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Cinema

Le forme dello spazio inosservato (I)

PARTE I

Introduzione storica

CAPITOLO 1: Approccio allo studio del cinema sperimentale

1.1. — Strumenti critici

Il primo problema che si pone iniziando ad analizzare il cinema sperimentale è in quale contesto inquadrarlo e soprattutto quali strumenti critici usare per capire meglio questo tipo di cinema, apparentemente così diverso dal cinema che siamo abituati a vedere nelle sale o che viene trasmesso dalle reti televisive. Sembra di entrare in un altro universo visivo e linguistico, improvvisamente non capiamo più cosa stiamo vedendo e la prima reazione è quella di cercare nelle immagini che ci scorrono davanti un filo conduttore, una storia, o più semplicemente un segno qualsiasi da usare come chiave interpretativa. Insomma, tutto questo ci fa sentire impreparati, sprovveduti, direi addirittura disarmati. è proprio di un aiuto, di uno strumento diverso e nuovo che abbiamo bisogno, quasi fosse un’arma con la quale difenderci da una serie di immagini e messaggi che ci provocano infastidendoci e, contemporaneamente, ci sfidano a farsi “tradurre” in un linguaggio più comprensibile e più diretto. Se questo stato d’animo potesse essere espresso in due parole direi che quelle più giuste sarebbero: fastidio e curiosità.

Ecco quindi che il primo passo verso lo studio di questo “strano” materiale consiste nell’affannosa ricerca di strumenti e riferimenti che possano aiutarci in questa impresa.

Il primo riferimento che ci sembra più attendibile, e quindi più incoraggiante, è quello delle avanguardie storiche. Si riconoscono, infatti, gli stessi procedimenti, lo stesso linguaggio, il forte impatto visivo, lo sgomento e il disorientamento volutamente provocati dall’autore nello spettatore.

Dopo aver visto un certo numero di film si arriva in qualche modo a riconoscere alcune caratteristiche peculiari che li distinguono da quelle proprie del cinema convenzionale: innanzi tutto il tentativo di elaborare un nuovo linguaggio rispetto a quello diffuso, già codificato e riconoscibile; poi la ricerca di nuovi “soggetti” da filmare, che non sono più storie e che in ogni caso non rientrano nel campo della fiction o più genericamente della narrazione, tanto da essere definiti come film non narrativi. Infine la ricerca di nuove formule produttive che siano in grado di svincolare la creazione artistica in campo cinematografico da limitanti e frustranti leggi di mercato.

Questa confortante operazione di “inquadramento” dell’oggetto in esame può portare però ad una critica limitata alla sola analisi dei fenomeni culturali propri dell’autore o dell’ambiente in cui vive, quei fenomeni che hanno permesso e facilitato la nascita di queste particolari esperienze cinematografiche. Un’operazione certamente indispensabile per capire, ma rischiosa perché, dopotutto, si accontenta di attestare la provenienza culturale di queste opere senza poi soffermarsi sull’opera stessa, cioè sui suoi contenuti, sulle sue forme, sul suo significato, sul suo linguaggio.

Questa osservazione deriva da alcune riflessioni successive alla lettura di due saggi che rappresentano, a mio avviso, i due limiti opposti dei diversi modi di approccio al cinema sperimentale.

Il primo è quello di Ester de Miro La sperimentazione cinematografica tra langue e parole, e rappresenta uno dei modi meno adatti e sicuramente meno produttivi, ai fini del risultato critico, per affrontare il tema della sperimentazione cinematografica. L’autrice, infatti, tenta di impostare un discorso critico sul linguaggio adottato dagli sperimentatori, partendo dalla teorizzazione di Pasolini sulla cinelingua, e sulla contrapposizione tra langue e parole come i due estremi di riferimento per capire come collocare il particolare linguaggio del film sperimentale. Questo, da una parte rinuncia a tutte le regole della langue, cioè del linguaggio riconosciuto al cinema NRI (Narrativo — Rappresentativo — Industriale), per arrivare ad un particolare linguaggio soggettivo comprensibile solo a poche persone e che riflette l’individualità dell’autore (idioletto). Mentre d’altra parte il rifiuto delle regole di questo linguaggio ufficiale, o meglio, ufficializzato — da Metz, secondo l’autrice — avvicina il cinema sperimentale al tipo di esperienza dell’avanguardia artistica, quindi più che un rifiuto si ottiene il superamento di un linguaggio obsoleto a favore di uno nuovo: “Ma il rifiuto delle regole significa invenzione e quindi, dato il sistema binario langue/parole, arricchimento della “langue”.”

Ma, a questo punto, leggendo il saggio di Ester de Miro e avendo visto alcuni dei film sperimentali ci sorge subito un dubbio. L’autrice infatti sembra non aver considerato che una delle caratteristiche proprie di questo cinema è l’assoluta mancanza di ricerca stilistica, e dal punto di vista formale l’ostentazione di un linguaggio “sporco” e trascurato, che fa pensare piuttosto che al tentativo di creare un nuovo linguaggio, alla sua distruzione (processo artistico e poetico molto vicino in verità a quello dei surrealisti). Dico “sembra” perché, proprio nel momento in cui ci poniamo questo dubbio ecco che anche l’autrice si appresta ad affrontare l’argomento, o più precisamente a liquidarlo frettolosamente giustificando questa apparente contraddizione con l’enunciazione del presupposto teorico che sarebbe alla base del cinema sperimentale, secondo il quale non è tanto importante realizzare un bel film, quanto comunicare quello che si crede nel modo più immediato possibile (anche in questo caso per dare una valenza più autorevole alle sue dichiarazioni ricorre all’aiuto di Pasolini). Al di là del modo sbrigativo e affrettato con cui trae le sue conclusioni la cosa che più rende questa argomentazione poco valida è proprio la netta separazione tra cinema sperimentale e cinema NRI, ognuno con un suo linguaggio: la langue appartiene a quello commerciale, perché comprensibile a tutti, già usata, o meglio masticata da migliaia di film e digerita da milioni di spettatori, mente la parole appartiene al cinema sperimentale… che però a “suo modo” (qual è poi questo modo?) contribuisce alla evoluzione e al miglioramento della langue.

A differenza del saggio di Ester de Miro, quello di Alberto Farassino Tagliateci un occhio ma non tagliateci il cinema può rappresentare un modo sicuramente insolito, ma non per questo meno valido, per affrontare un discorso più produttivo sul cinema sperimentale, un discorso che aiuti il critico a parlare del cinema sperimentale non come di un fenomeno sociale, linguistico, politico, estetico ecc. ma di un fenomeno che ha portato alla creazione soprattutto di film.

Farassino in questo intervento dal taglio abbastanza polemico, non solo abbatte tutti i fattori di distinzione tra cinema sperimentale e cinema convenzionale, ma addirittura arriva ad affermare che in quei campi nei quali sembra vincitore il cinema sperimentale, cioè la sperimentazione linguistica, la creatività, la possibilità di poter comunicare senza narrare, ecc. il cinema convenzionale si dimostra molto più potente. Il cinema sperimentale esce da questo confronto sicuramente più povero, ma non per questo meno efficace nella sua funzione di comunicazione, il suo linguaggio più diretto, meno codificato, mostra in maniera più immediata il funzionamento e la struttura di certi processi di comunicazione, quindi il cinema sperimentale ci aiuta a capire anche il cinema convenzionale, o meglio tutto il cinema, perché secondo Farassino l’occhio tagliato (riferimento a Buñuel) dello spettatore e del critico, da questo cinema (sperimentale), deve essere in grado non di distinguere un tipo di cinema da un altro ma di riconoscere in ogni tipologia gli elementi unici che lo rendono appunto cinema.

Per rafforzare l’importanza di quest’ultima tesi, estremamente indicativo è l’intervento di Massimo Bacigalupo su Filmcritica nel 1971, quando, senza parafrasare il suo malcontento, si rivolge all’amico Nuccio Lodato rimproverandogli (a lui come a tutta la critica italiana del tempo — rimprovero che mi pare possa essere esteso anche a quella di “oggi”) proprio un atteggiamento critico superficiale e pigro che non si occupa minimamente dell’esame diretto di quello che dovrebbe essere il suo oggetto di studio primario, il film. Più precisamente dice:

“… partendo da un interesse che tu chiameresti “fenomenologico” ti sei dato la pena di raccogliere in una cartella (suppongo) tutti i tuoi non molti materiali volanti concernenti il cinema indipendente italiano che ti sono venuti fra le mani. Così hai la possibilità di parlare con una certa esattezza di queste cose. Ma questo non l’hai mai fatto, se non a livello informativo. E non ti sei mai deciso a passare ad un approccio diretto ai film…”

Ed ancora più aspramente:

“Preferirei che il critico anziché propormi la sua trovata più o meno intelligente (un amico mi ha confessato candidamente che anche del film più sciatto con un po’ di lavoro intellettuale (?) si può fare un capolavoro) mi raccontasse la trama del film. Una trama a livello forse ulteriore troveresti anche nei nostri film che sono fatti di immagini determinabili messe una dietro all’altra secondo un’”inchiesta” tutt’altro che generica.”

Con questo intervento oltre ad affrontare un problema specifico di critica, Bacigalupo solleva anche un problema che riguarda nell’ambito del cinema sperimentale un elemento non solo trascurato ma addirittura ignorato, quello della trama del film. Dall’operazione di caratterizzazione del cinema sperimentale e di individuazione dei suoi elementi specifici sembra capire che il film sperimentale non contenga una trama proprio per definizione, qui invece ci viene ricordato che la trama esiste, a livello forse ulteriore. Basterebbe individuare questo ulteriore livello, forse per scoprire un mondo fatto, non solo di contestazione e ricerca, ma anche di storie, e perché no, di favole.

1.2. — Strumenti teorici

In questo paragrafo cercherò di fornire un quadro orientativo sulla trattazione teorica intorno al cinema sperimentale e sui problemi non solo teorici ma anche interpretativi affrontati dalla critica.

Il problema fondamentale per chi si accinge a effettuare l’analisi di un film sperimentale è quello di tentare di applicare metodi di analisi che solitamente vengono usati per una qualsiasi opera cinematografica.

Il presupposto è quello che il film nella sua globalità debba essere smembrato per riuscire ad individuare e capire il processo artistico che ha dato vita all’opera.

Dal punto di vista teorico le definizioni dell’opera cinematografica sperimentale rispetto a quella convenzionale, sono numerose ed anche abbastanza soddisfacenti. Basterebbe pensare a Pasolini, che con la definizione di “cinema di poesia” apre un capitolo nuovo nel modo di pensare il film.

La sperimentazione nell’ambito cinematografico è stata sempre presente, fin dalle origini proprio perché deriva dalla coscienza di un linguaggio nuovo e di chi lo usa. La sperimentazione del linguaggio cinematografico è nata come costruzione del linguaggio stesso.

Parlare di cinema sperimentale in maniera globale risulta quindi un’impresa difficile, ma soprattutto poco significativa in quanto la sperimentazione, presente nei vari campi di ricerca di espressione e di comunicazione del linguaggio, assume di volta in volta caratteristiche peculiari ad ogni singola esperienza, dove un particolare può avvicinare un’esperienza ad un’altra e contemporaneamente un altro le allontana, dove la somiglianza convive con la diversità.

Questa difficoltà viene accentuata dalla tendenza alle classificazioni e alle rubricazioni di diverse esperienze sotto voci e definizioni comuni. Una tendenza che apparentemente serve a mettere ordine all’interno di una singola trattazione, ma che poi non fa altro che confondere le idee nel momento in cui si confrontano due diverse trattazioni. Ecco che l’uso di termini quali “cinema sperimentale”, “cinema d’avanguardia”, “cinema indipendente”, “cinema underground”, “cinema d’artista” si confondono e si sovrappongono.

Consideriamo La storia del cinema sperimentale di Jean Mitry, l’autore raccoglie sotto il termine di cinema sperimentale tutte le esperienze dalle origini del cinema agli anni ’70, abbracciando quindi il cinema d’avanguardia, il cinema indipendente, l’underground, il documentario, il cinema astratto, il cinema puro ecc., proprio perché la sua opera si propone di analizzare storicamente i processi e le fasi che si sono susseguiti e spesso alternati nella definizione, formazione, evoluzione del cinema sperimentale.

Mitry inizia questo percorso panoramico attraverso tutta la storia del cinema proprio dalla definizione delle “prime idee”, della primitiva sistemazione delle modalità rappresentative del mezzo cinematografico, che si identifica inizialmente, con Griffith, come mezzo di rappresentazione epico (epopea), per poi subito configurarsi nella forma rappresentativa legata alle coordinate spazio-temporali, che si possono identificare negli elementi basilari dell’azione e del ritmo.

In questa fase iniziale di ricerca, incentrata soprattutto sulla composizione dell’immagine funzionale all’azione e al ritmo, si cercano riferimenti e basi in altri campi artistici. Mentre da un lato ci si allontana dalla sfera letteraria e teatrale, la cui vicinanza è subito risultata pericolosa per l’indipendenza e la formazione autonoma del nuovo linguaggio, dall’altro si cercano spunti fecondi nella pittura, come organizzazione dello spazio, e nella musica, come organizzazione del tempo.

