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Cinema

Non erano solo canzoni

Storia dei film "seri" di Judy Garland

Ricordando Dorothy

Judy Garland se n’è andata in una notte di giugno di trent’anni fa. Oggi la sua immagine, secondo il destino di tanti divi d’altri tempi, sta lentamente sfumando nella memoria delle persone, specialmente di quelle più giovani. Qualche ricordo: quando, nel 1938, ebbe inizio la lavorazione del “Mago di Oz” diretto da Victor Fleming, Judy aveva quasi sedici anni, mentre la piccola Dorothy, protagonista del fortunato romanzo di Frank Baum nel quale non viene mai detta la sua età, poteva averne più o meno dieci. Gli addetti alla produzione della MGM la dovettero appiattire con un apposito busto, per darle un look idoneo, e questo film fu una rivelazione. Noi in Italia lo conoscemmo soltanto dopo la guerra, e il bel motivo di Arlen e Harburg entrò nelle orecchie di tutti, con quei suoi versi adattati alla meglio dal testo americano: “Tutto torna sereno, che splendor…”. Era bello e anche romantico, perché non evocava, una volta tanto, la pallida luna delle solite canzoni d’amore, ma un desiderio di arrivare in alto, “Over the Rainbow”, dove gli uccelli volano nell’azzurro.
“Over the Rainbow” accompagnò Judy Garland per tutta la sua vita. Fino alla fine, non c’era un concerto che non si aprisse con quelle note e con uno scroscio d’applausi sinceri.

La vita di Judy ha tenuto occupati molti biografi. Figlia d’arte, da bambina era stata la più piccola di un trio canoro di sorelline, le “Gumm Sisters” (questo il suo vero cognome, e il nome era Frances). Non aveva tardato a farsi notare per la sua simpatia e la bellissima voce, tanto che in qualche “corto” era stata abbinata a Deanna Durbin, altra famosa stella giovinetta, dalla breve carriera. Nei famosi “musicals” della Metro degli anni 30-40, le sue canzoni, con il suo bel viso espressivo e sorridente, irradiavano ottimismo. Era un mondo fatto di “Everybody Sing” e di “Singing Before Breakfast” (Broadway Melody 1938), con un lieto invito a vivere in leggerezza. Così la bambina del “Mago di Oz” era partita per la sua strada, che non sarebbe stata né facile né serena — Questa piccola Dorothy, con grembiulino campestre, cagnolino fedele, occhi sognanti, non sarebbe mai più uscita dal nostro ricordo.


1945: molto sentimento e niente canzoni. Arriva “L’ora di New York”.

A ventidue anni, Judy Garland ne aveva già trascorsi otto d’intenso lavoro. Dopo il memorabile “Mago di Oz”, uscito nel 1939, aveva iniziato la serie dei film giovanili e ottimisti a fianco di Mickey Rooney, mentre nel ‘41, accanto ad attrici “più grandi” come Lana Turner e Hedy Lamarr, aveva coperto il ruolo commovente in “Ziegfeld Girl”, sulle divette in carriera, coreografate da Busby Berkeley. L’anno dopo aveva accompagnato al debutto cinematografico un giovane Gene Kelly in “For Me and My Gal”’, e infine, dopo qualche altro “musical” di buon livello, era approdata a “Meet Me in St. Louisl” diretto da Vincente Minnelli nel ’44.

Questo “St. Louis” era una delicata rievocazione del passato, degli affetti di famiglia e dei legami con la propria casa, e usciva per il pubblico mentre migliaia di americani erano in guerra. Un grande successo, con il supporto di belle canzoni per Judy, come “The Trolley Song” e “The Boy Next Door”, con un cast in buona parte al femminile. Lei divise generosamente il suo ruolo con la piccola attrice Margaret O’Brien, e il film, sotto l’impeccabile direzione di Minnelli, le fece salire qualche altro scalino verso la fama.
A questo punto, la Metro e il produttore-musicista Arthur Freed pensarono ad una parentesi in questo flusso di successi in musica, e le proposero d’interpretare un film senza canzoni né coreografie, il primo in assoluto della sua carriera. Il soggetto, da un racconto di Paul Gallico, era già disponibile, e il film si chiamò “The Clock”, che in Italia uscì come “L’ora di New York”. Era ancora diretto da Minnelli, ed era il 1945. In precedenza si era pensato, per la regia, a Fred Zinnemann, uno dei tanti emigrati di quegli anni, che veniva dall’Austria, e che avrebbe poi avuto una lunga carriera americana. Ma non sembrò adatto alla scarna semplicità della trama, e vi rinunciò volentieri, lasciando il posto a Minnelli, con grande soddisfazione di Judy.

