale di Hemingway per la edizione cinematografica del suo romanzo (e ne seguirono altre, costantemente invise allo scrittore, che peraltro non dimostrò mai di disdegnare gli ottimi contratti con relativi incassi). Altro grosso problema, il rigido Codice Hys, tutore assoluto della morale del tempo e poco benevolo verso argomenti come l’amore senza matrimonio con relativa nascita illegittima, nonché la diserzione, e poi la disfatta di un esercito alleato degli Stati Uniti… In pratica, il film fu sottoposto a questa doppia censura morale e politica e non ebbe accesso al circuiti di proiezione.

In America fu distribuito dalla Warner soltanto nel ‘49, in Francia e Inghilterra addirittura nel ‘71. In Italia non uscì mai nelle sale pubbliche, e si poté vedere una copia televisiva non prima del 1980. Un film “maledetto”? Piuttosto, un film sfortunato.

I due protagonisti maschili sono attori già di buona fama professionale, come il giovane Gary Cooper, un po’ impacciato nella storica divisa italiana d’ordinanza, ma risoluto e patetico nel vivere il dramma del tenente Henry, nonché Adolphe Menjou nel ruolo dell’ufficiale medico Binaldi, suo amico e consigliere (come non ricordare la parte di Menjou, ufficiale francese nel futuro “Orizzonti dl gloria” di Kubrick?). È ottima anche la Hayes, particolarmente tenera nella parte della povera Catherine dalla tragica fine. Questo primo incontro fra Hemingway e il cinema merita forse una considerazione. Le pagine dello scrittore, con le sue descrizioni molto dirette e i suoi dialoghi essenziali, sembrano già pronte per una buona sceneggiatura. Ed è forse un bene che lui dimostrasse tanta indIfferenza verso il cinema, evitando perciò ogni sua interferenza. Purtroppo, nei molti film successivi, non escluso il secondo “Addio alle armi”, i realizzatori approfittarono ben poco di questo vantaggio. E lo si vide nei risultati.
Vi fu una sola eccezione. Nel 1937 diede la sua collaborazione al grande documentarista Joris Ivens in “Terra dl Spagna”, un film sulla guerra civile, leggendo anche un testo dl accompagnamento alla proiezione. Ma fu proprio una completa eccezione, per un film del tutto extra-Hollywood e motivato dal ben noto antifascismo dello scrittore.

Torniamo al film di Frank Borzage. Il fronte italiano e il lago sono chiaramente ricostruzioni di Hollywood e dintorni. Emergono particolari tipici di quel lontano 1932 nell’ottica popolare americana: i soldati che nei momenti di riposo ascoltano un tenorino, in divisa e baffetti, che canta canzoni napoletane, oppure degli impressionanti “carabinieri” rigidi e feroci coi disertori, o un’incredibile insegna “Stressa Palazzo” per l’hotel di Stresa… Il Lago Maggiore è ridotto all’essenziale, e così la fuga notturna di Frederic in Svizzera, da solo e senza difficoltà dl polizia, anche perché Catherine lo ha già preceduto più comodamente a Brissago. Inoltre, I due amanti non lasciano più la piccola e ospitale cittadina sul lago, fino alla conclusione.

Che è melodramma purissimo: lui con il corpo di Catherine appena spirata, sollevato tra le braccia e portato davanti ad una finestra aperta sul lago, festante e scampanante per la fine della guerra, e la parola “Peace” in sovrimpressione… Cose di maniera all’estremo, eppure hanno ancora quella sfumatura emotiva e delicata che fu sempre la prerogativa di Borzage. Si pensi al suo “Settimo cielo” con il finale che ha qualche analogia con questo: là c’è un povero reduce cieco, che ritorna, circondato da un tripudio di popolo per la vittoria.

La seconda versione dl “Addio alle armi” fu proiettata in anteprima il 18 dicembre 1957 a Hollywood e poco dopo a New York. In Italia, nel marzo 1958. La regia è firmata da Charles Vidor, un ungherese giunto in America negli anni 30,che doveva molta della sua fama al super-valorizzato “Gilda” del l946. Il produttore era David Oliver Selznick, di cui avremo parecchie cose da dire.
Charles Vidor (niente in comune col suo omonimo King) era subentrato nella regia a John Huston che per primo aveva avuto l’incarico, causa contrasti insanabili tra produttore e regista. La sceneggiatura era di Ben Hecht che in passato, con il collega Charles Mac Arthur, aveva firmato alcuni “script” di grande valore. La coppia di protagonisti era formata da Jennifer Jones, moglie di Selnick, e da Rock Hudson, più giovane di lei di sette anni.