Orientandosi in questa direzione la sperimentazione si dirige verso le ricerche portate avanti dalle avanguardie artistiche, affiancandosi di volta in volta a tutti i movimenti, dall’espressionismo al surrealismo.

È chiaro che i film sperimentali pensati per un pubblico privilegiano l’aspetto spaziale, quello cioè della composizione dell’immagine e dello sviluppo dell’azione, piuttosto che quello temporale, dove dovevano essere predominanti gli elementi ritmici. La prima tendenza vede lo sviluppo del cinema espressionista e di quello futurista dove è molto forte l’influenza dei rispettivi movimenti artistici e dove in molti casi si cerca di seguire le perentorie indicazioni dei manifesti. La seconda tendenza sviluppa il concetto di film come “ritmo puro” (La roue di Abel Gance e l’opera di J. Epstein) liberando definitivamente l’immagine dal restrittivo ruolo di rappresentazione e quindi dalla funzione della narrazione. L’immagine diventa in questo modo astratta ed autoreferenziale.

Il cinema astratto, iniziato con le ricerche sul ritmo puro, si sviluppa in più direzioni secondo le personali ricerche dei vari autori: ad esempio Hans e Oskar Fischinger utilizzarono le forme lineari, mentre Len Lye abbandona i metodi fotografici per dipingere direttamente su pellicola, procedimento adottato con magnifici risultati anche da Norman Mc Laren. Questo tipo di ricerche erano comunque orientate verso il ritmo creato da forme astratte e che potessero essere in qualche modo accostate a brani musicali.

Ricerche più approfondite, e forse più esasperate, sono quelle orientate verso il ritmo che scaturisce esclusivamente dall’immagine, portate avanti da Germaine Dulac (Arabesque, 1928), da Ejzenštejn, dal pittore Sergej Alexander Alexéieff (Une nuit sur le Mount Chauve, 1933), e dallo stesso Jean Mitry (Pacific 231, 1949).

La scuola sovietica con la sua esperienza di stampo intellettuale, dà l’avvio a teorizzazioni come quella del “cine occhio” di Dziga Vertov e quella del montaggio “intellettuale” di Ejzenštejn.

Mitry arriva anche a parlare della scuola documentaristica come sperimentale, non tanto perché orientata verso una ricerca formale sul linguaggio cinematografico, quanto piuttosto perché “si tratta di una certo modo non convenzionale di cogliere il mondo e le cose”.

Il documentario diventa quindi opera d’arte, cioè la realtà nel momento in cui viene riferita da un poeta acquista un particolare valore lirico.

Il surrealismo, come è accaduto per le arti figurative, ha portato uno dei contributi fondamentali nella storia del cinema sperimentale, prima di tutto perché si è proposto al di sopra di ogni altro movimento d’avanguardia come momento di rottura, e inoltre perché ha contribuito alla nascita del concetto di “cinema automatico” con l’introduzione della componente onirica nella creazione artistica. Ma soprattutto perché ha ispirato tutti i movimenti di neo-avanguardia sorti oltre oceano dagli anni ’40.

Ecco che, per chi effettua questo tipo di trattazione generale del fenomeno, non si pone tanto il problema di un classificazione o definizione delle varie “tipologie” cinematografiche, cosa che invece risulta necessaria per chi deve prendere in considerazione un particolare aspetto della sperimentazione. Prendiamo ad esempio il caso del cinema d’avanguardia, dove l’elemento storico è fondamentale, ma dove, comunque, non basta fermarsi a considerare solo gli autori legati in qualche modo ai vari movimenti e ai relativi manifesti delle avanguardie storiche, ma bisogna prendere in considerazione anche l’elemento della rottura, della negazione. Al rifiuto del cinema ufficiale e delle sue leggi discorsive, proprie di un tipo di cultura più formale, si aggiunge il desiderio di comporre un codice diverso di comunicazione. Come tiene a precisare Bertetto il periodo delle avanguardie storiche individuato intorno agli anni venti resta comunque un momento molto particolare nella storia del cinema e per molti aspetti assolutamente irripetibile. In particolare l’elemento diversificante di questa esperienza è proprio quello della rottura:

“Allora la grande stagione del cinema d’avanguardia degli anni venti (e la sua preparazione negli anni dieci) rappresenta un momento di estrema radicalità assolutamente diversa dalle esperienze di cinema sperimentale o di cinema underground prodotte successivamente.”

Questa estrema radicalità è stata possibile per le contingenze epocali, “il quadro di trasformazione generale del simbolico posta in atto dall’avanguardia” che si incontra con un processo di elaborazione in atto sul linguaggio cinematografico. In questo caso Bertetto rimane ancorato alla caratterizzazione storico-epocale del fenomeno, considerandola fondante per lo stesso. Di diverso parere è Italo Moscati quando all’interno di un suo saggio sul cinema sperimentale, fa una precisazione “non soltanto semantica” sul concetto di cinema sperimentale e di avanguardia. Infatti, dicendo: “L’avanguardia non esiste se non come improvvisa irruzione ricca di futuro che interrompe il corso delle cose e provoca una rottura a volte radicale, drastica” estende il concetto di avanguardia a qualsiasi tipo di sperimentazione che contenga al suo interno questa “rottura”.

Oltre queste definizioni che seppur diverse sotto qualche aspetto, appaiono nel complesso coerenti e significative, se ne possono trovare altre che non hanno queste caratteristiche. Esemplare è quella di Vittorio Fagone che dice: “L’indicazione cinema sperimentale tocca con maggiore pertinenza alle ricerche compiute nei primi anni venti da Hans Richter e Viking Eggeling, ma anche da Marcel Duchamp, che seppero utilmente esplorare le possibilità del cinema di dinamizzare serie di immagini astratte…” Qui la divisione tra cinema sperimentale e cinema d’avanguardia risulta assolutamente arbitraria e ingiustificata, sia perché in ogni caso i due campi si sovrappongono e si comprendono e non esiste nessun elemento che possa fungere da spartiacque tra loro, sia perché viene attribuito ad ogni campo la presenza di autori in modo sbagliato: come è possibile dire che Duchamp ha fatto cinema sperimentale e non ha fatto cinema d’avanguardia o che al contrario Luis Buñuel ha fatto film che si possono definire d’avanguardia e non sperimentali?

Tutto questo per capire come non esiste ancora non solo una metodologia di analisi abbastanza valida da potersi applicare senza incorrere in gravi errori di interpretazione, ma che non c’è neanche la padronanza di un linguaggio che possa aiutarci ad un primo livello di definizione senza cadere in contraddizione e in vistosi e grossolani errori.

Se però si vuole prescindere dalle varie definizioni è chiaro che l’unico elemento caratterizzante è quello dell’alterità. Ci si può, cioè, accontentare di parlare di cinema “altro” rispetto a quello convenzionale, senza incorrere in errori o contraddizioni, coerentemente con l’opinione di Massimo Bacigalupo, il quale citando T. S. Eliot “For us, there is only the tryng. The rest is not our business” spiega:

“Essendo il tentativo, e la sua intensità l’unica cosa che realmente ci interessa (né lo spettatore sarà qui diverso dall’autore, dovendo compiere un lavoro assai simile durante la visione, procedendo appunto per ipotesi), dovranno per forza cadere numerosi termini che certa critica, mancando ancora degli strumenti adatti per affrontare questo cinema, tende spesso a rispolverare.”

CAPITOLO 2: Il panorama italiano. Influenze culturali: avanguardia letteraria, e diffusione dell’underground americano

Negli anni ’60 il cinema italiano subisce ancora in maniera evidente l’influenza del neorealismo che, tramite le felici esperienze di autori come Rossellini, Antonioni, Visconti e Fellini, riesce ad elaborare intensamente quegli elementi nascosti di una società tormentata ed in fermento. Nonostante non si assista alla nascita di una “nouvelle vague” come avviene contemporaneamente in Francia, in questi anni esordiscono molti giovani registi, tra i quali emergono per la spiccata personalità, autori come: Bernardo Bertolucci, il giovane figlio del poeta e critico Attilio Bertolucci, che nel 1962 vince un premio per la migliore opera prima a Venezia con La Comare Secca; i fratelli Taviani e Valentino Orsini che lavorano insieme con i primi due lungometraggi Un uomo da bruciare e I fuorilegge del matrimonio (1963) per poi separarsi dalla seconda metà degli anni ’60; Marco Ferreri con il suo esordio italiano del 1963 Una storia moderna: l’ape regina; Vittorio De Seta che vince il premio per l’opera prima a Venezia nel 1961 con Banditi a Orgosolo; Marco Bellocchio che nel 1965 raggiunge uno strepitoso successo internazionale con I pugni in tasca; ma soprattutto Pier Paolo Pasolini che presenta alla Mostra di Venezia del 1961 il suo primo film Accattone.

Nonostante la nascita di queste personalità artistiche fortemente innovative il cinema italiano negli anni ’60 comincia a manifestare segni di crisi, attraverso soprattutto lo sviluppo sempre in aumento di filoni di interesse più popolare, come gli spaghetti western, i “pepla”, i film sexy, ma anche per il fatto che, nonostante lo spazio che trovano in questi anni i giovani autori, il cinema italiano resta comunque legato alle convenzioni narrative classiche ereditate dal cinema neorealista. Tutti i possibili cambiamenti avvengono quindi all’interno di un “sistema” artistico e produttivo preesistente e già da tempo collaudato.

Il cinema sperimentale in Italia rimane comunque un fenomeno di limitata diffusione e soprattutto incapace di rompere quelle strutture che si propone di combattere. La sua nascita e il suo sviluppo avvengono a partire dalla seconda metà degli anni ’60, grazie alla confluenza di tre diversi fattori: l’influenza delle teorie letterarie del Gruppo 63; la diffusione del cinema underground americano; il cinema d’artista, cioè il frutto delle esperienze di artisti italiani che, spesso in seguito ai loro viaggi negli Stati Uniti, attingono direttamente dalla cultura americana nuovi stimoli e idee e trovano nel cinema un mezzo che potrebbe esprimere questa nuova esigenza creativa. Ed è proprio dall’analisi di questi tre fattori che si deve partire per comprendere meglio il fenomeno della diffusione del cinema sperimentale in Italia negli anni ‘60.

2.1. — Il Gruppo 63

Il problema del rapporto tra l’autore e la realtà, che ha interessato anche direttamente alcuni dei registi del cinema sperimentale italiano come Anna Lajolo e Guido Lombardi, è anche il nodo centrale di tutto il dibattito che si è creato dagli anni ’50 ai primi anni ’60 intorno ai movimenti di neo avanguardia nell’ambiente culturale italiano.

Dopo la crisi dei valori culturali e politici scaturiti dalla Resistenza, in particolare la crisi della cultura di sinistra e del neorealismo che oramai non basta più a soddisfare le aspettative del pubblico degli intellettuali, c’è l’esigenza di cercare nuove strade, sia dal punto di vista del linguaggio, sia dal punto di vista di un nuovo atteggiamento nei confronti della realtà. Una realtà che per l’uomo dell’epoca, e non solo per l’intellettuale, era fonte di grosso disagio, in quanto conteneva in sé tutte le contraddizioni che aveva portato il grande sviluppo economico del secondo dopoguerra.

L’aprirsi alle culture europee portò ad una diffusa esigenza di sperimentalismo, grazie all’influenza della cultura francese, prima con l’esistenzialismo di Sartre e Camus, poi con lo strutturalismo e soprattutto con il “Nouveau Roman” teorizzato e diffuso da Alain Robbe-Grillet e da Michel Butor.

Sostanzialmente queste nuove tendenze portarono all’esclusione dell’uomo come figura centrale nella creazione poetica, perseguendo quella che potrebbe essere definita una poetica dell’oggetto, una poetica della realtà esterna, delle “cose” materiali e concrete, a cui l’uomo partecipa solo con lo sguardo, come spettatore, ma anche come autore di una serie di connessioni visive.

L’uomo non è più oggetto della creazione poetica ma si identifica con l’autore, con la sua visione soggettiva. Da qui tutta la problematica derivante dalle relazioni tra oggetto e soggetto e tra punto di vista oggettivo e soggettivo.

Una risposta a queste nuove esigenze fu la costituzione di un vero e proprio gruppo d’avanguardia, il Gruppo 63, ad opera di autori e critici quali: Renato Barilli, Angelo Guglielmi, Elio Pagliarani, Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti.

All’interno del dibattito teorico creato e animato dal gruppo sono le teorie sul romanzo sperimentale che risultano più interessanti, proprio perché il rapporto tra il cinema sperimentale (vedi capitolo terzo della parte seconda su Guido Lombardi e Anna Lajolo) e la letteratura d’avanguardia degli anni ’60 si fa più stretto proprio quando si parla del romanzo e della narrazione, piuttosto che della poesia. è il romanzo che permette all’autore un atteggiamento di ricerca e di narrazione della realtà. Questo è proprio lo stesso atteggiamento che ritroviamo negli autori del cinema sperimentale, nelle loro opere, infatti, l’attenzione è rivolta alla realtà, ad approfondire la conoscenza e i meccanismi che regolano i rapporti sociali, a penetrare soprattutto quelle situazioni che rimangono nascoste, che non sono oggetto della comunicazione diffusa dai mass-media istituzionali.