“The Clock” è una storia d’amore che inizia nella Grand Central Station di New York. Un soldato di passaggio nell’atrio affollato urta in modo un po’maldestro una giovane impiegata che va a prendere il suo treno e che ci rimette un tacco della sua scarpina. Dalle scuse si passa alla simpatia: lei vive in città, ma entrambi sono lontani dalla famiglia. Lui ha un permesso di quarantott’ore prima di partire per il suo reggimento, destinato probabilmente alla guerra. Nel caos della stazione si perdono, si ritrovano, e si innamorano: lei, con una scusa, non va al lavoro, e gli fa compagnia in giro per la metropoli. E così inizia quest’incredibile “48 ore”, nella quale succedono tante piccole cose importanti, fra cui un matrimonio che viene celebrato in rigido stile burocratico da un funzionario comunale acchiappato al volo, prima che chiuda l’ufficio, ed un pranzo “di nozze” in uno squallido “Automat”, tanto desolato da far scoppiare in lacrime la sposa. Ma poi c’è anche un festoso risveglio dalla “prima notte” in un albergo qualsiasi, nonché una serena passeggiata per il Central Park e l’incontro con tanti personaggi della città interpretati da ottimi caratteristi: il lattaio, il funzionario dell’anagrafe, un pittoresco ubriaco, e tanti altri. Sembrano figure d’un film di Frank Capra, o quelle delle illustrazioni “per famiglia” di Norman Rockwell, tanto diffuse in quegli anni.

L’interprete maschile è Robert Walker, un giovane attore che in quegli anni avrebbe avuto tanti registi, come per esempio l’Hitchcock di “Sconosciuti in treno” del 1951. E l’immensa stazione, con il Central Park e il traffico delle strade, furono tutti realizzati in studio. Qualcuno disse che in questo “The Clock” è New York la terza interprete del film: tanta gente vera che sembra partecipare a quel mondo d’estasi quasi irreale dei due innamorati.
Un film riuscito, un piccolo gioiello d’equilibrio e d’autentica freschezza. Merito del regista senza dubbio. Ma è lei, Judy, che si apre a questo amore fulmineo con la classe di un’attice matura. Nessuna canzone: neanche una sola nota. Ma una grande prova di recitazione.

Alla fine delle riprese, Judy e Minnelli si sposarono. Faranno insieme ancora qualche altro film, fra cui il variopinto e funambolesco “The Pirate” con Gene Kelly. Nel 1946 venne al mondo la figlia Liza. Uno dei piùgrandi eventi, molti anni dopo, nella vita di queste due donne speciali, fu un concerto al “Palladium” di Londra in cui cantarono insieme le canzoni della loro carriera.


1946-1954: anni difficili e molta musica.

Secondo il nostro assunto, questo periodo nella carriera di Judy dovrebbe essere sorvolato, essendo pieno di film musicali. Invece è necessario percorrerlo rapidamente, perché vi si svolgono cose molto importanti per lei. Sposando Vincente Minnelli nel 1945 era al suo secondo matrimonio. Infatti nel ‘41 aveva sposato David Rose, un compositore, ed era stata come una prima ribellione alle interferenze della Casa Metro nella sua vita privata. Minnelli era in quegli anni il più importante regista di “musicals” della Metro, e questa unione fu benedetta dal potente Luis Mayer.

