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Musica

Note da Theresienstadt: Viktor Ullmann

Le non lontanissime (1995) commemorazioni in ricordo delle vittime di Auschwitz hanno spinto la memoria, al di là di non poche polemiche di natura interconfessionale, a ripercorrere il cammino insanguinato che, dall’avvento del nazismo sino alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, portò non solo allo sterminio di milioni di ebrei ma alla vera e propria cancellazione di quella straordinaria tradizione culturale di cui gli stessi ebrei si erano da secoli fatti portatori, in Germania come in tutta la cosiddetta Mitteleuropa: quegli intellettuali israeliti che avevano costituito l’asse portante di una tradizione unica e affascinante, e stesasi dagli shtetl degli Ostjuden nell’Europa Orientale, sino alle università tedesche e austriache, scomparvero con il loro contributo creativo, lasciando un vuoto che nessuno ha potuto più colmare. Nelle camere a gas dei campi di concentramento sparsi nei luoghi complici, dominati o invasi dal Terzo Reich perirono innumerevoli corpi e innumerevoli idee, si spense l’identità culturale di quella Judentum che tanto aveva arricchito il mondo di lingua e cultura germaniche: una realtà ricordata ancora una volta nel discorso, sincero sino alla brutalità, che il presidente di Israele, Ezer Weizman, ha tenuto al Bundestag, in occasione del suo viaggio nella Repubblica Federale Tedesca. Se mai ve ne fosse stato bisogno, un’ulteriore conferma dell’altissimo prezzo che l’Europa ha pagato anche in termini culturali con la Shoah ci proviene dalla descrizione sempre più accurata, grazie a nuove e più intense ricerche, dell’attività che si svolgeva in un campo di concentramento peculiare e di cui poco si parla, ma da cui continuano, per l’appunto, a provenirci testimonianze: come abbiamo già appreso dalla memoria dei pochi superstiti, neanche in prigionia gli intellettuali ebrei cessarono di esercitare la loro attività, e proprio nei campi di sterminio si venne, paradossalmente, a manifestare una disperata testimonianza di vitalità creatrice.

Immagine articolo Fucine MuteNello scenario apocalittico previsto dalla Endlosung si distacca un campo creato a sessanta chilometri da Praga, alla confluenza dei fiumi Làbe e Ohre, in una cittadina nel nord della Boemia, Terezín, che dal 1780, anno della sua fondazione in onore della da poco defunta imperatrice Maria Teresa d’Austria, non aveva conosciuto altro che un quieto anonimato come avamposto fortificato delle truppe dell’imperatore Giuseppe II. Nella nota riunione che il 20 gennaio 1942 i gerarchi nazisti “esperti” della “questione ebraica”, presieduti da Reinhard Heydrich, tennero al 56-8 del Grosser Wannsee di Berlino, sede della Commissione internazionale di polizia criminale, Terezín, nel frattempo ribattezzata Theresienstadt, usciva dall’anonimato per venire probabilmente indicata come luogo di raccolta -nell’ambito della Soluzione Finale — degli ebrei inidonei al lavoro forzato, cioè quelli di oltre sessant’anni e quelli gravemente mutilati e pluridecorati nel corso della Prima Guerra Mondiale. In realtà, già dal novembre del 1941 erano giunti prigionieri a Theresienstadt, la cui popolazione civile, circa 3.700 persone, veniva completamente evacuata nel luglio nel 1942 per lasciare spazio a una massa di deportati provenienti dalle comunità ebraiche tedesche, austriache e cecoslovacche e che, nel settembre dello stesso anno, erano già 53.004. Tra il 1941 e il 1945 passano per Theresienstadt oltre 141.000 prigionieri ebrei, di cui circa 33.500 vi muoiono per le disperate condizioni di vita provocate dal sovraffollamento, mentre 118.000 vengono avviati alla fine che riservano loro Auschwitz, Majdanek e Treblinka. Dei 15.000 bambini internati, 1.600 saranno sopravissuti alla fine della guerra, e di questi solo 150 in condizioni fisiche normali. Pure, il campo passa per una struttura modello, l’unica aperta a ispezioni dall’esterno: al suo interno, sorta di specchietto per le allodole, viene istituito il simulacro di una comunità ebraica, una sorta di finto shtetl in cui i prigionieri sembrano godere di grande libertà, soprattutto possono praticare molteplici attività, tra cui quelle artistiche e creative.