Il produttore-magnate, che aveva messo il ruolo della moglie come condizione essenziale per il finanziamento, ebbe per tutta la durata della lavorazione l’atteggiamento intransigente che gli era abituale, intervenendo senza limiti a tutti i livelli. L’abbandono di John Huston ne fu la prima conseguenza, ma le cose non andarono troppo bene neanche con Vidor, che più di una volta fu sul punto dl andarsene. E lo stesso Ben Hecht aveva redatto la sceneggiatura “seguendo la ricetta di Selznick, per cui la storia di Hemingway era  diventata uno strumento al servizio del personaglo femminile di Jennifer Jones”, come dice John Huston nella sua autobiografia.
Non si fece alcuna economia di mezzi. Gli esterni furono tutti girati in Friuli e nel Veneto, nei luoghi autentici del romanzo, e furono impiegate centinaia di comparse,reclutate tra gli abitanti di quelle zone.
Imponenti gli scenari sulla montagna, con file di soldati e di camion, e musiche su motivi militari famosi, mentre i momenti intimi fra i due innamorati, all’ospedale di Milano, lasciano trapelare qualche rassicurante guglia del Duomo sullo sfondo.

La rotta dl Caporetto, in puro stile “film di guerra” unisce alla tragedia degli esuli in fuga quella dei militari in crisi: il rigetto bellico di Frederic è giustificato dall’insulto dell’amico Rinaldi, ufficiale medico, rivolto a una corte marziale ingessata, da commedia, con ovvia fucilazione del ribelle. Piuttosto sobrie le sequenze del disertore in fuga fino al Lago Maggiore. Ma qui abbiamo un trionfo del kitsch da cartolina, con i due innamorati felici sullo sfondo dell’immancabile isola bella e le frasi di Hemingway che, introdotte di peso nei loro colloqui, suonano false e quasi ridicole. Per non dire della fuga notturna, che a tratti sembra una prova di fondo di sport del remo. Lui indossa una maglia a vistose righe bianco-nere, che non è proprio l’ideale per nascondersi, e il sospirato sbarco in Svizzera è reso subito rassicurante dai bandieroni rosso-crociati, e dalla cordialità (piuttosto interessata) dei gendarmi elvetici. Ma il punto debole del film è proprio il complesso degli attori. Rock Hudson affronta un personaggio superiore ai suoi mezzi espressivi con buona volontà, mentre Jennifer Jones merita un giudizio severo, perché simula la giovinezza di Catherine con inquietanti smorfie che si fanno tragiche nella lunga sequenza dell’agonia.

I comprimari, ottimi attori in gran parte italiani, sembrano tutti presenti per caso. De Sica si salverebbe col suo consumato mestiere se il suo ufficiale medico Rinaldi non ricordasse in qualche momento le movenze del maresciallo di “Pane amore e fantasia” di lieta memoria. Alberto Sordi, cappellano militare, esprime solo una melensa dolcezza da consolatore di feriti, e di altri, come Interlenghi e Leopoldo Trieste e molti ancora è già troppo fare il nome. In pratica, si ha la sensazione che non esista una direzione degli attori, e che ciascuno faccia la parte per conto suo. È evidente che l’influenza dittatoriale di Selznick, la remissività dl Charles Vidor e l’incompatibilità di Jennifer Jones col proprio ruolo, abbiano dato un duro colpo a questa ambiziosa pellicola. Spiace per il grande impegno organizzativo (sottolineato da Jacob e Gaberscek nel loro ottimo volume), per la partecipazione sincera di tutte le comparse locali, e per le scene di guerra girate nel loro ambiente originario. Ma questo “Addio alle Armi” è veramente un cattivo film.
Il critico Howard Thompson sul New York Times del 25 gennaio 1958 parla del “senso di incoerenza che emerge da questo film troppo lungo”. Non ci rimane che sottoscrivere in pieno.