Tra il ‘45 e il ‘50, Judy fu presente in ben otto film, due dei quali erano vere e proprie rassegne dei maggiori nomi della commedia musicale. E nel 1948 fece il suo unico film con Fred Astaire: “Easter Parade” (“Ti amavo senza saperlo”, nel titolo nostrano), con le musiche scritte da Irving Berlin ed un loro numero unico e famoso: “A Couple of Swells” (una coppia di elegantoni), in tenuta da vagabondi pieni di toppe, dove lei ebbe modo di confermare le sue ottime capacità di danzatrice e il suo spirito comico. Nel ‘50, con “Summer Stock” (L’allegra fattoria) ebbe ancora Gene Kelly come partner in un vivace film campestre, e fu ancora un successo. Ma nel numero finale, uno spavaldo “assolo” con lei in abiti maschili, si rendeva evidentissimo un suo notevole dimagrimento.
E qui si rende necessario parlare del suo stato di “sorvegliata speciale”, come dice Alvise Sapori in un articolo del 1984. La Metro vigilava su questa giovane diva che mieteva successi e incassi ad ogni suo film, e che era, “stando a chi la conobbe, una creatura dotata di uno straordinario gusto di vivere”. Da ciò, limitazioni d’ogni specie, a spese della sua libertà e del suo “privato”: in quegli anni arrivò anche il divorzio da Minnelli ed il terzo matrimonio, con il produttore Sid Luft, futuro padre di Lorna e Joey, gli altri suoi figli. Il suo equilibrio si appoggiava da tempo ad un uso continuo di farmaci che la potessero aiutare nella sua vita piena d’impegni, in particolare nei concerti che al “Palace” di New York e al “Palladium” di Londra producevano veri deliri d’entusiasmo. Anche un maldestro quanto innocuo tentativo di suicidio fece parte del tormento di quegli anni, e servì soltanto a renderle ancor più fedeli le sue migliaia di ammiratori di tutto il mondo. Era comunque necessario che lei si staccasse dalla Metro, la sua casa e il suo appoggio di sempre, che le si era trasformata in matrigna, oltre il lecito. E fu la stessa Metro a sciogliere il suo contratto.

Per qualche anno il cinema non fece parte della sua vita. Le bastavano i suoi indimenticabili concerti. In una serata al “Carnegie Hall”, tempio della musica americana, agli applausi senza fine del suo pubblico, rispose: “Ma certo che posso continuare a cantare…”. Ed era proprio il titolo di quello che, nel 1963, sarebbe stato il suo ultimo film: “I Could Go On Singing”. All’inizio degli anni ‘50 vi fu ancora un avvenimento importante per la sua carriera. Il “Palace” di New York, un teatro che dopo aver ospitato per anni le glorie del “vaudeville” era stato declassato a semplice cinema, venne riaperto festosamente. Judy, di ritorno da una tournée inglese, venne scritturata per il periodo della riapertura, previsto di quattro settimane. Fu prolungato, per lei, di alcuni mesi, e la serata finale fu memorabile.


“E’ nata una stella”.
Più che una nascita, una resurrezione.

Il trionfo al “Palace” riaprì alla grande le porte del cinema per la diva che si era smarrita. “A Star is Born”, del 1954, è il miglior film di Judy Garland in assoluto. Quest’attrice di trentadue anni,malgrado tutto, non aveva voluto cedere.
Il soggetto appartiene al grande filone dei film di “Hollywood on Hollywood” cioè del cinema che racconta se stesso. L’argomento, negli anni, è stato elaborato da tanti soggettisti e registi americani. L’ambiente era sempre la mecca del cinema, con gli attori famosi, le loro storie di ascesa e caduta, il loro mondo effimero e spesso molto amaro.
Da scrittori come Francis Scott Fitzgerald e Nathanael West con i loro romanzi “Gli ultimi fuochi” e “Il giorno della locusta” venne lo spunto a versioni su pellicola più o meno fedeli, e altri film ripresero l’argomento da vari soggetti, come “Il bruto e la bella” di Minnelli (1952) appena divorziato da Judy, oltre al classico “Viale del tramonto” (1950) di Billy Wilder.
Ma le citazioni non finirebbero più. Con il titolo di “A che prezzo Hollywood?” e in forma piuttosto diversa, il soggetto era già stato filmato da George Cukor, il regista che avrebbe poi fatto il film con la Garland. Era il 1932, e la protagonista era Constance Bennett. Pochi anni dopo, nel ‘37, William A. Wellman, che si era già imposto nel ‘31 con “The Public Enemy”, uno dei modelli del genere “gangster”, fu incaricato dalla “United Artists” di realizzare il primo “A Star is Born”, protagonisti Janet Gaynor, Fredric March e Adolphe Menjou. Il film ebbe l’Oscar alla sceneggiatura, e Fredric March una “nomination” per l’interpretazione. Il produttore, David 0. Selznick, volle impiegare il Technicolor, in una delle prime esperienze per un film non in costume, e ciò contribuì al grande successo. Il compito che attendeva Judy nel 1951 era quindi né facile né leggero. L’interpretazione di Janet Gaynor sembrava quasi irripetibile: lei era stata la diva di “Aurora” di Murnau e di “Settimo cielo” di Borzage, con il suo sorriso disarmante e i grandi occhi luminosi. Ma avevano in comune, oltre alle loro iniziali “J.G.”, delle sicure qualità di attrice.