I primi deportati ebrei giungono il 24 novembre 1941, quasi tutti provenienti dalla Boemia e dalla Moravia. Molti fra di loro sono artisti, soprattutto musicisti: nella Praga occupata, già da tempo non è possibile, per gli ebrei, accedere o partecipare a eventi pubblici come concerti o recite teatrali: nella necessità di organizzare recite private, in modo da proseguire in un’attività culturale tradizionalmente intensa, vengono attrezzati da sala da concerto i luoghi più disparati, tra cui un vecchio orfanotrofio ebraico in una zona periferica della città, Vinhorady, che diventa un attivissimo centro di spettacoli, prima che l’intera popolazione ebraica venga deportata. La creatività già manifestatasi in luoghi improbabili come Vinhorády riaffiora anche in quell’anticamera di Auschwitz che è Theresienstadt: con il secondo convoglio di deportati vengono contrabbandati all’interno del campo degli strumenti musicali con cui, clandestinamente, si torna ad intrattenere la comunità, celandosi nei luoghi più riposti dei baraccamenti. Ma se in altri campi di concentramento ai prigionieri non viene concesso alcunché, a Terezín -una volta scoperta dal comando nazista l’esistenza di tali attività- sembra prevalere una maggiore tolleranza. Le autorità del campo non solo invitano i deportati a proseguire nei loro svaghi creativi, ma addirittura si preoccupano di facilitarne l’organizzazione, creando appositamente la Freizeitgestaltung (Amministrazione per le Attività nel Tempo Libero) che, gestita da altri prigionieri ebrei, deve coordinare e stimolare, o addirittura imporre, le attività culturali degli internati. Tanta accondiscendenza non deve sorprendere: essa è frutto della volontà di sfruttare anche a fini propagandistici quello che inizialmente si presenta come un modo di controllare la massa di prigionieri, concedendo loro una sorta di valvola di sfogo.

A Theresienstadt vengono internati intellettuali e artisti ebrei provenienti soprattutto da Praga, Brno e Vienna: molti fra di loro godevano nella vita civile di una certa notorietà, non sono perciò prigionieri facilmente e immediatamente sopprimibili. Assieme a compositori di fama come Gideon Klein, Pavel Haas, Hans Krása, Viktor Ullmann, Frantisec Domazlicky il campo ospita, tra gli altri, il regista e cantante Karel Berman, il direttore d’orchestra Karel Ancerl, il poeta Emil A. Saudek, il direttore del Teatro Nazionale di Praga, Frantisek Zelenka. A Terezín si organizzano recite teatrali, spettacoli di cabaret, concerti di musica sinfonica e da camera, persino concerti di jazz e manifestazioni musicali dedicate a quella Entartete Musik, quella “musica degenerata” che nel 1938 era stata messa al bando dal nazismo, non molto tempo dopo che uguale sorte era toccata alla Entartete Kunst, all'”arte degenerata”. Theresienstadt diviene così il luogo ideale per inscenare la farsa con cui è accolta, il 23 giugno del 1944, l’ispezione della Croce Rossa Internazionale: viene allestito uno spettacolo di teatro musicale, viene ritoccato l’esterno delle baracche, abbellite con colori e decorazioni vivaci, ai prigionieri viene imposto di mostrarsi occupati in normali attività lavorative e persino un film (Der Führer Schenkt den Juden eine Stadt, “Il Fuhrer dona agli ebrei una città”) viene girato per la propaganda nazista da un altro internato, regista cinematografico e teatrale di fama, Kurt Gerron: le immagini mostrano lo scenario idilliaco di una tranquilla cittadina con banche, locali, bar, sale da concerto, parchi e persino una piscina.

Lo spettacolo cui assistono gli ineffabili inviati della Croce Rossa è, con buona probabilità, un’operina per bambini, Brundibár , scritta già nel 1938 da Hans Krása, su libretto di Adolf Hoffmeister. Il compositore, assieme alla quasi totalità della popolazione “artistica” di Theresienstadt verrà ucciso pochi mesi dopo in una delle camere a gas di Auschwitz: la sua funzione, come quella dei suoi altri compagni, era ormai finita, il campo di prigionia mascherato da “ghetto paradisiaco” si apprestava ad essere smantellato di fronte all’avanzata delle truppe sovietiche. È Theresienstadt l’ultima tomba della cultura mitteleuropea; là, dove la creatività artistica viene a rappresentare una sorta di strenua resistenza spirituale, come ebbe a scrivere Viktor Ullmann, che nel campo di prigionia compone uno fra i più significativi lavori sulla grottesca genesi di fenomeni come il nazismo, Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung (“L’Imperatore di Atlantide, ovvero il rifiuto della morte”):

… devo sottolineare che Theresienstadt è servito a stimolare, non a impedire, le mie attività musicali; che in nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere; che il nostro rispetto per l’Arte era commensurato alla nostra voglia di vivere. Ed io sono convinto che tutti coloro, nella vita come nell’arte, che lottano per imporre un’ordine al Caos, saranno d’accordo con me.