Il piatto non piange più; Piero Chiara e il suo lago.

Se mai uno scrittore ha dedicato tutta la sua opera ai luoghi della sua vita, questo è Piero Chiara. Nato a Luino nel 1913, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore, è morto nel 1986.
Luino è una bella cittadina, con il suo viavai dl battelli, con il suo mondo provinciale popolato di personaggi speciali, ed è al centro di quasi tutta la sua produzione letteraria, fatta di racconti e soprattutto di romanzi. Il successo raggiunse Chiara cinquantenne con il romanzo “Il piatto piange”, la storia disincantata d’un gruppo di sfaccendati di provincia, instancabili giocatori di carte e donnaioli, narrata da un “testimone” un po’ più giovane. Il periodo storico è quello degli anni trenta, prima che la guerra disperdesse la brigata. Anche qui abbiamo un “piccolo mondo” su un lago, come in Fogazzaro, ma radicalmente diverso, senza gli aneliti spirituali e romantici di quello. Tuttavia è scomparso anch’esso nella nostalgia, da quando il tradizionale “piatto” delle puntate sul tavolo da gioco è rimasto vuoto per sempre. Rimangono, nel ricordo di quegli anni, la provincia lombarda con le sue manie, i pettegolezzi, gli amori, sullo sfondo dell’odiato “regime”. (Chiara si era autoesiliato nella vicina Svizzera per evitare un arresto come antifascista). Questa l’ossatura delle sue opere, nelle quali le note realistiche sono sempre temperate da un senso dell’umorismo e del paradosso talvolta irresistibile. Nella vasta produzione letteraria di questo autore, non poteva mancare qualche opera sulla quale il cinema ponesse la sua attenzione. Ci limiteremo a due suoi noti romanzi ed alle rispettive versioni per lo schermo.

“La spartizione”, del 1946, è un romanzo  intenso e godibile . Ne è protagonista Emerenziano Paronzini, un impiegato demaniale quarantacinquenne scapolo, metodico e mediocre, che ad un certo momento fa la conoscenza delle tre sorelle Tettamanzi, orfane e bruttine sulla quarantina, benestanti e nubili. Mentre due di loro sembrano ormai rassegnate, c’è Tarsilla, la seconda, che, fiduciosa nelle sue gambe stranamente perfette, pensa ancora al matrimonio. Conosciuto il Paronzini, lo invita a casa con una scusa professionale, e in breve lui diventa “di casa” dalle tre. In breve tempo si instaura un paradossale “ménage à quatre” nel quale Emerenziano, sposata la vogliosa Tarsilla, ha praticamente tre mogli. Ma la conclusione non sarà lieta. Prostrato dalla metodica frequentazione amorosa delle tre donne, viene colpito da un ictus mortale, e sepolto con la camicia nera e le mostrine del suo passato militare. E le tre vedove allestiscono una specie di tempio domestico con i cimeli del defunto “diventato come un santo. oggetto dl culto devoto sui loro altari privati”. Il racconto, con tutti i suoi riferimenti a vizi e virtù locali, è una specie di glorificazione al negativo del paese che li ospita. C’è naturalmente anche il lago, ma ogni riferimento paesaggistico viene offuscato da questa incredibile storia di umorismo al nero.

L’altro romanzo è “La stanza del vescovo”, del 1976. Qui il lago Maggiore è praticamente il protagonista assoluto. Il testo, in prima persona, ci fa subito conoscere il narratore, un giovanotto sui trent’anni, che nell’atmosfera più o meno euforica del ‘46, a guerra appena finita, naviga per diporto, con la sua barca, un po’ per tutto il lago. Una sera conosce un curioso personaggio che gli dimostra simpatia e che lo invita nella sua villa “Cleofe” di Oggebbio, sulla sponda opposta a Luino. Si tratta di Temistocle Orimbelli (un altro nome incredibile), che vive con la moglie, Cleofe per l’appunto, e la giovane cognata vedova e bella, di nome Matilde, nella villa solitaria. Viene alloggiato in una stanza speciale, detta “del vescovo” per ricordo d’un ospite illustre del passato. E i due neo-amici si danno alla bella vita, scorrazzando per il lago in barca, alla caccia di facili prede femminili. Ma a “Villa Cleofe” accadono cose gravissime. Muore suicida la signora Cleofe Orimbelli a causa della vita scioperata del coniuge, e subito dopo si scopre che la cognata Matilde non è affatto vedova, poiché ricompare il marito, creduto morto in guerra. A questo punto la polizia scopre cose inaudite: la povera moglie è stata la vittima di un assassinio, e il suicidio è stato poco abilmente “montato” dall’ineffabile Temistocle. Orimbelli, ormai alle strette, s’impicca. Il giovane ospite, per quanto fortemente attratto dalla bella Matilde, si allontana per sempre dal teatro della tragedia, e la stanza del vescovo non avrà più nessuno da ospitare. Senz’altro, dunque, un dramma sui veleni della bella provincia lacustre. Ma rimane nel lettore come un accumulo di invenzioni, paradossi, improvvisi mutamenti, imprevedibilità di caratteri, e un umorismo macabro, introdotto con esemplare leggerezza.