Parlando del romanzo, Renato Barilli arriva a definire le caratteristiche di un “nuovo romanzo” che dai primi anni del secolo riflette una nuova visione del mondo e dell’uomo che diventano protagonisti della creazione letteraria nella loro condizione “normale” e “bassa”. L’uomo che pone i problemi e le angosce del vivere non è più un eroe dal grande animo, ma è l’uomo normale nel quale tutti ci riconosciamo, e le cui problematiche esistenziali sono quelle delle cose materiali e dei comportamenti concreti. Queste tematiche portano anche al ricorso a situazione e personaggi bassi e all’uso di un linguaggio basso. Tutto questo è molto lontano da un atteggiamento di tipo naturalistico che si impegna ad una registrazione fedele di una situazione di personaggi che usano il linguaggio parlato di tutti i giorni, ma cerca di andare oltre questa fedele registrazione, di arrivare alla registrazione “degli stati affettivi e degli eventi esistenziali, compresi quelli informi e mal definiti che sfuggono di solito ad una traduzione di linguaggio verbale”. Questo tipo di narrativa arriva quindi a privilegiare il quotidiano e il banale attraverso il concetto di epifania: dare un valore ad un oggetto legato solo ed esclusivamente al fatto che esso esiste. è l’esistenza dell’oggetto che spinge l’uomo ad avvicinarsi ad esso e a farne parte. Proprio in questo modo otteniamo l’identificazione fra oggetto e soggetto come movimento di avvicinamento del secondo verso il primo per l’affermazione della propria esistenza.

L’espressione di questo nuovo atteggiamento è l’elogio dell’azione intesa non in senso classico, ma come puro movimento privo di uno scopo concreto, la cui importanza risiede nella sua qualità dinamica, nella potenza del gesto, nella ritmicità del movimento.

Sempre all’interno del dibattito sul romanzo sperimentale Angelo Guglielmi ribadisce l’importanza dell’atteggiamento speculativo, dove la maggiore possibilità di rapporti e connessioni del reale, offre molteplici opportunità di conoscenza. La poetica dello sguardo è proprio la possibilità di registrare la realtà senza filtri di carattere ideologico e sentimentale e di approfondire una conoscenza quanto mai molteplice e complessa nella sua rete di connessioni e comunicazioni.

Da qui la definizione di “letteratura di grado zero”, che apparentemente potrebbe sembrare il riferimento ad una letteratura priva di significato, ma in realtà parla della letteratura priva di ideologia, quell’ideologia che costringe a dare univocità ai significati La mancanza di ideologia quindi produce una letteratura problematica che propone la realtà come molteplicità di significati e di relazioni.

Approfondendo il discorso sull’ideologia Guglielmi in Avanguardia e sperimentalismo chiarisce il duplice atteggiamento dello scrittore d’avanguardia nei confronti dell’ideologia. Da una parte il riconoscimento che l’ideologia è in grado di offrire una interpretazione esauriente della realtà porta al rifiuto della ideologia, come abbiamo già visto, in favore di un’arte che si accontenta di ritrovare la realtà, “di tenerla a vista” e di offrire una visione più ampia e multiforme possibile. Da qui la definizione:

“che l’arte di oggi è un’arte di ricerca. L’oggetto della ricerca è la realtà. Abbiamo visto che l’arte se riesce nei suoi scopi e ritrova la realtà non la ritrova e non la può ritrovare che allo stato brado, al grado zero come materia fisica. E una volta trovatala il suo compito è finito. Scoperto il nascondiglio non può andare al di là.”

E l’ideologia viene rifiutata come strumento di conoscenza della realtà, essa viene utilizzata come strumento di indirizzo nella vita sociale, come “galateo del vivere sociale.”

2.2. — Underground Americano

Una breve panoramica sullo sviluppo del cinema underground americano è essenziale per capire soprattutto come gli artisti e gli autori di film sperimentali americani siano stati influenzati dalle avanguardie europee degli anni ’20, e come questa ispirazione si sia trasformata in una espressione poetica originale in quanto si fonde con la cultura “molto” americana della beat generation e del jazz in un primo momento, e successivamente viene “rinvigorita” dall’influenza della pop art, grazie all’attività innovatrice di Andy Warhol.

L’underground americano, che si costituisce nel movimento che prende il nome di New American Cinema, arriva in Europa carico di una potenza sovversiva che non riguarda solamente il linguaggio e i modi dell’espressione, ma si fa portavoce di una rivoluzione molto più vicina alla realtà, all’uomo, una rivoluzione poetica più che linguistica. La poesia fa parte della vita dell’uomo e del poeta, ne condiziona interamente lo stile di vita. Questo essere sociale della poesia non ha niente a che vedere con la politica, perché nel movimento beat non c’è niente di politico, è sociale perché appartiene all’uomo e alla sua realtà, una realtà che non conosce ideologie e movimenti, come dice Fernanda Pivano:

“Non esiste futuro, non esiste passato nel caos del suo mondo; esiste solo uno strano, istantaneo presente, inesplicabile e nemico, che solo la liberazione dalle dimensioni dello spazio e del tempo può far provvisoriamente superare. Gli elementi per superarle sono soprattutto fisiologici (come l’orgasmo) o mistici (come le visioni) o passionali (come il jazz) o artificiali (come la droga); ma solo da questo superamento può derivare una realtà poetica insieme a una realtà di vita.”

È proprio quest’incontro con la cultura beat che, grazie a quella che potremmo definire la poetica della visione, nel cinema sviluppa una tendenza ad uscire fuori dagli schemi commerciali e a trovare degli spazi propri per esprimere il massimo della libertà. Questo non avverrà solo in America, ma sarà un’esigenza che coinvolgerà molte cinematografie europee e, come vedremo, anche quella italiana.

L’influenza dei movimenti di avanguardia europei in America consiste soprattutto nella rottura del concetto classico di narrazione e nel rifiuto ad un approccio naturalistico nei confronti della realtà, grazie alla diffusione dei film dell’espressionismo tedesco e dell’avanguardia sovietica, specialmente i film e le teorie di Dziga Vertov.

Direttamente all’espressionismo tedesco si ispirano Robert Florey e Slavko Vorkapich con The Life and Death of 9413 — A Hollywood Extra (1927), e James Watson con The Fall of the House of Usher, invece King Vidor con The Spy (1931) si ricollega al realismo russo.

Lo sviluppo dell’avanguardia è incoraggiato anche dall’espansione del cinema amatoriale e quindi della possibilità di realizzare produzioni a basso costo. Il primo film d’avanguardia prodotto negli Stati Uniti è Manhatta (1921) di Paul Strand e Charles Sheeler, che verrà utilizzato come fondale per lo spettacolo teatrale The Sidewalks of New York di Robert Flaherty, e che inaugura tutta una serie di documentari sulle città, i “city films”, nei quali emerge la particolarità della prima avanguardia americana rispetto a quella europea, cioè:

“un romanticismo tipicamente americano, che si esprime nel desiderio di riunificazione dell’uomo con la natura, ispira il modo in cui la prima avanguardia visualizza l’ambiente naturale e l’espansione urbana. Questo tipo di romanticismo era del tutto assente nei suoi predecessori europei. Nei film europei la natura è vista al massimo come un’astrazione…”

In questi film viene proposta una visione poetica della città, ne ricordiamo i più significativi: A Bronx Morning (1931) di J. Leyda, City of Contrasts di I. Browninig (1931), City Symphony (1930) e Autumn Fire (1933) di Herman Weinberg, Footnote to Fact (1934) di L. Jacobs, i film di F. Burkhardt Seeing the Word — Part One: A Visit to New York (1936) e The Pursuit of Happines (1940). La natura come “metafora visuale per esprimere la soggettività umana” è la protagonista di film d’avanguardia come H2O e Surf and Seaweed (1930) di Ralph Steiner, Portrait of a Young Man di Henward Rodakiewicz, Moods of the Sea (1942) di Slavko Vorkapich e John Hoffman.

A questo filone documentaristico si affianca quello più astratto, direttamente debitore delle esperienze nel genere del cinema tedesco. Bisogna ricordare che nel 1936 Oskar Fischinger ottiene un contratto con la Paramount e si trasferisce ad Hollywood dove, dopo alcuni tentativi di avvicinarsi alle produzioni hollywoodiane, preferisce continuare i suoi studi sul rapporto tra le immagini, il colore e la musica, entrando in contatto con personalità come Maya Deren, Kenneth Anger e John Cage.

Artisti che sperimentarono nel campo dell’astrazione per poi passare all’animazione furono lo scenografo W. Newcombe che realizzò il primo film sperimentale americano animato The Eternal City nel 1922, Mary Ellen Bute, assertrice della possibilità di affiancare le immagini astratte alla musica, e che realizzò, tra gli altri, Synchromy n. 2 (1935), Escape (1937) e, in collaborazione con Norman McLaren Spook Sport (1939). Inoltre bisogna ricordare, sempre per quanto riguarda l’animazione, Douglas Crockewell, Francis Lee, Dwinell Grant, mentre per le interazioni tra cinema d’avanguardia e danza il film Danse Macabre (1922) di D. Murphey, Hände-Hands (1927) di Stella Simon, e Sara Arledge con il suo film Introspection (1941).

Ma la vera evoluzione che ha questo genere in America è dopo la seconda guerra mondiale, grazie alla diffusione dei film di Jean Cocteau che, soprattutto con Le sang d’un poète, porta avanti il suo originale discorso sulla creazione poetica che può essere visto come un compromesso tra le tematiche proprie del surrealismo, come quella del sogno e dell’opera onirica, e un rifiuto di alcuni dei suoi aspetti più vincolanti, specialmente quelli legati alla creazione poetica, alla funzione del poeta e al suo rapporto con l’opera d’arte.

Il fenomeno della migrazione di artisti dell’avanguardia europea in America contribuisce in maniera determinante all’evoluzione del cinema sperimentale americano. New York e Los Angeles accolsero Hans Richter, Oskar Fischinger, Man Ray, Marcel Duchamp, Anaïs Nin, Alexander Hammid, Fernand Léger, Luis Buñuel e Salvador Dalì.

In particolare Hans Richter, che si trova a New York proprio negli anni della seconda guerra mondiale, realizzò il film che diverrà un punto di riferimento obbligatorio per l’avanguardia americana, Dreams that Money Can Buy. La realizzazione di questo film, iniziato nel 1946, durò due anni e fu possibile grazie al finanziamento di Peggy Guggenheim e Kenneth Mc Pherson e alla collaborazione degli autori che vi parteciparono. Fu presentato alla VIII Mostra del cinema di Venezia nel 1947, dove ottenne un riconoscimento internazionale. Il protagonista del film è un poeta/artista che ha il dono di realizzare i sogni, e vendendoli dà a tutti la possibilità di vedere tramutato in realtà il proprio sogno, basta inserire una moneta in un organetto e, accompagnato dalla musica ogni volta diversa, ha inizio il sogno. Il film è composto da episodi, i sogni, ognuno dei quali è scritto da un artista ed accompagnato da un brano musicale diverso:

1) Desire di Max Ernst, che rappresenta un’immagine dello stesso Ernst raffigurante un uomo che cerca di avvicinarsi a una ragazza addormentata dalla quale lo dividono delle sbarre. Musica di Paul Bowles.

2) The Girl with the Prefabricated Hearth di Fernand Léger è una specie di balletto meccanico che vede come protagonisti i manichini vestiti in abito nuziale di un emporio di New York. Musica di John Latouche

3) Ruth, Roses and Revolvers di Man Ray, nel quale prende vita una satira del cinema con scambio di parti tra pubblico e attori dello schermo. Musica di Darius Milhaud.

4) Discs di Marcel Duchamp, il quale mise in scena i suoi famosi “Rotoriliefs”, dei cerchi disegnati a due dimensioni, che montati su una tavola rotante davano un effetto tridimensionale e ipnotico. Musica di John Cage.

5) Ballet di Alexander Calder. Musica di Paul Bowles.

6) Circus di Alexander Calder, i due episodi sono realizzati come animazioni delle figure geometriche di Calder i “Mobiles”, uno dei due sostituì all’ultimo momento l’episodio che si sarebbe dovuto realizzare con Chagall. Musica di David Diamond.

7) Narcissus di Hans Richter, qui l’unico attore protagonista del film, Jack Bittner, interpreta il ruolo di Narciso un uomo che scopre di essere diverso da come immaginava e inizia quindi un viaggio fantastico alla scoperta di questa nuova identità. Musica di Louis Applebaum.

Questo film racchiude tutta la poetica surrealista del sogno e dell’esplorazione dell’inconscio e insieme a Le sang d’un poète segna lo sviluppo del “cinema ipnotico”, come viene definito da P. Adams Sitney, che negli anni ’40 si avvarrà delle personalità artistiche di Maya Deren, Kennet Anger, Curtis Harrington, Marie Menken, Gregory Markopoulos e Stan Brakhage.

Maya Deren con Meshes of the Afternoon (1943) recupera direttamente tutte le suggestioni simboliche del viaggio nell’inconscio di Le sang d’un poète di Cocteau, mentre nelle opere successive si dedicherà maggiormente all’aspetto formale del film, specie il movimento spazio-temporale. Dallo studio sulle leggi che regolano il movimento nella realtà di At Land (1944), passerà a vere e proprie celebrazioni del movimento come in A Study in Choreography for Camera (1945), dove il movimento del ballerino si integra con i mutamenti dello spazio circostante, o in Ritual in Transfigured Time (1946), dove la coreografia non è quella riprodotta da movimenti di danza, ma da movimenti naturali composti cinematograficamente come fossero una danza. L’importanza di Maya Deren non risiede solo nei suoi film, ma anche nella sua attività di divulgatrice e di teorica (An Anagram of Ideas on Art, Form and Film) di un cinema d’avanguardia, dove la ricerca e la sperimentazione hanno un valore insieme etico ed estetico.