Il soggetto, in breve. I due protagonisti sono Norman Maine, un attore famoso ma dedito all’alcool, ed Esther Blodgett, una giovane cantante d’un complesso musicale. Al loro primo casuale incontro, lei lo salva dal dare, ubriaco, un triste spettacolo di sé in un pubblico locale di lusso. E poco dopo la giovane gli si rivelerà in un’audizione col suo piccolo complesso, alla quale lui assiste, non visto: Esther ha nella sua voce un grande futuro. I due si incontrano ancora, ed è l’amore e il matrimonio. Norman le fa salire la scala del successo affidandola al suo amico fraterno Oliver, un grande produttore di spettacoli: Esther Blodgett diventa Vicki Lester, una beniamina del pubblico. Ma mentre lei sale, lui decade miseramente nell’alcolismo, ne gli giova un ricovero per disintossicarsi. Viene anche arrestato per ubriachezza molesta, mentre Esther e l’amico Oliver tentano ogni mezzo per salvarlo: la fama di Norman Maine si offusca completamente, secondo la legge spietata dello spettacolo. La sera in cui lei riceve un Oscar come attrice, lui riesce ancora una volta ad umiliarsi, con una penosa apparizione in pubblico. Vicki-Esther decide che, per salvarlo, deve stargli vicino e rinunciare per sempre alla carriera. Ma Norman viene per caso a conoscenza di questo proposito della moglie, e decide di sacrificare per lei la sua vita sbagliata: una sera esce dal loro elegante villino in riva al mare, e si annega. Lei vuole abbandonare il mondo dello spettacolo, ma il sostegno del suo pubblico e degli amici le farà lasciare ilproposito.

Scena finale: lei è l’ospite-protagonista di un “gala” benefico, e si presenta al pubblico plaudente dicendo: “Sono la moglie di Norman Maine”, letteralmente “Hello everybody, this is Mrs. Norman Maine”, con nome e cognome del marito scomparso.
Il film usci nelle sale nel settembre del 1954: successo enorme e candidatura di Judy all’Oscar per la migliore attrice. Fu premiata invece Grace Kelly per “Country Girl”, un film nel quale, curiosamente, si raccontava la storia di un cantante-attore (Bing Crosby) distrutto dall’alcool. In “A Star is Born” Judy ha come partner un grande attore drammatico, James Mason. Sono ormai lontane tutte le sue “performances” con i nomi più famosi dei “Musicals”. Ma il suo ruolo è quello d’una cantante di successo, e non poteva mancare per lei un valido sostegno in musica, pure in un film che con il musical classico non ha proprio nulla a che vedere.

Ed è così che lei trova nel suo repertorio alcuni motivi che vi introducono quasi un elemento drammatico, e sono fra le sue più belle canzoni. Quella che la rivela a Norman, nascosto in un angolo del piccolo locale dove lei prova coi suonatori, è lo splendido “The Man that got away” (l’uomo che era andato via). Il loro amore, felice all’inizio, è accompagnato da “It’s a New World” (Un nuovo mondo), e infine “Born in a Trunk” (nata in un baule), un numero musicale di diciotto minuti in cui Vicki Lester racconta la vita girovaga degli attori e le illusioni che sono il prezzo del successo. L’autore di buona parte di queste canzoni era ancora Harold Arlen, quello di “Over the Rainbow” di lontana memoria, e le parole di Ira Gershwin, il famoso fratello di George. Il film, come abbiamo visto, venne diretto da George Cukor, che nel 1932, con “A che prezzo Hollywood?”aveva già affrontato lo stesso tema, pur con alcune variazioni sui personaggi. “A Star is Born” è il titolo di ben tre film. Il soggetto, di cui erano autori la scrittrice Dorothy Parker con Robert Carson e Alan Campbell, è praticamente lo stesso per la versione del 1937 di Wellman e quella del 1954 di Cukor. La protagonista del film di Wellman non è una cantante (non era nelle pur splendide capacità di Janet Gaynor), ma una provinciale che sogna e realizza il suo domani di attrice del cinema. Del “remake” con Judy abbiamo detto a sufficienza: qui Esther Blodgett si trova lanciata al successo quasi involontariamente, e non ha il supporto familiar-provinciale dell’eroina del film precedente. L’ultimo “A Star is Born” è del 1976, diretto da Frank Pierson, e i due protagonisti si muovono nel mondo della musica rock. Lui è l’attore Kris Kristofferson, il cui personaggio aggiunge all’alcool il demone della droga. Lei è Barbra Streisand, e le sue belle canzoni danno a questo film mediocre l’unico motivo d’un certo interesse.