Piero Chiara come Fogazzaro: due romanzi per il cinema

La versione cinematografica della “Spartizione” e del 1970. Il titolo del film è tipico e ammiccante, secondo il gusto dl quel periodo: “Venga a prendere il caffè… da noi”, con tanto di puntini allusivi. È diretto da Alberto Lattuada con una evidente conoscenza del mondo di Chiara, e con molta abilità nel muovere i personaggi della surreale vicenda. L’attore protagonista è Ugo Tognazzi, che sembra uscito per magia dalle pagine del libro, uno straordinario Emerenziano Paronzini. Ottime le tre sorelle Tettamanzi, con Checco Rissone padre severo e defunto, e poi lo stesso Chiara con Lattuada, in piccoli camei. La sceneggiatura è fedele al romanzo, salvo una modifica nel finale: l’ineffabile Paronzini non soccombe allo stress poligamico, come nel libro. L’ictus lo riduce, ancora in vita, alla condizione di un invalido in carrozzella col gelato in mano, portato a spasso dalle sue tre donne. È una ridicola caricatura del vacuo ma efficiente Don Giovanni di prima.

L’altro film è diretto da Dino Risi nel 1977, e porta il titolo originale “La stanza del vescovo”. Lo stesso Risi, in un’intervista, volle sottolineare un tema in comune tra il romanzo di Chiara e il suo film: quello dell’uomo maturo che non vuole arrendersi e che si crea come provvisorio modello ed allievo un giovane. È una specie di inversione di ruoli rispetto al suo “Il sorpasso” di tanti anni prima.
Buona parte nel film si svolge direttamente sul lago, sulla barca del giovane fannullone che si porta dietro il piuttosto consunto “viveur” inadatto alla grigia esistenza di consorte della signora Cleofe. E qui abbiamo una seconda interpretazione esemplare di Ugo Tognazzi. Più ambiguo ancora rispetto al Paronzini della “Spartizione”, il suo Orimbelli si aggrega al giovane con barca attira-femmine percorrendo il lago per ogni dove, in un anelito di ultima libertà, presagio forse di una fine imminente.
Il lago Maggiore, scaduto a livello ci “garçonnière”, se la cava benissimo, grazie anche alla fotografia di Franco Di Giacomo. Gli altri attori sono Patrick Dewaere, che doveva poi concludere tragicamente la sua esistenza, e poi Gabriella Giacobbe come acida moglie. Ornella Muti, ventiduenne Matilde, è esibita senza veli nella scena finale (e senza fondate necessità di sceneggiatura).

Ma, dobbiamo ripeterlo, l’ Orimbelli di Tognazzi, gaudente di provincia di pochi scrupoli, fino al delitto finale con relativo suicidio, dà a questa “Stanza del vescovo” il tono di “noir” grottesco, che senza di lui non sarebbe stato possibile. Per concludere, su Chiara e il suo lago si potrebbero dire ancora tante cose. Certi suoi racconti, nella raccolta di “L’uovo al cianuro” gli sono dedicati per intero. E quello iniziale che ha per titolo “Sulle onde del Lago Maggiore” è un racconto breve che andrebbe letto da chiunque volesse aprire una visuale su quest’altro “piccolo mondo” lacustre. Scritto trent’anni fa, ha la freschezza d’un articolo fatto oggi.