Sempre di matrice cocteauiana sono i film di Willard Maas, mentre Marie Menken esprime nei suoi lavori una maggiore sensibilità per l’astrazione, o più esattamente per i movimenti della natura e degli oggetti.

Gregory Markopoulos, pur esibendo un atteggiamento di aristocratico distacco e mantenendo come punto di riferimento le sue origini greche, è stato sempre molto attivo nel panorama dell’underground americano, sia nella produzione artistica sia nel cercare una soluzione organizzativa, che come vedremo troverà una sua forma nel New American Cinema Group. Markopoulos nei suoi film ha cercato di conciliare i contenuti ispirati all’ideale di bellezza e di arte classica, con riferimenti costanti a figure mitologiche appartenenti alla Grecia antica (come la trilogia del 1948 composta dai film Psyche, Lysis e Charmides), e una ricerca formale basata soprattutto sul ritmo del montaggio. Questa ambivalenza trova la sua più compiuta espressione nel film Twice a man (1963), nel quale la storia, ispirata alle vicende di Ippolito e del suo amore incestuoso per la madre, è tutta giocata sul tema del doppio, che viene elaborato anche stilisticamente tramite lo sdoppiamento delle immagini e sperimentando un montaggio capace di restituire continuità allo smembramento dei singoli fotogrammi.

La trasgressione, insieme alle capacità artistiche fanno di Kenneth Anger uno dei maggiori rappresentanti del cinema sperimentale. Nei film Fireworks (1947), Inauguration of the Pleasure Dome (1954), Scorpio Rising (1963), Kustom Kar Kommandos (1964) e Lucifer Rising (1973) le tematiche omosessuali esplodono con una violenza espressiva unica, mai vista prima, e il suo atteggiamento di contestazione nei confronti del sistema hollywoodiano è insolito perché egli mina il sistema dall’interno. Bisogna tenere presente che Kenneth Anger, essendo figlio di artisti, ha convissuto fin da piccolo con questo ambiente, ed oltre ai film sintomatico di questo atteggiamento di amore-odio è il libro in due parti Hollywood Babilonia, nel quale passa in rassegna tutti i divi e le dive di Hollywood, dal periodo del muto agli anni ’70, quindi dalle dive come Theda Bara e Lillian e Dorothy Gish, fino a Ronald Reagan, definito “il cowboy dell’apocalisse”, più di cinquanta ritratti irriverenti che, senza alcuna esitazione da parte dell’autore, mettono a nudo fatti e misfatti di un ambiente che, sotto l’apparenza dorata del mito, nasconde tutti i vizi umani, talvolta piccoli e ridicoli, ma in altri casi turpi e perversi.

Stan Brakhage è l’autore che forse ha influenzato più direttamente alcuni registi di film sperimentali italiani, come si avrà modo di approfondire in seguito. La sua vastissima produzione artistica contiene sia gli studi e le sperimentazioni sulle immagini, dove appare evidente una spiccata sensibilità per i giochi di luci e ombre che può creare la cinepresa (Anticipation of the Night, 1958; Dog Star Man, 1961-64; The Art of Vision, 1961-65, Songs, dal 1964), sia l’abbandono a momenti più poetici dove la realtà dell’autore, la sua vita, anche quella più intima, diviene protagonista dei film (Loving 1958, Window Water Baby Moving 1959).

È proprio con l’opera di Stan Brakhage che il cinema sperimentale americano si distacca dalle suggestioni del surrealismo, dello psicologismo per avvicinarsi alle possibilità proprie del mezzo cinematografico.

Assistiamo quindi, in tutto il territorio degli Stati Uniti, all’accrescersi di esperienze diverse nel campo della sperimentazione cinematografica: nella East Coast, che aveva in New York il nucleo che idealmente, e geograficamente, si contrapponeva ad Hollywood, e nella West Coast, che aveva già visto la nascita, proprio in seno ad Hollywood, di una personalità artistica così originale come Kenneth Anger, e che ora vede operare a Los Angeles Curtis Harrington e a San Francisco Sidney Peterson, James Broughton, i fratelli Whitney, Harry Smith, Jordan Belson, Larry Jordan.

Intanto a New York l’artista Andy Warhol scopre il cinema come mezzo di espressione adatto alle sue esigenze, e dà il via ad una intensa attività, che tra il 1963 e il 1968 lo porterà a realizzare più di sessanta film. In questo modo il cinema underground si arricchisce dello spirito della pop art, e se già subiva una atrofizzazione nelle forme e nei contenuti, ora raggiunge delle forme ancora più estreme.

Nella prima fase del cinema di Andy Warhol, quella del muto, le azioni, i gesti diventano oggetto di rappresentazione, come nei film Kiss, Haircut, Eat, Henry Geldzahler; ma le inquadrature fisse, la presenza pesante della macchina da presa, tradiscono l’intenzione di mettere in scena proprio il cinema nel suo farsi, l’azione del filmare.

In un secondo periodo, dal 1965, i suoi film diventano sonori e vanno a formare una sorta di carosello hollywoodiano, dove con le parodie di divi famosi oppure con le rivisitazioni dei generi cinematografici (ad esempio il western Lonesome Cowboys), propone una sua galleria di star all’insegna della trasgressione e della sconvenienza, ricrea una sua mitologia questa volta genuinamente americana.

In questo modo Andy Warhol trasferisce sul cinema quello stesso meccanismo che la pop art aveva già sperimentato sulla realtà: l’artista che ripropone le immagini del reale, della cultura di massa, non fa altro che trasformarle in simboli e miti, e le traspone in opere d’arte.

Anche grazie all’attività di Andy Warhol, l’underground americano si scinde in due tendenze stilistiche: quella documentaristica e narrativa e il cinema formalista. La prima vede gli autori più interessati alle situazioni e ai personaggi reali, magari rappresentati con toni lirici o con accenti più violenti e trasgressivi, tra i quali ricordiamo Ron Rice, Ken Jacobs e Jack Smith. Tra gli artisti che invece sono attratti principalmente dall’aspetto formale del mezzo cinematografico, bisogna annoverare Michael Snow, George Landrow, Paul Sharits, Hollis Frampton, Ken Jacobs, Peter Kubelka, Stan Lawder, Joyce Wieland, Ernie Gehr e David Rimmer; la maggior parte di essi opera a New York.

Nel cinema formalista tutta l’attenzione dell’artista è concentrata sull’elemento cinematografico, sul linguaggio e per questo spesso l’oggetto visibile, l’argomento del film, viene ridotto ad una immagine decontestualizzata, e quindi priva di significato. L’esperienza umana non ha più alcun valore e il film rappresenta esclusivamente il suo farsi, il fare cinema. L’esempio più famoso e più significativo di questo genere è Wavelength di Michael Snow (1967), che consiste in una lunga zoomata di 45’, che inizia con l’inquadratura di una stanza, dalle cui finestre sullo sfondo si vede il movimento del traffico nelle strade, e si ferma sul dettaglio di un quadro, appeso sul muro tra due finestre.

L’elemento di visionarietà di questo cinema e l’assoluta importanza data al mezzo tecnologico porteranno alla nascita di quello che è definito Expanded Cinema, teorizzato da Gene Youngblood nel 1970, dove la tecnologia è vista come un prolungamento delle capacità di comunicazione e di percezione della mente umana.

L’underground americano arriva in Italia già nel giugno-luglio 1961 al Festival dei Due Mondi di Spoleto con un programma presentato da David Stone che comprendeva film di Hill, Mekas, Drasin, Frank, Harrington, Rise, Broughton, Brakhage, Breer, Markopoulos, VanDerBeek, Rogosin. Questo venne riproposto da P. Adams Sitney nel giugno-luglio 1964 alla terza Mostra Internazionale del Cinema Libero di Porretta Terme, in una rassegna notturna (iniziava a mezzanotte e si prolungava fino all’alba). Una cronaca di questo avvenimento ci viene fornita da Alfredo Leonardi che pubblica sulla rivista Il Marcatré le sue impressioni sul gruppo dei registi americani e sulla “straordinariamente emblematica” persona fisica e morale di P. Adams Sitney “che si direbbe d’acchito fragile e snob, e si scopre poi febbrilmente intransigente cosicché gli eventuali dubbi residui si trasformano nel dovuto rispetto per una persona che le proprie idee le paga di persona.” E comunque riferisce di “un tipo di cinema che sorprende immediatamente per la straordinaria libertà creativa comune a tutti i film presentati, indipendentemente dal loro valore artistico specifico […] la lezione che se ne trae è che gli spazi aperti ad ogni regista sono infiniti e in gran parte inesplorati e che dipende solo da lui l’attuazione di nuove, impreviste esperienze visive.”

Leonardi ci riferisce dei film di Ron Rice (Chumlum), di Stan Brakhage (il preludio e la prima parte di Dog Star Man), di Gregory J. Markopoulos (Twice a Man), di Bruce Conner (A Movie), di Robert Breer (Blases, Breathing e Eyewash), e del bellissimo Scorpio Rising di Kenneth Anger vincitore del festival. Sempre Anger sarà presente nel 1966 alla quarta edizione del Cinema Libero di Porretta Terme con una rassegna personale che comprende i film: Fireworks, Eaux d’Artifice, Scorpio Rising e Inauguration of Pleasure Dome.

Sempre nel 1966 vengono nuovamente organizzate delle proiezioni di film sperimentali a Spoleto, nell’ambito del Festival dei Due Mondi. Alfredo Leonardi riferisce dei film: Mothlight di Stan Brakhage, Match-Gilr di Andrew Meyer, Nothing Appened this Morning di David Bienstock, Pop-Show di Fred Mogubgub; Enter Hamlet di Maurice Evans.

Nel 1967 Jonas Mekas arriva in Italia, dove presenta una rassegna del New American Cinema al Festival di Torino dal 13 al 21 maggio. Dal 27 maggio al 4 giugno 1967, è invece a Pesaro, in occasione della terza Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, con quattro programmi: 1) 27 maggio: Dog Star Man e The Art of Vision di Stan Brakhage; 2) 30 maggio: Trough a Lons Brightly: Mark Turbgfill e Himself as Herself di Gregory J. Markopoulos; Unsere Afriareise di Peter Kubelka; Wrestling di Marie Menken; Skullduggery di Stan VanDerBeek; Senseless di Ron Rice; Early Abstractions di Harry Smith; Bardo Follies di George Landow; 3) 31 maggio: Melting di Tom Andersen; Tung e Castro Street di Bruce Baille; Winter 64-66 di David Brooks; Peyote queen di Storm de Hirsch; Fluxus Anthology del Fluxus Group; First Fight e 66 di Robert Breer; Duo Concertantes di Larry Jordan; Fat Feet di Red Grooms; Time of the Locust di Peter Gessner; Match Girl di Andrew Meyer; The Circus Notebook e New York Diaries di Jonas Mekas; 4) 1 giugno: Oh dem Watermelons di Robert Nelson; Vivian¸ Cosmic Ray, A Movie, Breakaway, Looking for mushrooms di Bruce Conner; The Devil is Dead, Detonation, Overflow, di Carl Linder; Piece for Twwo Projectors di John Cavanaugh; Up Tight, L.A. is burning… shit di Ben Van Meter; Relativity di Ed Emshwiller.

Il New American Cinema approderà a Roma per la prima volta solo nell’ottobre 1969, grazie ad una rassegna organizzata dal Filmstudio 70 che presenta una selezione di film rappresentativa sia della tendenza di cineasti più vicini al beat, sia di quella più vicina agli ideali della contestazione. Questa selezione si articola in cinque programmi: 1) 6 ottobre e 21 ottobre: Firewors e Kustom Kar Kommandos di Kenneth Anger; How old is the water di Ron Finne; Janglefex di Bob Cowan; Oh Dem Watermelons di Robert Nelson; Catro Steet e Tung di Bruce Baillie; Shaman, a Tapestry for Sorcerers di Storm de Hirsh. 2) 7 ottobre e 22 ottobre: Senseless e Chumlum di Ron Rice; Peaches e Si See Sunni di Charles Levine; Panels di Stan Vanderbeek. 3) 8 ottobre e 23 ottobre: Eurpean Diaries di Taylor Mead; Time of the Locust di Peter Gessner; Skullduggery di Stan Vanderbeek; A Dance Party in the Kingdom of Lilliput di Takahiko Iimura. 4) 9 ottobre e 24 ottobre: The Wandering, Blue Moses e Sirius Remembered di Stan Brakhage; Mothlight e Siva di Jud Yalkut; Bardo Folies di George Landow. 5) 14 ottobre: Echoes of Silence di Peter E. Goldman; Alla ricerca del miracoloso di Gerard Malanga.