È sicuramente Ullmann a rivelarsi la personalità artistica di maggior spicco tra quelle internate a Theresienstadt: la sua vicenda assume, nella tragicità degli eventi, una veste paradossale, perché è proprio nella crudele e atroce realtà del campo di prigionia che la sua creatività, sino ad allora manifestatasi assai sporadicamente, emerge in modo radicale e sorprendente.

Nato l’1 gennaio del 1898 a Teschen, (l’odierna Tesín), una cittadina dell’impero austro-ungarico in Slesia, ai confini tra Cecoslovacchia e Polonia, Ullmann, figlio di un ufficiale dell’esercito austriaco, veniva allevato a Vienna, dove compiva degli studi probabilmente di ottimo livello, a giudicare almeno dal tenore degli scritti che doveva lasciare e che vertevano su vari e approfonditi argomenti di storia, letteratura, filosofia nonché, ovviamente, musica. Dopo la Prima Guerra Mondiale, trascorsa al fronte come volontario con il grado di tenente, Ullmann faceva ritorno a Vienna, entrando nella ristretta cerchia degli allievi di Schönberg e beneficiando dell’insegnamento di Joseph Polnauer, Heinrich Jalowetz e, soprattutto, Eduard Steuermann. Lo stesso Schönberg doveva in qualche modo apprezzarne le doti, visto che lo raccomandava ad Alexander Zemlinsky, allora direttore musicale del Neues Deutsches Theater di Praga e del quale, nel 1920, Ullmann diventava uno degli assistenti (con funzioni di maestro sostituto e direttore del coro), facendosi apprezzare anche come ottimo direttore d’orchestra (lo stesso Zemlinsky gli affidava, tra l’altro, la preparazione dell’orchestra in occasione dell’esecuzione dei Gurre-Lieder di Schönberg, nonché la direzione, in sua sostituzione, di opere di Mozart, Strauss, Wagner e Berg). Il debutto di Ullmann come autore avveniva nel 1923, quando presso l’Associazione Artistico-Letteraria di Praga si eseguiva un suo ciclo liederistico di cui, come molti altri lavori risalenti al periodo precedente il suo internamento a Theresienstadt, non si ha più traccia.

Nel 1927 Zemlinsky lasciava Praga per Berlino, mentre Ullmann occupava l’incarico di Kapellmeister a Ust nad Labem (Aussig), città nel nord della Boemia, in cui dava, nel corso di una sola, discussa stagione (tanto durò il suo incarico), un nuovo impulso alla programmazione di autori contemporanei, mettendo tra l’altro in scena, subito dopo la “prima” a Lipsia, Jonny spielt auf di Krenek. Dal 1929 al 1931 occupava la carica di Kapellmeister alla Schauspielhaus di Zurigo, dedicandosi prevalentemente alla direzione d’orchestra, ma non trascurando la composizione: tra il 1929 e il 1930 William Steinberg presentava con successo il Concerto per Orchestra, op. 11 (scritto nel 1928) e la giovanile Sinfonia in re maggiore . L’incarico a Zurigo veniva ciononostante abbandonato in seguito a una fortissima crisi creativa, che portava Ullmann ad avvicinarsi alla antroposofia: il suo entusiasmo per le teorie di Rudolf Steiner traspare da un’opera iniziata in quel periodo e completata nel 1935, Der Sturz des Antichrist (“La caduta dell’Anticristo”), su libretto di Albert Steffen, successore di Steiner alla guida della Anthroposophischen Gesellschaft. Lo zelo da neofita lo induceva persino ad abbandonare temporaneamente la propria carriera: per quasi tre anni, dal 1931 al 1933, gestiva, dopo averla acquistata, la libreria antroposofica presso il Götheanum di Stoccarda, chiusa d’autorità con l’avvento del nazismo nel 1933. Di ritorno a Praga dopo una breve tappa a Vienna, Ullmann riprendeva, se pure sempre più lentamente, a comporre: al suo ingresso a Theresienstadt, nel settembre del 1942, la sua produzione annoverava trentanove lavori con numeri d’opus e undici senza (tra cui quattro sonate per pianoforte, alcune composizioni cameristiche e corali, pochi lieder, una messa, un concerto per pianoforte, una Rapsodia Slava per sassofono e orchestra e, soprattutto, le Variazioni e Doppia Fuga su di un tema di Arnold Schönberg), segno di un’attività certamente non frenetica.