Lago Maggiore detto anche Verbano, Lago di Lugano o Ceresio, lago di Como o Lario… Bastano queste assonanze nozionistiche per riportarci a lontani anni di scuola e alle romantiche distese d’acqua che rendono tanto suggestive le nostre regioni subalpine.
Molti scrittori ne sono stati ispirati in questi ultimi due secoli, ambientandovi le loro narrazioni.
E con la nascita del cinema, parecchi registi del muto e del sonoro hanno ricavato, da quelle pagine, dei soggetti per le loro pellicole, con risultati d’alterna fortuna.
Vogliamo sperare che in questa rassegna i laghi in questione possano risultare, se non esaltati (e non ne hanno bisogno) almeno richiamati con simpatia al nostro ricordo, sotto quel loro “cielo di Lombardia” che come disse l’Autore Famoso, “è tanto bello, quando è bello”. (I.G.)

Bibliografia e iconografia
(I titoli contrassegnati con contengono anche fonti iconografiche)

VOLUMI:

Stendhal: La Certosa di Parma. Trad. L. G. Tenconi. Rizzoli, Milano 1953.

Eugenio Donadoni: Antonio Fogazzaro. Laterza, Bari, 1939.

 Anna Maria Moroni: Introduzione a “Piccolo Mondo Antico”. Mondadori, Milano 1966. 

 Mario Soldati: La scrittura e lo sguardo. Ed. Museo Nazionale del cinema, Torino 1991.
(Volume edito per gli 85 anni dell’Autore).

Mario Soldati: Cinema e Letteratura. In “Cinema d’oggi”. Vallecchi Ed., 1958.

Francesco Savio: Cinecittà anni 30, vol III. Ed. Bulzoni, Roma 1979.

Roberto Campari: La bella forma. Marsilio, Venezia, 1992.

 Roberto Campari: Il fantasma del bello, iconologia del cinema italiano. Marsilio,
Venezia 1994.

 Hervé Dumont: Frank Borzage, Sarastro à Hollywood. Mazzotta, Milano 1993.

Ernest hemingway: A Farewell to Arms. Bantam Books. New York, 1976.

 Livio Jacob e Carlo Gaberscek: Hollywood in Friuli, si gira “Addio alle Armi”.
In “Il Friuli e il cinema”, Ed. Cineteca del Friuli, 1996.

 Anthony Burgess: Hemingway. Editoriale Nuova, Milano 1983.

A.E. Hotchner: Papà Hemingway. Bompiani, Milano 1966.

 AA.VV.: Hemingway e il cinema. Comune di Lignano,1986.

Piero Chiara: Valsolda. piccolo mondo. In “I luoghi”. Ed. Studio Tesi, 1995.

David O. Selznick: Cinéma. Editions Ramsay, Paris 1984.

Piero Chiara: L’uovo al Cianuro e altre storie. Mondadori, Milano 1969. (Contiene il racconto “Sulle onde del Lago Maggiore”).

ARTICOLI SU RIVISTE E PERIODICI:

Carlo Bo: Piero Chiara, la realtà come fantasia. Introduzione a “La Spartizione”, Mondadori, Milano 1964.

 Claudio Magris: Guerra, l’epopea impossibile (Stendhal e Waterloo). Il Corriere della Sera, 12-7-1999.

Francesco Bolzoni: Il segreto di Soldati. Bianco e Nero, maggio 1959.

Massimo Alberini: Il cancello che cigola. Cinema, 25 luglio 1941.

Giuseppe De Santis: Per un paesaggio italiano. Cinema. N. 116, 1941.

Antonio Pietrangeli: Su Malombra. Bianco e Nero, gennaio l943.

Ezio Colombo: Mario Soldati a cena con il Commendatore. Cinema, 15-1-1992.

Pietro Pacchioni: E’ morta a 92 anni l’ex crocerossina che fu l’amore milanese di Hemingway. Il Corriere della Sera, 3-l2-1984.

Gino Nogara: Amore sperperato, a proposito di “La stanza del Vescovo” di Chiara. Il Gazzettino, 28-6-1976.

Mario Soldati: Io volevo la Valli. Conversazione a cura di M. Cerasuolo su Cinema e Cinema N. 49, giugno 1987.

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