L’underground americano arriverà in Italia con la sua caratteristica di novità non solamente estetica ma anche produttiva e organizzativa. Il pubblico italiano non si trova davanti solo degli autori originali con film stupefacenti, ma la cosa che più colpisce è che tutto questo è organizzato in un gruppo, che ha una sua connotazione artistica e che si pone come un’alternativa al cinema commerciale con dei canali distributivi propri e con delle formule di produzione alternative.

Il New American Cinema Group è stato fondato il 28 settembre 1960 su iniziativa di Jonas Mekas e di Lewis Allen, produttore cinematografico e teatrale, durante un incontro al quale hanno partecipato, oltre ai promotori, i maggiori esponenti del cinema underground: Lionel Rogosin, Peter Bogdanovich, Robert Frank, Alfred Leslie, Edouard De Laurot, Ben Carruthers, Argus Speare Juilliard, Adolfas Mekas, Emile De Antonio, Shirley Clarke, Gregory Markopoulos, Daniel Talbot, Guy Thomajan, Louise Brigante, Harold Humes, Bert Stern, Don Gillin, Walter Gutman, Jack Perlman, David C. Stone, Sheldon Rochlin, Edward Bland.

Il gruppo nasce da un’esigenza organizzativa, dalla volontà di unire forze diverse e spontanee in un movimento che si ponesse come obiettivo quello di rinnovare il cinema combattendo la stanchezza e staticità del cinema ufficiale, per sostenerne uno più vitale, che fosse al servizio dell’uomo e non del commercio e dell’industria. Gli obiettivi prefissati possono essere così individuati: il cinema come espressione umana non deve essere influenzato da elementi estranei al processo creativo dell’autore, il film, come una poesia, è solo dell’autore; il rifiuto della censura; la creazione di una libera industria cinematografica basata su nuovi sistemi di finanziamento; incoraggiare le produzioni a basso costo; opposizione alla politica vigente della produzione e della distribuzione costituendo un proprio centro di distribuzione; istituzione di un festival cinematografico della East Cost; elaborazioni di nuovi accordi sindacali compatibili con le produzioni indipendenti; istituzione di un fondo destinato a sostenere la produzione di alcuni film.

L’impegno di Jonas Mekas nella diffusione del cinema indipendente e nella sua organizzazione si era già manifestato nel 1955 con la fondazione della rivista Film Culture che divenne il principale strumento di informazione e diffusione su ogni forma di cinema indipendente. La rivista istituì l’Indipendent Film Award”allo scopo di segnalare contributi americani originali al cinema”. Furono premiati: Shadows di John Cassavetes nel 1959, Pull My Daisy di Robert Frank e Alfred Leslie nel 1960, Primary di Ricky Leacock, Don Pennebaker, Robert Drew e Al Maysles nel 1961, The Dead e Prelude di Stan Brackhage nel 1962, Flaming Creatures di Jack Smith nel 1963; Sleep, Haircut, Eat, Kiss e Empire di Andy Warhol nel 1964; il lavoro creativo di Harry Smith nel 1965; Gregory Markopoulos nel 1966; Wavelength di Michael Snow nel 1968; Kenneth Anger e in particolare il film Invocation of My Demen Brother nel 1969; Robert Breer nel 1973; James Broughton nel 1975.

Il programma esposto dal New American Cinema Group avrà un importante momento di realizzazione quando nel 1962 Jonas Mekas fonderà la Film-makers’ Cooperative, istituendo così un nuovo metodo di distribuzione basato sulla uguaglianza delle possibilità che ogni film ha di essere visto nelle sale: la Cooperative si impegna infatti a distribuire tutti i film che le vengono affidati dai soci, almeno una volta, senza discriminazioni sul valore intrinseco dell’opera. Ogni film ha le stesse possibilità di essere visto e giudicato da un pubblico, il successo decreterà direttamente la maggiore circolazione del film. è il cineasta a stabilire il prezzo del noleggio e riceve dalla Cooperative il 75% del ricavo.

La struttura distributiva è supportata dalla nascita di sale cinematografiche dedicate esclusivamente alle proiezioni di film indipendenti, la più importante di queste sale è la Film-makers’ Cinematheque di New York, che si trovò più volte costretta a cambiare la sede.

Nel 1969 Jonas Mekas e Jerome Hill programmarono la creazione di due sale la Cinematheque I e II, la prima destinata alla proiezione di nuovi film, mentre la seconda destinata a divenire la sede di un archivio permanente, per il quale un comitato composto da Jonas Mekas, Peter Kubelka, Stan Brackhage, Ken Kelman e P. Adam Sitney avrebbe avuto il difficile compito di selezionare i film. La selezione comprende soprattutto film del cinema indipendente, ma in alcuni casi anche film commerciali, come eccezioni, nel caso i principi artistici di queste opere siano evidenti nonostante le influenze del commercio e dell’industria.

Questo progetto comprendeva anche la realizzazione dell’Invisible Cinema una sala ideata da Peter Kubelka dove tutti gli elementi erano di colore nero, la forma e la posizione delle poltrone garantivano la massima visibilità per ogni spettatore, mentre dei pannelli posti tra un posto e l’altro favorivano la massima concentrazione dello spettatore.

Questo museo del cinema prese il nome di Anthology Film Archives ed inaugurò le proiezioni il 1° dicembre 1970, ma troverà la sede definitiva, e tuttora attiva, solo nel 1986, perdendo la sala dell’Invisible Cinema.

2.3. — Cinema d’artista

Le ricerche nel campo dell’arte figurativa in Italia negli anni ’60 risentono fortemente dell’eredità delle avanguardie storiche. Ci si avvia sia verso un recupero della volontà narrativa, già evidente in molti pittori surrealisti storici, sia verso il privilegiare le componenti antipittoriche dello stesso surrealismo, e, in questa direzione, si risale al ready-made, al collage dadaista e alle macchine ottiche duchampiane.

Anche il futurismo influisce direttamente, come nel caso di Mario Schifano, su alcuni elementi della poetica cinevisuale, e su alcuni settori della poesia concreta. Una più larga e consapevole utilizzazione di temi della poetica futurista si verifica poi nella seconda metà degli anni ’60, nell’ambito di esperienze multimediali che coinvolgono fotografia e cinema.

Il nuovo interesse per tutta l’area del dada, della metafisica e del surrealismo, viene sollecitato anche attraverso i contemporanei sviluppi americani e francesi del New Dada e del Nouveau-Réalisme.

È proprio il New Dada americano che influenzerà quel “ritorno dell’oggetto” che è il punto di riferimento della poetica della “Nuova Figurazione”, una nuova tendenza che supera il concetto di informale per promuovere il ritorno ad una pittura iconica. La figura non ha più valore, non è né modello né risultato, è solo un frammento, un residuo, un rottame che emerge nel compiersi dell’atto artistico, ma che può subito svanire senza che venga alterato l’atto artistico stesso. Questo movimento vedrà riuniti i suoi maggiori esponenti in una mostra in Toscana nel 1963, tra questi ricordiamo: Antonio Bueno, Silvio Loffredo, Alberto Moretti e Lionello Venturi.

Le influenze del New Dada e della pop-art americana contribuiranno ad affermare, a Roma specialmente, un clima fortemente sperimentale e trasgressivo. Una presenza sempre più incalzante di frammenti di immagini tratte dal mondo dei mass-media si regista nell’arte romana dal 1962, anche sull’onda della mostra newyorkese “The New Realist” che accosta alla nascente pop-art opere di artisti italiani, tra i quali sono presenti anche Baruchello e Schifano. Quest’ultimo in particolare inizia ad inserire nelle sue opere monocrome le sigle ingigantite di prodotti di largo consumo, per poi rivolgersi, nel 1963, al paesaggio ed alla figura umana.

Dall’America della pop-art i romani ricavano la sollecitazione a passare da un paesaggio urbano semplicemente allusivo, ad una realtà visiva dei mass-media ingombrante. Alcuni pittori hanno già stretto rapporti diretti con gli Stati Uniti quando nel 1964 la pop-art approda alla Biennale di Venezia, e per loro non è più una novità.

Dalla metà degli anni ’60 penetrano a Roma nuove ipotesi di ricerca. Nel gennaio 1965 la Galleria Arco d’Alibert presenta opere di Balestrini, Giuliani e Porta che approfondiscono la conoscenza delle ricerche segniche e scritturali già variamente presenti nell’ambiente artistico romano. La principale novità di questa e di altre mostre che seguiranno è quella di tentare una chiave tutta italiana dell’avanguardia.

L’interesse di alcuni artisti ad esplorare le possibilità espressive dei mezzi appartenenti alla tecnologia, deriva soprattutto dall’incoraggiamento alle ricerche cinevisuali prospettato da Gillo Dorfles. Nei suoi saggi Le oscillazione del gusto e Il divenire delle arti (1958-59), Dorfles insiste sul dato percettivo come base di ogni fruizione estetica e, raggruppando insieme pittura, scultura, architettura e disegno industriale, lancia la definizione di “arti visuali”, auspicando che si pervenga ad una maggiore e più diffusa educazione ai principi che regolano la percezione visiva contemporanea. Le riflessioni di Dorfles individuano i punti cardine del dibattito intorno alle esperienze cinevisuali degli anni ’60: tensione artistica come produzione di strumenti di educazione alla visione, rapporti tra arte e tecnica e tra arte e scienze, valore fondamentale della fase di fruizione dell’opera. Gli artisti cinevisuali agiscono nel mondo delle immagini e dei prodotti tecnologici con “oggetti” che siano il più possibile anonimi (spesso realizzati collettivamente), ma anche forniti di valenze didattiche, liberatorie, opposte alla logica dei prodotti della civiltà di massa.

Sotto la spinta di questi nuovi fermenti di lavoro Mario Schifano, Luca Patella (che, dopo aver allestito un laboratorio di ricerche sperimentali sulle tecniche dell’incisione, individua nel mezzo fotografico e filmico il campo privilegiato di un’indagine connesso ad aspetti ambientali e comportamentali), e Gianfranco Baruchello (sperimentatore anche teatrale, di suoni, scrittura, fotografia, oggetti ed altro), avviano le prime personali esperienze filmiche. L’estensione della produzione filmica è tale da essere registrata non solo da mostre di più marcato interesse sperimentale come quella di San Marino nel 1967, quella dell’agosto del 1968 alla “Settimana del cinema indipendente” (“Esperienze artistiche al di là della pittura”) a San Benedetto del Tronto, ma anche da occasioni espositive più ufficiali, come la V e VI Biennale di Parigi nel 1967 e 1969.

Tutte queste suggestioni e influenze vedranno svilupparsi nell’ambiente artistico italiano delle personalità che si appresteranno a realizzare veri e propri film sperimentali.

Ricordiamo brevemente le esperienze dei fiorentini Silvio e Vittorio Loffredo, che con la serie dei Court bouillon fin dal 1964 anticiperanno di oltre vent’anni il moderno Blob televisivo; quella di Umberto Bignardi che nel 1967 realizza in collaborazione con Alfrendo Leonardi il film Motion Vision, che rappresenta la sintesi di studi condotti sulla fotografia del movimento di uomini e animali; gli studi condotti da Luca Patella sulle possibilità figurative della pellicola, animate da uno spirito scherzoso e ironico dei film Screck! (1966), Tre e basta (1967), Fanimesto-Manifesto (1967); le suggestioni surrealiste e duchampiane che Gianfranco Baruchello ripropone nei suoi film-perfomances, ma che già nel 1965 realizzerà con Alberto Grifi quello che da molti è indicato come il “capostipite” dei film sperimentali italiani, La verifica incerta; senza dimenticare i film di Mario Schifano, il quale realizza, tra gli altri, una trilogia: Satellite (1968), Umano non Umano (1969), Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani (1969), con questi film l’artista propone un modo di vedere la realtà: le immagini provenienti sia dal mondo esterno, sociale e politico, ma anche dalla propria vita, diventano, nel momento in cui vengono riproposte dall’artista, già storia.

CAPITOLO 3: Il cinema sperimentale italiano

Tutte le influenze provenienti dai vari “settori” artistici di cui abbiamo parlato, alle quali dobbiamo aggiungere anche le ricerche nel campo della musica contemporanea (ricerche formali ed elettroniche nell’ambito della musica “colta”) e del teatro (le opere cinematografiche di Carmelo Bene degli anni ’60), vengono recepite con una particolare sensibilità dal pubblico che, grazie alla diffusione delle cineprese “leggere”, che hanno il vantaggio di avere dei costi molto bassi per le attrezzature e per lo sviluppo delle pellicole, sembrano rendere possibile per chiunque il sogno di fare il cinema, di realizzare film. L’unione di questi elementi porterà quindi alla nascita di numerosi gruppi di cineamatori e registi indipendenti su tutto il territorio nazionale, gruppi che, alla ricerca di spazi e soprattutto di identità e ideali comuni, sentiranno pian piano l’esigenza di organizzarsi in strutture, ricalcate sul tipo di quelle americane, che possano formare un circuito adatto al nuovo tipo di produzioni e che soprattutto siano in grado di organizzare ed elaborare piani adeguati di produzione e distribuzione.