Negli anni trascorsi a Praga immediatamente prima della guerra, infatti, Ullmann, che pure partecipava attivamente alla vita pubblica e sociale della numerosa comunità di lingua tedesca, si dedicava soprattutto alla critica -collaborando con la Radio Cecoslovacca e scrivendo per numerosi periodici in lingua tedesca (tra cui Der Auftakt, che pubblicava i suoi acuti interventi sulla musica contemporanea)- ed allo studio, sotto la guida di Alois Hába. La composizione non sembrava stimolarlo più di tanto (preferiva dare lezioni private, pur mantenendo stretti contatti epistolari con i vari discepoli di Schónberg), anche se nel 1934 veniva premiato con l’Emil-Hertzka-Gedachtnispreis (della cui giuria facevano parte Krenek e Webern) per le sue Variationen, Phantasie und Doppelfuge über ein kleines Klavierstuck von Schónberg, op. 5 : il lavoro -scritto originariamente per pianoforte, in una stesura andata perduta- risaliva, in realtà, al 1925, quando Ullmann era particolarmente affascinato dalla serialità (nel 1930, in delle note di programma scritte assieme ad Alban Berg per il Teatro di Zurigo, affermava:

Schónberg ha scoperto la sua ars nova lungo un percorso polifonico. Egli ha iniziato con il recidere ogni legame con la tribù musicale, in base al principio rivoluzionario: “Che tutte le note siano sorelle”, accorgendosi ben presto, però, del pericolo d’anarchia insito in questa società di note. È dunque presto, perciò, per predire se tale nuovo ordine, la “lex dodecaphonica”, abbia edificato le fondamenta di un possente governo comune o, piuttosto, quelle di un regime provvisorio…); ripreso nel 1929, in una versione riveduta e ampliata, dal pianista Franz Langer, veniva eseguito a Ginevra, presso l’ISCM, nonché a Praga, Vienna, Londra e Berlino.

Nel 1934 Ullmann ne completava la versione orchestrale, da lui stesso diretta per la Radio Cecoslovacca: la partitura andava perduta, per essere ricostruita nel 1993, grazie alle sopravvissute parti orchestrali, da Israel Yinon. Basate sul Klavierstuck op. 19, n. 4 di Schšnberg, un brahmsiano aforisma di sole 13 battute, le Variazioni di Ullmann si discostano radicalmente dalla concisione del lavoro originario, che viene anzi dissezionato e scrutato sino al più infimo dettaglio con un linguaggio in cui l’uso spregiudicato della tonalità, stimolato dal materiale compositivo schoenberghiano, produce una abbondanza di dissonanze certamente inusuale per l’autore; l’operazione potrebbe apparire un arido esercizio, se Ullmann non facesse mostra di una grande abilità nell’uso di una tavolozza orchestrale particolarmente ricca: un complesso e trasparente gioco timbrico scaturisce da una meticolosa quanto costante suddivisione delle microstrutture fra i vari strumenti. La molteplicità degli effetti coloristici viene ulteriormente sottolineata dalla diversa orchestrazione che caratterizza ognuna delle nove, brevi (tra le 10 e le 22 battute) variazioni, la conclusione delle quali viene sigillata dal compositore con una doppia fuga il cui primo soggetto è una serie dodecafonica in cui il tema schoenberghiano viene enunciato nella propria natura primigenia.

