Tre Mercedes nere percorrono le strade infangate di un villaggio, fra catapecchie e rovine. Da una di esse scende un individuo sui quarant’anni, vestito in maniera non elegante ma ricercata, con una barba grigia e una faccia da lupo. Cammina claudicando leggermente e si aiuta con un bastone dal manico d’argento. Alla folla che lo circonda distribuisce abbracci e banconote e persino i vecchi, con le loro barbe bianche e i copricapi di agnellino grigio, gli mostrano la massima deferenza. È Khozh-Ahmed Nukhaev, che in patria è considerato il leader della resistenza antirussa e che nel resto del mondo è definito più sbrigativamente il capo della mafia cecena. Ma poiché l’inquietante personaggio ha accettato di farsi seguire e filmare dall’olandese Jos de Putter in un documentario, The Making Of A New Empire, mostrato in novembre a Firenze al Festival dei Popoli, conviene sentire come si presenta lui stesso. “Sono andato a Mosca per iscrivermi all’Università nel 1974 e lì ho capito che il comunismo era una mafia e andava combattuto con i suoi stessi mezzi.
E dunque ho cominciato a costruire l’esercito ceceno. All’inizio eravamo solo una decina, poi mi sono messo a combattere i capi delle altre bande, li ho vinti e si è sparsa la voce che la protezione che offrivo io era affidabile”. Naturalmente occorreva denaro per sostenere il movimento. “Molti di noi lavoravano a scaricare vagoni, ma poiché c’erano dei comunisti diventati ricchissimi alle spalle del popolo io mi sono messo a ‘scaricare’ direttamente quelli”. Così Nukhraev finisce tre volte in prigione, evade con l’aiuto dell’ex presidente ceceno Dudaev che gli fornisce documenti falsi e gli manda una macchina a prelevarlo direttamente in carcere, diventa capo della milizia cecena, viene ferito nell’assalto russo a Grozny del 1995 e certamente è ancora sulla breccia, ma chissà dove. In lui l’antica identificazione fra bandito e ribelle antizarista, quella di Pugacev e di Agi Murad, il diavolo bianco ceceno di Tolstoi (e del film che ne ha tratto Freda) trova una nuova incarnazione. E in questa funzione egli è riverito e magnificato. Un vecchio notabile con la “babacha” sul capo e un pugnale ricurvo alla cintura che sembra uscito da un ritratto dell’ottocento afferma che egli ha pubblicato “mille versi” ma nella libreria a vetri del suo studio, davanti alla quale è stesa una enorme pelle di tigre completa di testa e fauci, non c’è neanche un volume (“stanno arrivando”, dice).
Nukhraev parla poco e non scrive, ama solo disegnare: triangoli, stelle a nove punte, piramidi che simbolizzano la struttura sociale del nuovo stato ceceno che vuole costruire. Sostiene che Islam deriva dalle parole cecene “Is”, nove, e “Lam”, montagna, e immagina che il nuovo stato debba basarsi su questa configurazione. Ma per intanto, su terreni di sua proprietà, spianati nel ’95 dalle bombe russe, fa costruire secondo le stesse simbologie un grande complesso residenziale. Tramite un giovane segretario occidentale che parla inglese e risponde al cellulare tratta con petrolieri di Baku, disegna percorsi di oleodotti, discute a Istambul con un misterioso interlocutore sulla funzione strategica del Caucaso per i commerci mondiali. E va Londra, nella City, per fondare con grande ufficialità e tagli di nastri un fantomatico Mercato Comune Caucasico. Ma poi torna a casa, fra le baracche e le rovine, a raccontare alla mamma che ha incontrato la Thatcher, “l’ex regina di Inghilterra”. E a pregare con i vecchi e ballare con i suoi la Zikr, una danza rituale islamica che i sovietici avevano proibito, quando deportavano in massa la popolazione cecena in Siberia. “I ceceni sono i soli che ai tempi di Stalin hanno mantenuto la loro dignità”, ha detto una volta Solgenitsin. Ma ora questa dignità si esprime in un proverbio pericoloso, che ci pare di aver già sentito: “È meglio morire da galli che vivere da polli”. L’onore di Agi Murad è nelle mani di un lupo.
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