Alcuni gruppi attivi si formeranno nelle città italiane di Roma, Torino e Napoli, che fungeranno da poli catalizzatori per le realtà sviluppatesi in Liguria ed in Toscana. A Napoli ci sono Cinzio Janiro, Aldo e Antonio Vergine, Nicola De Rinaldo e Vincenzo M. Siniscalchi; a Roma svolgono la loro attività Franco Angeli, Gianfranco Baruchello, Umberto Bignardi, Roberto Capanna, Giorgio Turi, Giorgetta Dorfles, Celestino Elia, Alberto Grifi, Alfredo Leonardi, Luca Patella, Adamo Vergine, ai quali si uniranno in seguito Massimo Bacigalupo (da Rapallo), Pierfrancesco Bargellini (da Arezzo), Guido Lombardi (da Genova), Anna Lajolo (da Torino). Molto numeroso e soprattutto attivo dal punto di vista ideologico e politico è il gruppo di Torino, formato da Emanuele Centazzo, Mario Chessa, Antonio De Bernardi, Renato Dogliani, Pia Epremian, Mario Ferrero, Luciano Mantelli, Paolo Menzio, Gabriele Oriani, Sergio Sarri, Alessandro Serna.

Grazie alla carica ideologia, sempre in forma latente all’interno dell’underground italiano, a Torino alcuni autori cercheranno di convogliare le loro forze intorno al collettivo Cinemasì che produrrà in ciclostile due numeri della omonima rivista. La prima uscita risale al gennaio 1967 e contiene gli interventi di Luciano Mantelli, Rosita Siccardi Boetti, Gianni Milano, Gian Paolo Boetti e Dario Serra, mentre la seconda dell’aprile 1967, oltre ai nomi già citati presenta anche interventi di Pier Paolo Masoni e Gianni Borgna. In questo secondo numero viene brevemente esposto il programma del collettivo:

“Cinemasì — quaderni di ricercasperimentazione cinematografica: sono in programma ricerche sulla funzionalità del linguaggio, sul colore, sul montaggio, sull’inquadratura e su altri aspetti dell’esperienza cinematografica.

Cinemasì ha in programma una serie di interventi sul piano della sperimentazione — documentari, films, diapositive. Con questi esperimenti intendiamo porci nella dimensione di una reale alternativa alla cultura frantumata.

Cinemasì intende pure creare un archivio di testi e pubblicazioni che siano direttamente utilizzabili nel processo di ricercasperimentazione che il collettivo, nelle sue varie manifestazioni intende condurre avanti.”

Successivamente Gianni Borgna e Luciano Mantelli si uniscono a Mario Ferrero, Emanuele Centazzo, Renato Dogliani e Sergio Sarri, che provengono da esperienze nel campo dell’arte figurativa e del cinema sperimentale, per fondare la rivista Ombre Elettriche. Verranno stampati e diffusi tre numeri della rivista (dicembre 1967, settembre 1968 e dicembre 1968), che avrà la funzione di diffusione e di comunicazione fra le varie iniziative italiane ed europee nell’ambito del cinema indipendente. Infatti fra i corrispondenti figurano Massimo Bacigalupo e Alfredo Leonardi per Roma, Klaus Schönherr per Zurigo, Martin Höllen per Berlino e Birgit e Wilhelm Hein per Amburgo. La rivista era animata comunque da una forte preoccupazione politica, tipica degli anni sessanta, ma che al giorno d’oggi potrebbe sembrare ingiustificata.

3.1. — L’esperienza della Cooperativa Cinema Indipendente.

Il 22 maggio 1967 venne fondata a Napoli la Cooperativa di produzione e lavoro Cinema Indipendente.

Nel giugno del 1967 durante la terza mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro ci fu un incontro tra filmakers di varie città d’Italia, e particolarmente attivi furono il gruppo di Torino, di Napoli e di Roma che dopo diversi altri incontri, avvenuti appunto a Torino, Napoli e Roma, decisero di unire le loro forze nella Cooperativa di Napoli.

Dell’effettiva attività della Cooperativa non si hanno molte testimonianze scritte, oltre ai film che dai primi mesi del 1968 iniziarono a girare ed essere visti un po’ in tutta Italia e, in occasione di qualche evento internazionale, anche all’estero. La prima rassegna del cinema indipendente italiano viene organizzata a Roma dal Filmstudio 70 dal 2 al 7 marzo 1968 con un nutrito programma, vengono presentati: Proussade di Pia Epremian, Il bestiario di Tonino De Bernardi, Il mostro verde di Tonino De Bernardi e Paolo Menzio, Cinegiornale di Alfredo Leonardi, Voy-age e Non permetterò di Giorgio Turi e Roberto Capanna, Francesco dell’amore di Nicola De Rinaldo, Irene di Aldo Vergine, La verifica incerta di Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi, Metafora di Alessandro Serna, Onagre di Celestino Elia, Mescal e Lei in di Renato Dogliani, Film on filming di Luciano Mantelli, Luci, Fatalità e But me not buts di Mario Ferrero, Implicazioni di una parata, Variazioni 3 e Variazioni 1 di Gabriele Oriani, Quasi una tangente e Ariel loquitur di Massimo Bacigalupo, Giornate di lettura di Franco Angeli, Write a love letter, E tu che ne sai dell’America e Fotografare è facile di Tano Festa, Motion Vision di Umberto Bignardi e Alfredo Leonardi, Le court bouillon di Silvio e Vittorio Loffredo, Ciao ciao di Adamo Vergine, Tre e basta di Luca Patella.

Sempre al Filmstudio 70 viene presentata anche la seconda rassegna del cinema indipendente italiano, dal 12 al 21 marzo 1969, con i film: Macrozoom¸Water closet, Baraccone e Fraction of temporary periods di Pierfrancesco Bargellini, Short swinging prayer di Mauro Chessa, Si prenda una ragazza, una qualunque lì a caso… di Guido Lombardi e Anna Lajolo, Può la forza di un sorriso, Le n ragazze più belle di Piazza Navona di Alfredo Leonardi, 60 metri per il 31 marzo e Versus di Massimo Bacigalupo, Dei di Tonino De Bernardi, Scusate il disturbo e MV di Turi e Capanna, Luci di Mario Ferrero, Songs 1-2-3-4-5-6-7-8-9-10-11 di Stan Brackhage, Vigil di Abott Meader, Atom di Gianfranco Brebbia, SKMP2 di Luca Patella, Per una giornata di malumore nazionale di Gianfranco Baruchello, Se il tempo di Cinzio Janiro, Medea di Pia Epremian, Es-pi’azione di Adamo Vergine e Tutto, tutto nello stesso istante il film collettivo della Cooperativa.

Oltre a queste due date, che segnalano eventi di grande importanza per lo spazio che dedicano ai film della Cooperativa, il Filmstudio 70 inserisce sistematicamente nella propria programmazione i nuovi film del cinema sperimantale italiano: tre serate dedicate ai film della C.C.I. dal 10 al 12 aprile 1968, una serata dedicata all’opera di Alfredo Leonardi il 12 maggio, quatto nuovi film della C.C.I vengono presentati il 9 luglio, dopo la pausa estiva. La programmazione riprende l’8 e il 9 ottobre, con altri film del cinema indipendente italiano, e chiude l’anno con una tre giorni pre-natalizia tra il 22 e il 24 dicembre.

La programmazione del Filmstudio 70 ospita i film della Cooperativa regolarmente anche nel corso del 1969 e del 1970, per poi diradarsi negli anni successivi, quando viene limitata alla presentazione di serate monografiche dedicate ad alcuni autori: il 27 ottobre 1970 viene dedicata una personale ad Alberto Grifi, riproposta il 24 febbraio 1974, il 30 ottobre 1972 a Pierfrancesco Bargellini, riproposta il 9 novembre 1976, il 17 marzo 1974 a Tonino De Bernardi e il 12 aprile 1974 a Paolo Brunatto.

Oltre alle rassegne curate dal Filmstudio 70, altre in Italia prevedono la programmazione di film del cinema indipendente. Si ricordano: la rassegna curata dall’Arci di Bologna nel novembre del 1968, quella dal 27 al 31 dicembre 1968 a Palermo, la serata dedicata al cinema della Cooperativa a Rapallo il 23 luglio 1969, e quella organizzata dal Circolo Cineamatoriale Genovese il 7 novembre dello stesso anno, a Torino il 28 e il 29 aprile 1970 vengono presentati film di Guido Lombardi, Anna Lajolo e Alfredo Leonardi.

A livello internazionale il cinema indipendente italiano viene ospitato a Vienna nel gennaio 1969, a Londra, nell’ambito dell’International Underground Film Festival, nel settembre 1970, a Zagabria nel novembre dello stesso anno, a New York, presso la sede dell’Antology Film Archives, nell’aprile 1973, a Madrid nel maggio 1974, a Parigi, presso le Centre Georges Pompidou nel dicembre 1978.

Un documento interessante, dal quale si può intuire la funzione assolta dalla Cooperativa per il coordinamento delle attività dei diversi autori italiani, è la copia di una lettera nella quale vengono diffuse le decisioni e le osservazioni emerse durante una delle riunioni della Cooperativa. Questa “circolare” indirizzata “agli amici della CCI” da Massimo Bacigalupo, Roberto Capanna, Alfredo Leonardi, Giorgio Turi, Antonio Vergine, porta la data del 30/3/1968, e mi è sembrato opportuno riportarla per intero.

“Oggi ci siamo visti, abbiamo parlato di una serie di problemi riguardanti la coop e abbiamo pensato di informarvi in merito. Stile telegrafico. Scarno ma efficiente. Copie dei film: specialmente gli amici di Torino non possono godere di una decente distribuzione dei loro film causa la mancanza di copie. La coop ha un po’ di soldi che possono e devono essere spesi per questa essenziale ‘voce’. Non si sa quanto perché nei conti c’è ancora un po’ di casino; si spera che entro aprile le idee si siano un po’ schiarite e si abbia una più precisa visione della situazione. Comunque Epremian, Ferrero e Mantelli, con cui abbiamo avuto occasione di contatti diretti, sono stati incoraggiati a stampare per intanto una copia di un loro film e a lasciare un chiodo allo stabilimento. Adamo padre provvederà. Chiunque altro desideri usufruire di una simile facilitazione è pregato di prendere contatto con Oriani o qualche altro di suo gradimento. (1)

Lo stato finanziario della coop dovrebbe, come si è detto, essere presto definito e snellito. Ora è troppo complicato e faticoso da aggiornare. Turi ha proposto che al momento dell’incasso di ogni proiezione si dividano i soldi e li si mandino subito agli interessati, detratti quelli spettanti alla coop. Ci sembra un’eccellente idea. La percentuale è, come si sa, del 30% alla coop e del 70% al regista, senza minimi di sorta per la coop. Si è pensato di applicare la stessa percentuale anche ai film stranieri di cui curiamo la distribuzione e a quelli italiani che d’ora in avanti distribuiremo.

Ciò richiede una spiegazione. La coop è nata in modo piuttosto farraginoso. Diciamolo. Per esempio l’indecente quota d’ammissione di ventimila lire è un privilegio che solo noi al mondo vantiamo e che rende complicati e squilibrati i rapporti con l’estro oltre che antipatici quelli coi nuovi aderenti che amerebbero spendere quel mucchio di soldi per comprare… [a questo punto c’è una riga della lettera non leggibile] in fin dei conti, la cosa più importante della coop sono i film.

Pensiamo quindi necessario ridurre dal prossimo bilancio (aprile) la quota in questione a 10000 lire, conteggiando i rimborsi ove qualcuno avesse versato interamente la quota (solo pochi l’hanno fatto), e poi ridurla progressivamente quasi a zero, tanto ormai la distribuzione è avviata e bisogna passare alla fase di accumulazione socialista a quella di redistribuzione dei beni materiali incassati. (2)

Siamo stati invitati da Zavattini a fare anche noi uno dei cinegiornali liberi da lui ideati. Per ora l’iniziativa non ci interessa molto perché pensiamo che in fondo i nostri film, così liberamente concepiti e realizzati sono degli eccellenti pezzi di attualità, di autentica scoperta della realtà e non ‘propaganda’ presto scaduta e scavalcata dall’onda sempre incessante dei fatti del giorno. Ma ognuno è libero di pensare e fare ciò che vuole, e se cambierà ideo lo aiuteremo come potremo. Per chi lo desiderasse, l’indirizzo di Zavattini è: via S. Angela Merici 40, Roma.

Adamo è tornato da Reggio Emilia, dove ha partecipato a un convegno dell’ARCI per i direttori di circoli e cineclub, molto eccitato e contento: pare che i nostri film abbiano interessato molto e che possano nascere molte possibilità di nuove presentazioni. Di fatto in aprile un programma dovrebbe essere proiettato a La Spezia, tre a Savona; in maggio uno a Genova, mentre il 25 marzo uno ne è stato proiettato a Napoli e tre, a metà aprile, saranno mostrati al Filmstudio 70 di Roma. Nel prossimo festival di Spoleto (luglio ’68) dovrebbe esserci una sezione di film sperimentali italiani e europei che saranno scelti dall’Istituto dello Spettacolo; lo stesso istituto che organizza il festival di Pesaro, dovrebbe presentare ufficialmente, nella sua manifestazione, la nostra coop più un programma di film da noi stessi scelto. Anche il festival di Palermo della nuova musica (dicembre) è interessato ai nostri film e ne dovrebbero nascere due o tre proiezioni, naturalmente a pagamento come tutte le altre.