Nel 1936, Ullmann veniva nuovamente premiato dalla giuria dello Emil-Hertzka-Gedachtnispreis, questa volta per Der Sturz des Antichrist ; degli anni successivi -a parte l’esecuzione del suo secondo Quartetto per archi al Festival di Londra nel 1938- poco si sa se non che, in concomitanza con il peggioramento del clima politico in Europa, egli cercava inutilmente di emigrare in Inghilterra o in Sudafrica, rimanendo perciò intrappolato a Praga quando, il 15 marzo del 1939, la Germania hitleriana invadeva la Cecoslovacchia: a quegli anni risale la composizione del Concerto per pianoforte e orchestra, op. 25 , lavoro significativo, impressionante per la densità di scrittura, che concentra in una sostanziale brevità una indubbia complessità di idee. Il primo tempo, un Allegro con fuoco in 4/4, si sviluppa secondo i canoni dell’Allegro di Sonata. Il tema principale dell’esposizione inizia con un drammatico unisono in terzine, che fa da spartiacque tra le varie sezioni formali: esposizione, sviluppo, ricapitolazione e coda. La stessa caratteristica figurazione genera degli intervalli di seconda diminuita e di seconda e terza eccedenti in cui le note, brevi e accentate, danno vita, a loro volta, a un motivo di tre note che viene a costituire la cellula germinale non solo del primo tempo, ma dell’opera intera: i temi degli altri tempi, infatti, pur essendo trattati secondo un articolato schema di variazioni, non cessano di farvi esplicito riferimento. Strutturato con l’intenzione di operare un chiaro riallaccio alla tradizione del concerto classico, il Klavierkonzert di Ullmann, pur nella volontà di riappropriazione e riesplorazione di materiali appartenenti alla tradizione (si noti la forma di lied che caratterizza il secondo tempo, un lirico e cantabile Andante tranquillo-Largo in 3/4 che sarà ripreso dall’autore a Theresienstadt, nel 1943, per musicare l’Abendphantasie di Hölderlin), non è un ripensamento nostalgico: il terzo tempo (Allegro, 2/4), strutturato come uno Scherzo (Scherzo-Trio-Scherzo), gode di un trattamento ritmico particolarmente complesso.

Il motivo unificante di tre note vi appare in forma di ragtime, con tipici spostamenti d’accento e sonorità asprigne, sottolineate e ulteriormente rafforzate da un banjo tenore. In una breve cadenza in cui gli spostamenti d’accento si fanno più evidenti, il pianoforte s’appropria di alcuni elementi del tema rag: a questo brillante riferimento al “Nuovo Mondo”, segno inequivocabile di un’adesione alle correnti di quel modernismo che fioriva soprattutto in Germania e in Cecoslovacchia, Ullmann contrappone nel Trio in 3/8 sparsi frammenti -ora appena accennati, ora assemblati in modo apparentemente illogico- di un valzer. La parte centrale del Trio è una fuga il cui soggetto accoglie tutti e dodici i semitoni, mentre nella Coda ritorna la citazione del valzer, grottescamente distorta, simbolico lacerto di una cultura avviata verso la sua distruzione. Il Finale del lavoro, un Allegro molto in 5/4, ripresenta la cellula germinale di tre note (che, peraltro, era riapparsa anche nello Scherzo, in una diversa veste ritmica): essa, costantemente reiterata attraverso un persistente ostinato, domina l’intero succinto movimento, conferendogli la logica sbilenca e un po’ ossessiva di una qualche filastrocca infantile di sapore popolare. Il Klavierkonzert veniva composto nel 1939 e pubblicato l’anno successivo, con una dedica alla pianista Juliette Aranyi (Un lavoro dionisiaco per la venerabile signora del pianismo apollineo), che non poté mai eseguirlo: deportata anche lei a Theresienstadt, moriva nel 1944 ad Auschwitz. E nel settembre del 1942, dopo avere subito le crescenti restrizioni imposte agli ebrei dalla dominazione nazista, Ullmann, ebreo sposato con un’ebrea, veniva deportato a Theresienstadt, assieme alla terza moglie Elisabeth e al figlio primogenito, Max (altri due figli, Johann Marcus e Felicia sfuggirono alla deportazione e furono condotti prima in Svezia, poi in Inghilterra grazie a un’operazione promossa dalla Croce Rossa).