In questi giorni saranno inviate a Torino presso Oriani, otto bobine di pellicola colore super-8 di nuovo tipo che la Ferrania intende farci provare. I film-makers interessati si mettano in contatto con il segretario. Le pellicole, una volta realizzate, verranno visionate dimostrativamente dalla Ferrania che poi ce le ritornerà.

Poiché questo potrebbe essere il primo di una serie di contatti fruttuosi per noi, si consiglia a coloro che utilizzeranno il materiale, di girare delle cose ‘carine’ (!) che possano anche avere quello scopo dimostrativo della “qualità superiore della pellicola” che la Ferrania probabilmente si augura. I contatti con la Ferrania ci stanno a cuore in quanto sembra che l’operazione “films in libreria” che Feltrinelli vuole lanciare in collaborazione colla coop stia per andare in porto. Speriamo bene. (La Ferrania collaborerebbe).

Un’altra cosa importante: tutti i film-makers vengono nuovamente invitati nel modo più cordiale a partecipare ‘con carne e sangue’ alla attività della coop. Qui a Roma facciamo del nostro meglio. Un punto fondamentale è l’invio delle schede dei film e dei moduli per l’esclusiva. Lo sappiamo che queste burocratizzazioni sono sempre noiose, ma crediamo che in qualche caso (e dato che i film sono buoni) siano proprio necessarie. Allora, ogni film-maker che non l’abbia ancora fatto invii al più presto le schede e i moduli relativi ai suoi films a Papà Adamo: se ci si mettono di buona volontà faranno ancora in tempo a farle entrare nella nuova edizione del catalogo che uscirà a giorni, per le serate del Filmstudio 70 (10,11,12 aprile).

A coloro i quali, come Mario Ferrero a quanto dice, scoccia troppo questa operazione, mandiamo le nostre benedizioni e chiediamo perlomeno il modulo per l’esclusiva e i dati tecnici. E questo anche per i film che gli amici torinesi hanno realizzato per Pistoletto.

Aggiungiamo un invito ai film-makers di diffidare dell’Unione Culturale di Torino che si comporta piuttosto male nei confronti della coop ed è debitrice di una grossa somma: agli amici di Torino la scelta dei mezzi di persuasione (baci o molotov che siano).

Vi vogliamo bene e vi abbracciamo.

NOTE:

(1) Veramente pressante è il nostro invito a utilizzare per il 16mm il sonoro ottico: ciò garantisce una distribuzione universale (Italia ed estero). Il suono magnetico limita enormemente la possibilità di proiezione. Per l’8mm il nostro consiglio ha manifestato una certa preferenza, facendo un po’ di smorfie verso il super-8, ma certo qui la materia diventa più opinabile. Varrebbe la pena di approfondirla insieme.

(2) Fermo restando lo spirito della proposta di Alfredo, nel corso della riunione sono già state presentate delle riserve, e si pensa che la questione debba essere posta in discussione al più presto tra tutti i film-makers.”

La Cooperativa Cinema Indipendente si regola sul modello della Film-makers’ Cooperative Americana: la rinuncia a qualsiasi tipo di censura è la regola fondamentale. Inoltre la C.C.I. si impegna a distribuire tutti i film che le vengono affidati dai soci, dividendo il ricavo inizialmente nella percentuale 50% al regista e 50% alla Cooperativa, mentre in un secondo momento la quota per il regista verrà elevata al 70%. Inoltre ogni socio è obbligato a versare una quota di iscrizione di ventimila lire.

La Cooperativa pubblica tre cataloghi con i film in distribuzione e i relativi prezzi per il noleggio: il primo nel 1967, il secondo nel 1968 mentre la terza ed ultima edizione risale alla primavera del 1969.

Dall’elenco degli autori presenti nelle varie edizioni del catalogo si comprendono anche i vari movimenti di adesione e abbandono. Massimo Bacigalupo riassume questi movimenti di entrate ed uscite in una nota al volume da lui curato sul cinema sperimentale:

“Il primo catalogo della C.C.I. elenca i seguenti film-makers: Franco Angeli, Massimo Bacigalupo, Gianfranco Baruchello, Umberto Bignardi, Roberto Capanna, Antonio De Bernardi, Nicola de Rinaldo, Renato Dogliani, Celestino Elia, Pia Epremian, Mario Ferrero, Alberto Grifi, Alfredo Leonardi, Silvio e Vittorio Loffredo, Luciano Mantelli, Paolo Menzio, Gabriele Oriani, Luca Patella, Alessandro Serna, Vincenzo M. Siniscalchi, Giorgio Turi, Adamo, Aldo e Antonio Vergine. Nella seconda edizione si aggiungono alla lista Piero Bargellini, Tano Festa, Birgit e Wilhelm Hein, Abbott Meader. Nel terzo catalogo, un listino tuttora disponibile, s’aggiungono Stan Brakhage, Gianfranco Brebbia, Emanuele Centazzo, Mauro Chessa, Pierre Clementi, Giorgetta Dorfles, Cinzio Janiro, Martino e Anna Oberto, Sergio Sarri, ma scompaiono Angeli, Bignardi, de Rinaldo, Dogliani, Festa, Mantelli, Oriani, Serna e Siniscalchi.”

Questa struttura burocratica organizzata intorno agli autori del cinema sperimentale diventa ben presto un peso da cui liberarsi, e in coincidenza di attriti interni dovuti alla diversità di poetiche e di intenti, già nella metà del 1969 la Cooperativa si scioglie ufficialmente; rimarrà invece attiva come punto di riferimento nel panorama nazionale, spostando la sede da Napoli a Roma.

Tra le cause dello scioglimento della Cooperativa un grande peso assume la scissione del gruppo di Torino. Di questa scissione una testimonianza diretta ci viene offerta da una lettera del 1° luglio 1968 scritta da Mario Ferrero ad Alfredo Leonardi, e da quest’ultimo pubblicata, insieme ad altre, su un numero di Filmcritica, proprio come documentazione dell’attività della Cooperativa:

“[…] Al mio ritorno è stata organizzata dal gruppo di Ombre Elettriche una riunione a casa di Oriani, dove erano solamente presenti Dogliani e Mantelli, e qui, dopo una breve disputa sono venuti fuori i primi dissensi sulla conduzione dell’omonima rivista e soprattutto sull’impostazione data all’ultimo numero. Essendoci resi conto che mancava all’interno una coerenza ideologica, e soprattutto nella prassi, le dissociazioni sono avvenute a catena: prima quella di Mantelli, poi la mia quindi quella di Sarri, Centazzo, Dogliani, Serra e così via.”

Proprio quando la Cooperativa non esiste già più dal punto di vista burocratico, un gruppo di autori (alcuni di quelli appartenenti soprattutto al gruppo di Roma) partecipa ad un incontro collettiva organizzato dalla rivista Cinema & Film.

A questo incontro partecipano quindi Massimo Bacigalupo, Gianfranco Baruchello, Alfredo Leonardi, Antonio De Bernardi, Guido Lombardi e Adamo Vergine.

Sembra che a questo incontro dovesse partecipare anche Mario Ferrero, così almeno scrive il 6 novembre 1968 a Leonardi:

“[…] Roma: è necessario affinché possa venire a Roma che Cinema & film (che aveva proposto di fare una tavola rotonda dei membri della cooperativa) mi paghi il viaggio, perché non ho un soldo, e sono già incasinato per vivere […]”

Non partecipa alla tavola rotonda neanche Pierfrancesco Bargellini, che all’epoca faceva già parte della cooperativa, essendo il suo film Capolavoro già presente nella seconda edizione del catalogo. Adriano Aprà, nell’intervento riportato nella terza parte, tiene a precisare che probabilmente all’epoca dell’incontro Bargellini vivesse ancora ad Arezzo, e per lui raggiungere Roma non doveva essere una cosa semplice.

Come è stato annunciato questa tavola rotonda avviene subito dopo lo scioglimento ufficiale della Cooperativa, scioglimento che viene così spiegato da Baruchello:

“Non è che la Cooperativa non esista più; non esiste più una bardatura giuridica che ci eravamo dati e che credevamo fosse utile all’inizio e che poi semplicemente abbiamo abbandonato in modo libertario scegliendo un tipo di collaborazione al di fuori di uno schema che è controllato dallo stato, che esige delle pastoie incredibili di ordine amministrativo, fiscale, ecc. […] E il gruppo esce rafforzato dalla morte di questa sclerotica costruzione fasulla che era la cooperativa secondo le leggi italiane.”

In quest’occasione emerge la distanza ideologica del gruppo rispetto ad altre iniziative del “nuovo cinema” italiano che stavano prendendo piede nello stesso periodo, distanza che sarà incolmabile e porterà il gruppo alla incomunicabilità con altri autori e con la realtà produttiva e distributiva del cinema italiano.

Alla domanda in che maniera si poneva il gruppo rispetto ad iniziative quali la creazione della cooperativa “21 marzo”, l’istituzione dei “Cinegiornali liberi” e l’attività del movimento studentesco, Alfredo Leonardi risponde con un tono molto polemico, in questo modo:

“E’ chiaro che se c’è un gruppo di giovani che si uniscono in una cooperativa per fare dei film vecchissimi, a noi non ce ne importa niente. […] Non per niente quando siamo stati convocati a casa di Zavattini che voleva proporci di fare dei cinegiornali liberi la cosa non ci ha sorpreso: le scelte di tipo generale che lui si proponeva noi già le facevamo da due anni e avevamo anche superato lo stato de gemmazione che lui si proponeva, riunendoci in un gruppo e distribuendo le nostre opere, cosa che lui ancora non ha fatto (e sembra che questo sia il grosso punto debole del meccanismo). […] Il Movimento Studentesco ci può interessare a livello globale ma è difficile, almeno per me, far coincidere il tipo di ricerche mie, che sono molto personali, con la tematica giustamente collettiva del M.S. Peraltro, c’è un gruppo di cineasti di Torino, Ferrero e gli altri, che stanno lavorando col M.S. e mi auguro che facciano delle cose interessanti.”

Quello che rimane molto vivo nello spirito del gruppo è la voglia di far vedere i propri film e di parlarne, soprattutto di sperimentare sul pubblico quella forza provocatoria che anima queste opere. L’esigenza del film di essere visto di circolare rappresenta poi l’esigenza vitale dell’autore di dare voce alla propria interiorità. Ritorna in questo modo la caratteristica principale del cinema underground che già era manifesta nei film e negli autori americani, la coincidenza dell’attività artistica con la vita stessa dell’autore. Durante la tavola rotonda questo spirito esce fuori da ognuno degli autori presenti, ma quello che probabilmente lo sente con maggiore intensità è De Bernardi, che appunto dice: “Ma noi siamo qui non per parlare di altre cose, i cinegiornali ecc. ma dei nostri film”, e ancora:

“Per me è molto importante seguire i film, se potessi andrei dappertutto, ma non per spiegarli. O magari posso anche spiegarli ma allora è tutta un’altra cosa: nel momento in cui spiego già faccio un nuovo film. Insomma, come ho bisogno di fare i film, così ho bisogno di accompagnarli, di parlarne.”

L’autore sente quindi l’esigenza di “seguire” fisicamente il suo film, non riesce a staccarsene, proprio perché il film fa parte integrante della propria esistenza. Questa esigenza necessita indubbiamente di un rapporto particolare con il pubblico, un pubblico che sia in grado di entrare in simbiosi con il film e quindi con l’autore stesso. Ed è proprio questa particolare concezione del film e del rapporto che si deve instaurare con il pubblico che fa del cinema underground un cinema diverso da quello commerciale, e ne rende più difficoltosa, e se vogliamo anche priva di senso, la circolazione in un circuito standard.

La posizione degli autori sperimentali, sia coloro che hanno fatto parte della Cooperativa Cinema Indipendente, sia coloro che sono rimasti estranei all’iniziativa, nei confronti del cinema ufficiale è abbastanza netta.

Il loro rifiuto di qualsiasi contatto non porta altro che ad una forma di autoghettizzazione, della quale pagheranno le spese soprattutto i film realizzati, di cui oggi, nella maggior parte dei casi, si sono perse le tracce.

Un’emblematica testimonianza di questo atteggiamento è la tavola rotonda organizzata dalla redazione della rivista Cinema & Film nella primavera del 1968, alla quale partecipano oltre ad Adriano Aprà, anche Maurizio Ponzi, Valentino Orsini, Vittorio Taviani, Bernando Bertolucci, Gianni Amico, esponenti del giovane cinema italiano e Alfredo Leonardi, esponente della Cooperativa Cinema Indipendente. La situazione creata dalla rivista nell’intento di facilitare delle connessioni tra queste forze emergenti si rivelerà un fallimento soprattutto per la incomunicabilità dei vari registi nei confronti di Alfredo Leonardi e del programma degli autori del cinema indipendente da lui portato avanti.

La domanda rivolta da Adriano Aprà, che doveva coinvolgere tutti i partecipanti in una discussione su problemi comuni, riguarda la possibilità di fare, in quel momento, da un punto di vista soprattutto produttivo e distributivo, un cinema d’autore in Italia.

Partendo da questa premessa la discussione si muove su due temi, da una parte le scelte prettamente produttive e distributive, dall’altra le scelte linguistiche.

Da un punto di vista produttivo e distributivo la soluzione adottata da Leonardi e quindi dalla Cooperativa Cinema Indipendente, di libertà assoluta rispetto al sistema esistente trova una decisa resistenza da parte degli altri autori.