A Theresienstadt, Ullmann veniva incaricato dal Freizeitgestaltung di organizzare ulteriormente la già ricca attività culturale e artistica della comunità ebraica internata: si susseguivano concerti, recite teatrali, pomeriggi letterari, conferenze, spettacoli di cabaret e, persino, serate di jazz. Ullmann assumeva la carica di direttore dello Studio für neue Musik e fondava un Collegium Musicum, con il quale, esibendosi anche come esecutore, organizzava concerti in cui venivano eseguite musiche di altri autori internati a Terezín, quali Pavel Haas, Hans Krása e Gideon Klein, nonché di compositori banditi dal nazismo: Hába, Schönberg e Zemlinsky. Egli viveva la sua maturità d’artista nel campo di concentramento, ed è sorprendente, persino paradossale, che la sua personalità, invece di crollare di fronte agli eventi, non solo si rafforzasse, ma sembrasse addirittura sbocciare con sorprendente rigoglio: impedito nei movimenti e limitato nelle attività di un uomo libero, Ullmann trovava, forse per la prima volta, il tempo per dedicarsi esclusivamente alla musica, soprattutto alla composizione. Nascevano così, nello scenario cupo e disperato della prigionia, testimonianze di una straordinaria vitalità reattiva: lavori corali, lieder (soprattutto su soggetti ebraici, segno della riscoperta sempre più marcata delle proprie radici culturali e religiose), un quartetto d’archi, abbozzi di due sinfonie (come si evince dalle indicazioni di carattere orchestrale riportate sui manoscritti di due fra le tre sonate per pianoforte scritte a Theresienstadt, specificamente la Quinta e la Settima), persino un’opera, la già citata Der Kaiser von Atlantis, oder die Tod-Verweigerung . Quest’ultima, realizzata su di un libretto scritto da Peter Kien (nato nel 1919, anch’egli assassinato nel 1944 ad Auschwitz), un giovane poeta e disegnatore internato a Terezín nel 1941, è un’amara, radicale allegoria sulla natura del nazifascismo e sul misero valore che esso attribuisce alla vita umana; Ullmann la terminava nel 1943 (l’ultima data sul manoscritto riporta però il 13 gennaio del 1944), orchestrandola -è lecito immaginare- secondo le magre disponibilità nel campo di concentramento: sette voci e tredici strumenti, tra cui banjo e sassofono contralto.

Der Kaiser von Atlantis non verrà mai rappresentata sul palcoscenico della cosiddetta Sokolhaus di Theresienstadt: nel corso delle prove, nell’estate del 1944, interveniva la irritata censura di una delegazione di SS che trovava il personaggio principale dell’opera, lo sgradevole e maniacale Kaiser Overall (che entra in guerra con il mondo, lasciando, con la sua crescente follia, sgomenta persino la Morte), particolarmente ed inquietantemente troppo simile ad Adolf Hitler: l’opera (rappresentata integralmente per la prima volta nel 1989 alla Neukollner Oper di Berlino) si riallaccia con chiarezza ai modelli del teatro espressionista tedesco e l’influenza di Kurt Weill si fa sentire anche nel retaggio mahleriano, che non di rado emerge con prepotente drammaticità. Non deve perciò stupire la molteplicità di materiali che l’autore utilizza nel corso del lavoro: il duetto tra la Morte e Arlecchino (Tage, Tage, wer kauft Tage?) è un Allegretto misurato che riprende gli stilemi del song americano degli anni Trenta, laddove la prima aria della Morte è un blues (Blues-Allegro Maestoso) e il terzetto del terzo quadro fra il Kaiser Overall, Arlecchino (il simbolo della vita) e la Tamburina è uno shimmy (Shimmy-Vivace, ma non troppo presto). Se il Prologo è articolato come un melodramma (vi si avvertono echi da Die Dreigroschenoper ), nell’aria di Arlecchino (Allegretto grazioso), Der Mond geht auf den Firsten mit seinem Stelzenbein, si cita, con minime alterazioni, Der Trunkene im Frühling, dal mahleriano Das Lied von der Erde , così come sono mahlerianamente espressionisti l’Intermezzo che separa primo e secondo quadro, una totentanz in Tempo di Minuetto, e il Tanz-Intermezzo (Die lebenden Toten, “I morti viventi”), inserito fra il terzo e il quarto quadro. A questa voluta disomogeneità ben si accorda la mancata identificazione di una tonalità definita, sebbene una sorta di leitmotiv, di carattere estremamente simbolico, tenda a ricorrere con una frequenza tale da giustificarne un ruolo unificante: nel corso dell’opera Ullmann fa uso frequente dell’intervallo di quarta eccedente, presentato sia in forma di fanfara (sol-re bem., mi bem.-la), che in forma accordale. I due tritoni, uno ascendente, l’altro discendente, caratterizzano, in realtà, il tema della Morte nella Sinfonia in do minore, op. 27 , intitolata Asrael (dal nome dell’Angelo sterminatore), che Josef Suk scrisse in occasione della morte della moglie Otilka e del di lei padre, Anton Dvorák e che, durante la Prima Repubblica Cecoslovacca, era stata adottata come musica per accompagnare le esequie di Stato.