Bernardo Bertolucci insiste nella sua estraneità ad una forma di produzione che permetta di realizzare film in formato ridotto:

“Ognuno di noi può trovare una 16mm, fare il suo film, proiettarlo al Filmstudio o a Via Belsiana… Io non lo faccio perché non mi interessa, perché ho bisogno della 35mm, dello scope […] Io non ritengo giusto che mi si obblighi a fare dei film a 16mm. Non li voglio fare. Il giorno in cui li voglio fare, li farò. Li ho fatti a 15 anni, li rifarò fra un anno, quando Partner sarà andato talmente male che capirò di non potere più fare film per dieci anni, allora per dieci anni farò film a 16mm, e forse troverò una libertà nuova, verrò con te, Leonardi, andremo insieme ad accompagnare i nostri film, i nostri figli. Però adesso non ci vengo.”

Della stessa opinione sono Vittorio Taviani e Valentino Orsini, anche se si esprimono con toni più moderati. Gianni Amico invece sembra colpito dalla possibilità che si possa fare del cinema senza avere alcun vincolo economico:

“Loro [gli autori della C.C.I.] da tutti questi problemi si sono liberati. A me interesserebbe discutere il problema da questo punto di vista; vedere che cosa effettivamente si può fare e in che cosa l’esperienza loro ci può essere utile, per rendere poi ognuno di noi libero di fare il proprio cinema. Resta un dato oggettivo che Bernardo riesce oggi a fare un film dopo essere rimasto quatto anni senza averne fatti, mentre Leonardi i suoi film li fa quando e come vuole.”

E conclude la tavola rotonda dicendo:

“Io credo che l’esistenza della Cooperativa ci aiuta almeno a distruggere la cattiva coscienza di chi dice che certi film li vorrebbe fare e non li può fare. No, i film si possono fare, se non si fanno è perché non si vogliono fare, o almeno perché non siamo disposti a sacrificarci per farli.”

Puntualizzando così proprio lo spirito di indipendenza che ha sempre animato i giovani autori di cinema underground.

Più delicato è il problema relativo al linguaggio. Leonardi sostiene che il vero condizionamento a cui sono sottoposti i registi italiani, anche coloro che cercano di battere strade più difficili per avere una maggiore libertà, è quello linguistico, piuttosto che quello produttivo, che comunque può essere risolto in molti modi. Il condizionamento deriva direttamente dal linguaggio del cinema che ci si propone di combattere.

“Non è un problema di slogan, di contenuti, ma di linguaggi, perché lo slogan è un messaggio ipnotico che addormenta lo spettatore; la cosa importante non è dargli delle parole d’ordine ma dargli i mezzi per essere autonomo, per essere creativo, per essere lui stesso il creatore di proprie parole d’ordine. Il problema è quindi quello di un rinnovamento totale del linguaggio, che non è solo una crosta esteriore, ma è un modo integralmente nuovo di essere, quindi di svilupparsi, quindi di comunicare. Le persone che hanno un linguaggio vecchio sono vecchie, hanno delle parole d’ordine vecchi, sono totalmente vecchie. Io non posso accettare la distinzione fra linguaggio vecchio e contenuto progressivo.”

Su questo punto la polemica con i giovani autori del cinema italiano diventa più aspra, perché essi non accettano la distinzione sull’aspetto estetico, e soprattutto non credono sia possibile effettuare una contestazione del linguaggio cinematografico escludendolo come codice di comunicazione possibile.

Tra gli altri interventi in questo senso, quello di Vittorio Taviani è il più esplicito:

“Quanto poi al problema estetico, non capisco come tu possa fare distinzione — ripeto — fra ciò che appartiene al codice e ciò che non appartiene al codice, perché se vuoi negare in blocco, devi condannarti al silenzio.”

Questa scelta tra un nuovo linguaggio e il silenzio, come negazione del linguaggio stesso, rappresenta un problema teorico-linguistico già affrontato nel capitolo 2, nell’ambito appunto dei riferimenti alla poetica del Gruppo 63, ma che trova una dettagliata argomentazione nelle teorie di Roland Barthes sul “grado zero della scrittura”, e che verranno meglio analizzate in seguito, proprio come punto di riferimento fondamentale per capire la poetica degli autori del cinema sperimentale.

Questi due interventi sulla rivista Cinema & Film sono esemplari delle espressioni collettive della Cooperativa Cinema Indipendente, anche se quest’ultima tavola rotonda vede “lottare” Alfredo Leonardi da solo, seppure in rappresentanza dello spirito del gruppo.

Un tentativo di espressione artistica collettiva viene compiuto dalla Cooperativa con il film Tutto, tutto nello stesso istante. Realizzato tra giugno 1968 e marzo 1969, è formato da interventi di Bacigalupo, Bargellini, Baruchello, Chessa, De Bernardi, Epremian, Leonardi, Lombardi, Meader, Menzio, Turi e Vergine. Sappiamo che viene proiettato per la prima volta a Roma il 21 marzo 1969 durante la II rassegna del cinema indipendente italiano organizzata dal Filmstudio 70, viene replicato, sempre a Roma, il 6 giugno del 1969 alla Casa internazionale dello studente, nell’ambito di una serata dedicata al cinema underground italiano, per poi tornare nuovamente nella programmazione del Filmstudio 70 il 2 novembre 1970. Tutto, tutto nello stesso istante verrà anche proiettato il 20 aprile del 1973 all’Antology Films Archives di New York insieme al film Il sogno di Tonino De Barnardi e a Warming-Up di Massimo Bacigalupo. Nasce dall’iniziativa di Baruchello che dopo aver girato la sua parte, sul tema antipoliziesco, la fa vedere agli altri registi, come fosse un messaggio, una lettera provocatoria a cui rispondere. Il risultato è un film della durata di 25 minuti, composto da interventi sullo stesso tema, ma diversi perché rispecchiano le diverse sensibilità di ognuno degli autori. Questa diversità apparente è nascosta da una unicità di intenti, che trova la sua omogeneità nella stessa reazione alla violenza. Così ne parla Bacigalupo:

“… ci si guarda molto chiaramente vicendevolmente in faccia, si alza lo specchio alla violenza, se ne è pervasi, in un sistema ed echi che spesso non permetta di precisare latitudine e longitudine, di distinguere ciò che è dentro da ciò che è fuori, ciò che si vuole da ciò che NON si vuole. è per questo che Tutto, tutto nello stesso istante è una cosa dell’oggi che dà del filo da torcere . è per questo che mi lascia una certa preoccupazione su come mi muoverò domani. è una costellazione visiva differenziata e vagamente minacciosa.”

Purtroppo attualmente il film sembra disperso e dai documenti a disposizione non è stato possibile ricostruire per intero il contenuto preciso dei vari interventi. Con sicurezza sappiamo che l’intervento di Massimo Bacigalupo viene citato nella sua filmografia e ce ne parla l’autore stesso nel numero monografico di BN:

“Her 1968 16mm c m 24 fts 3′: Ofelia viene malmenata durante le dimostrazioni contro la Convenzione di Chicago (1968), e termina il suo viaggio su una spiaggia del Medio Oriente.

Il film collettivo doveva essere antipoliziesco. Passai l’estate a Cipro e in Israele, al ritorno trovai resoconti di Praga e Chicago. Scelsi appunto come materiale metamorfizzabile un ritaglio da Newsweek che riferisce come una ragazza venga spinta contro un muro e battuta dalla polizia durante le manifestazione per la Convenzione. Il film ha un ritmo di cadenza con spazi neri fra le immagini. Nella prima parte appare solo il ritaglio, portando con sé immagini degli scontri. Un primo trasferimento avviene subito al termine di questa breve serie, con una carrellata che porta attraverso una serie di donne fantastiche e dolcemente desiderabili, da pitture, all’unica e centrale immagine “vera”: un corpo forse femminile in un lungo vestito beduino abbandonato su una scogliera presso le onde, incassato in una gola ripresa dall’alto. Quest’immagine è trattenuta per una trentina di secondi e termina in una serie di lampi confusi. La serie iniziale viene subito ripresa: sono le parole già prima evidenziate ma trattenute nel contesto della cronaca che si dispongono sulle immagini silenziose dei luoghi e delle persone da cui tornavo, ed indicano una nuova storia diversa dalla prima, anche se ad essa parallela, e tutta da inventare.”

Quello realizzato da Bargellini, citato nella sua filmografia sempre su BN, si intitola Tempo-Tempio-Ritratto dove viene datato febbraio 1968, mentre invece sappiamo che l’operazione collettiva inizia a giugno dello stesso anno. Dalla stessa fonte si apprende che questo cortometraggio proposto per Tutto, tutto nello stesso istante non era stato accettato dal gruppo.

Della parte girata da Gianfranco Baruchello, si sa che si tratta di una breve sequenza “performativa”, coerente nello stile con le altre opere del pittore, durante la quale viene distrutta a martellate una piccola automobilina giocattolo della polizia, completata da immagini documentanti la rivolta di Valle Giulia.

Questo breve filmato sarà oggetto indiretto di una nuova opera, quando in collaborazione con Guido Lombardi e Anna Lajolo nel 1991 Baruchello realizzerà il video 68/91, nel quale da una scatola vengono letteralmente “riesumati” i resti dell’automobilina distrutta oltre venti anni prima.

Un trafiletto informativo apparso sul n. 3-4 di Ombre Elettriche del settembre 1968 anticipa la realizzazione di questo film:

“Su iniziativa di Baruchello a Roma si è iniziato a girare un film 16mm colori che vedrà la partecipazione di tutti i film-makers della CCI.

I primi spezzoni venuti alla luce sono di Leonardi: bagnanti, idilliache — Turi: trait d’union acqua-auto — Baruchello: distruzione di una automobilina police americana, fasciamento (in una copia dell’Unità) e inscatolamento — Bacigalupo: mani/volti/canto/danza.”

Per quanto riguarda invece gli interventi affidati a Chessa, De Bernardi, Epremian, Leonardi, Lombardi, Meader, Menzio, Turi e Vergine non sono riuscita ad avere alcuna notizia.

3.2. — Il Filmstudio 70

A questo punto per concludere la presente analisi attraverso gli elementi e l’ambiente che ha visto nascere e svilupparsi il cinema sperimentale in Italia, è necessario dedicare un piccolo spazio al Filmstudio 70, proprio perché si tratta di un organismo che in Italia e soprattutto a Roma ha offerto uno spazio privilegiato ai film sperimentali, sia quelli degli autori italiani, sia quelli stranieri, specialmente all’underground americano.

Il Filmstudio 70 è un’associazione culturale che si è costituita a Roma nel 1967 e ha iniziato l’attività di programmazione cinematografica esattamente il 2 ottobre 1967, con una rassegna sul cinema canadese.

Il Filmstudio 70 ha proposto un modello di associazione culturale che si è poi diffuso in tutta l’Italia: infatti non è un circolo del cinema né un cineclub, ma un’associazione indipendente con una propria sede ed una programmazione quotidiana che è riuscita a superare i limiti dei cinema d’essai, che non possono proiettare film senza il visto della censura, e dei circoli del cinema aderenti alle federazioni nazionali, i quali non possono avere una programmazione giornaliera.

Ha svolto anche un’attività di consulenza giuridica e organizzativa rivolta a filmclub e associazioni culturali e teatrali alternative, nel periodo dal 1974 al 1977, che segna il boom dell’associazionismo alternativo in Italia.

La programmazione quotidiana del Filmstudio 70 spazia tra i film classici della storia del cinema, delle avanguardie storiche, nuovo cinema, cinema indipendente, ed in genere tutta quella produzione che ha notevole valore da un punto di vista artistico ed è stata esclusa dal mercato. I film vengono inseriti in organiche rassegne, fornendo documentazione per la lettura critica dei film proposti.

La sua attività, dalla costituzione fino al marzo 1985, data dello sfratto dai locali, è sempre stato un punto di riferimento culturale importante, ma la vera importanza risiede nell’intervento nel campo della produzione di cinema indipendente, un intervento che non si è limitato ad un modesto finanziamento, ma ha saputo indicare al pubblico esempi di nuove possibilità di produzione sia in pellicola 16mm sia in video. Tra i film promossi dal Filmstudio 70 Anna di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli e Io sono un autarchico di Nanni Moretti sono diventati casi emblematici. Non sbaglia a tale proposito Adriano Aprà ad affermare che questi film, frutto principalmente dall’impegno costante dei loro autori, tuttavia “rientrano nel progetto globale dei club-cinema, e non indicano — questo mi sembra importante — una vocazione necessariamente marginalistica.”

Analogamente non si può negare che alla fine degli anni ’60 in corrispondenza della nascita del cinema sperimentale, in Italia non ci sia stato un altro organismo così attivo come il Filmstudio 70 a Roma, che ne abbia favorito lo sviluppo e la diffusione. Non bisogna dimenticare che i film della Cooperativa Cinema Indipendente sono stati presentati nelle rassegne del Filmstudio durante il 1968 almeno sette volte, e con la stessa frequenza fino al 1974, e quando gli autori della Cooperativa parlavano di un proprio circuito, come alternativa al circuito commerciale, sicuramente il loro pensiero era rivolto al Filmstudio 70, una organizzazione che ha contribuito a dare maggiore libertà al loro lavoro.

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