Il contenuto allegorico dell’opera si fa più esplicito quando, nel primo quadro, la Tamburina presenta il Kaiser Overall e ne scandisce i molteplici titoli al suono del Deutschlandslied, trasformato, grazie all’uso del fa frigio, in una sorta di grottesco inno ecclesiastico di sapore chiaramente weilliano. Né sfugge la chiara allusività della versione del corale Ein’ feste Burg ist unser Gott (utilizzato da compositori ebrei come Mendelssohn e Meyerbeer, i cui lavori erano stati banditi dal nazismo) che, adattato a un diverso testo (Komm Tod, du unser werter Gast…), conclude l’opera con un Largo semplice, dolce grazioso la cui struggente intensità mahleriana pare filtrata attraverso la lezione berghiana e lascia intravedere il cammino di moderata modernità che la musica di Ullmann avrebbe probabilmente intrapreso se il compositore fosse sopravvissuto.

A Theresienstadt Ullmann componeva sempre più alacremente, utilizzando come carta il rovescio dei brogliacci sui quali i responsabili del campo riportavano i nomi dei deportati in entrata e in uscita: sui righi tirati a mano nasceva una serie di lavori (tre Sonate per pianoforte, un quartetto d’archi, numerosi lieder su testi di Meyer, Trakl e Hölderlin) che se da un lato indicano una rielaborazione della poetica mahleriana attraverso una blanda pratica dodecafonica, dall’altro evidenziano (con una certa logica consequenziale) una riscoperta ed una riappropriazione -nell’utilizzazione di materiali dai connotati etnicamente marcati- della cultura ebraica. Sotto tale profilo sono particolarmente indicative le Sonate per pianoforte nn. 5 op. 45 e 7 (che non riporta numero d’opus). Nella Sonata n. 5 , dopo un iniziale e strutturalmente tradizionale Allegro con brio (nella cui esposizione si confrontano due diversi motivi, ambedue di sapore mahleriano: il primo, in 6/8, articolato in una bucolica e danzante successione di quarte diatoniche nella tonica di Do maggiore, il secondo, in 9/8, un nostalgico valzer di carattere pressoché vocale; interessante appare un passaggio nella Coda, una citazione della canzone popolare Lieber Augustin, presente peraltro anche nel Quartetto n. 2 di Schönberg), segue un Andante (che nel manoscritto, ricolmo di annotazioni di carattere orchestrale in previsione di una possibile versione strumentale del lavoro, viene sottointitolato Totentanz) estremamente cromatico, le cui sezioni esterne sono però caratterizzate dall’ossessiva ripetizione di una serie di Do diesis effettuata dalla mano sinistra (alcune triadi di Do diesis minore conferiscono, in effetti, un tono sinistro alla pagina): in origine, Ullmann aveva previsto un sottotitolo, Vor dem Schlaf, come l’omonimo poema di Karl Kraus, di cui il compositore riportava sul manoscritto, poi cancellandoli, i primi versi: So spät ist es, so spät,/was werden wird,/ich weiss es nicht./Es dauert nicht/mehr lange,/mir wird so bange,/Und seh’ in der/Tapete/ein klagende Gesicht. Il terzo tempo, Toccatina, consiste in una serie di brevi episodi uniti intervallarmente la cui funzione pare essere soprattutto di collegamento fra il secondo e il quarto tempo, Serenade: Comodo-meno mosso, in forma tripartita: su di un ostinato fornito dalla mano sinistra, una serie melodica di seste minori verticali raggiunge un climax attraverso la ripetizione in crescendo di accordi dissonanti; dopo una fase rielaborativa, Ullmann cita un canto popolare della Slovacchia del Sud, prima di affrontare il Finale fugato che conclude in mi bemolle il lavoro (iniziatosi invece in Do) ed in cui viene abilmente sviluppato un tema di marcia.

Se la Sonata n. 6, op. 49 (presentata e più volte replicata a Theresienstadt dalla pianista Edith Steiner-Kraus, in un programma che prevedeva anche la Terza Sonata di Brahms e la Kreisleriana di Schumann), appare, dal punto di vista pianistico, il lavoro più riuscito tra quelli scritti da Ullmann in prigionia, la Sonata n. 7 (completata, secondo la data apposta sul manoscritto, il 22 agosto del 1944, e destinata anch’essa ad una futura e mai realizzata orchestrazione), assai imperfetta sotto il profilo della scrittura pianistica, vanta invece una complessità che è frutto di una drammatica maturità compositiva: il primo tempo, Allegro, gemächliche Halbe, in Re maggiore, è di impronta marcatamente mahleriana, ed evidente è l’affinità del materiale musicale con i Lieder eines fahrenden Gesellen , così come affine a Mahler è la percussiva marcia che, ironicamente distorta, costituisce il secondo tempo, Alla marcia, ben misurato, in cui Ullmann cita inoltre alcuni cupi passaggi dalla sua precedente opera, Der Sturz des Antichrist : il clima della pagina è, non casualmente, affine a quello di Der Kaiser von Atlantis, quasi a suggerire una connessione tra la venuta dell’Anticristo e l’allegorico Kaiser Overall, simbolo della degenerata follia del Terzo Reich. Il terzo tempo, un palindromico Adagio, ma con moto in cui echeggiano le armonie di Tristan und Isolde , rappresenta uno fra i pochi esercizi di Ullmann nel campo della dodecafonia: anche in questo caso il suo trattamento del materiale musicale non è ortodosso, e presenta una serie di undici note, sviluppata e poi ripresentata in forma retrograda. Nel seguente Scherzo: Allegretto grazioso — Trio — Scherzo un’improvvisa quanto introspettiva pausa s’insinua nel montare della tensione: a conclusione del Trio emerge, enunciata e più volte ripetuta dalla mano sinistra, una sentimentalissima melodia, un valzer che affiora insistente, ricordo del Terzetto di Der Opernball , un’operetta scritta nel 1898 da Richard Heuberger e che Ullmann, come assistente di Zemlinsky, aveva contribuito a mettere in scena a Praga nell’ottobre del 1923.

Condensato di incupito e nostalgico autobiografismo, la Sonata si avvia verso un’inevitabile quanto logica conclusione: nel quinto tempo, Variationen und Fuge (Allegro giocoso energico, martellato sempre) über ein hebraisches Volkslied, Ullmann elabora, senza soverchi abbellimenti, un semplice tema popolare ebraico di sapore arcaico e dal ritmo irregolare, scritto nel 1930 da Yehuda Sharett su di un testo della poetessa ebreo-russa Rakhel e assai diffuso tra la gioventù sionista (di cui alcuni membri erano internati a Theresienstadt): la prima metà del tema, accompagnata da una linea di basso tendenzialmente cromatica, è seguita da otto variazioni in cui la fisionomia del tema stesso è essenzialmente preservata e sottoposta a lievi alterazioni armoniche. La fuga interrompe il modo minore, presentandosi in Re maggiore con l’Allegro giocoso energico: il tema, nelle sue ultime quattro battute, allude esplicitamente all’inno nazionale slovacco (la cui esecuzione era stata vietata dal nazismo), Nad Tatrou sa blyska. La fuga -che accoglie anche la citazione di un corale Hussita del XIV secolo, Ktoz js— bozé bojovnéci (“Voi che siete i guerrieri di Dio”), celebrato da Smetana nei due poemi conclusivi di Má Vlast , Tábor e Blaník — culmina nella presentazione del corale luterano Nun danket alle Gott: dopo un imponente crescendo, un motivo costituito dalla successione di si bem.-la-do-si (cioè, B-A-C-H) viene presentato e poi ripreso una sola volta (una forma di rifiuto verso uno dei simboli culturali più esaltati dal nazismo), in forma lievemente alterata, si bem.-la-do diesis-si. Immediatamente abbandonato, esso cede il passo alla imponente e drammatica ripresentazione del canto popolare ebraico, ultimo, disperato ma vitale messaggio lanciato da una prossima vittima di Auschwitz. Con la morte di Viktor Ullmann, cantore di Theresienstadt, si sbriciolano le estreme propaggini della cultura mitteleuropea: a un compositore per certi versi minore la Storia affida un compito gravoso. Ma proprio quel compositore, che prima di fare il suo ingresso nel campo di prigionia sembrava destinato all’oscurità in cui era sino ad allora vissuto, a Theresienstadt incontra il proprio destino: Der Kaiser von Atlantis e la Sonata n. 7 per pianoforte, fra gli altri lavori di Ullman, rappresentano e continuano a rappresentare un impressionante monito alla nostra memoria.

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