Nel 1954 Judy era considerata da tutti la vincitrice morale dell’Oscar. La sua interpretazione in “A Star is Born” non era stata assolutamente inferiore a quella di Grace Kelly in “The Country Girl”, ma si diceva che l’Academy, che assegnava i premi, fosse alquanto ostile alle protagoniste di film musicali. Tuttavia, malgrado questo pregiudizio, sarebbe stato d’obbligo almeno un “ex-aequo”. Fra i tanti amici che le furono solidali, Groucho Marx le mandò un telegramma nel quale parlava di una “autentica rapina”. Ma lei non fu troppo delusa per l’Oscar mancato. Questa volta era stata proprio la sua vita privata a darle una grande gioia, perché in quei giorni le nasceva il terzo figlio, l’unico maschio, Joe Luft.

I restanti anni ‘50 furono molto laboriosi. Nel ‘55 ebbe il suo atteso debutto alla televisione, e poi, impegni dovunque: l’anno dopo era scritturata al “New Frontier”, il “Night Club” più esclusivo di Las Vegas. E nel ‘57,mentre era a Londra per una serie di spettacoli, fu ospite della famiglia reale in una serata dedicata a lei. Non era altrettanto felice la sua situazione coniugale: con Sid Luft si susseguirono rotture e conciliazioni, e infine il divorzio. Anche la sua salute non andava bene: un notevole aumento di peso e poi un’epatite con prolungato ricovero in ospedale, con qualche altro mese di convalescenza. Ma nell’estate del ‘60 era di ritorno al suo “Palladium” di Londra, per un concerto davanti a duemila persone entusiaste. Qui conobbe e sposò Freddie Fields, un altro manager di spettacoli. Era il suo quarto matrimonio. Ma non l’ultimo: ve ne sarebbero stati ancora altri due.

Tre film drammatici, per una grande conclusione.

Il 1961 è l’anno del ritorno al cinema, dopo sette anni di assenza. Durante tutto questo tempo non le erano mancate le offerte di lavoro per lo schermo: dei “Musicals” divenuti poi famosi, come “South Pacific” o “Carousel” (questo con Sinatra come partner), e anche film come “Il laureato” di Mike Nichols, che sarebbe stato poi realizzato anni dopo con Anne Bancroft protagonista. Tutte queste proposte non ebbero seguito per vari motivi, soprattutto di estetica e di salute. Stanley Kramer era in quegli anni un ex-produttore passato alla regia con molto impegno, e nel ‘61 chiese la partecipazione di Judy al suo nuovo film “Judgement at Nuremberg” (Vincitori e vinti, per gli schermi italiani). Era un film molto lungo, 190 minuti, con un tema ancora scottante: la responsabilità dei giudici tedeschi sotto il nazismo e la loro adesione, attiva o passiva che fosse, alle nefandezze razziali del regime. Vi si rievocava uno dei processi più famosi, quello di Norimberga del 1948, che si concluse con l’ergastolo per tutti gli imputati. Un elenco enorme di attori, e ci limitiamo a citare Spencer Tracy, Marlene Dietrich, Burt Lancaster, Richard Widmark. Per un ruolo di testimoni al processo furono scelti Montgomery Clift e Judy Garland. Lei accettò subito.

Il suo personaggio è una modesta casalinga tedesca di mezza età, convocata dalla corte a raccontare come lei, sedicenne, fosse stata l’involontaria responsabile della condanna a morte di un ebreo, amico di famiglia, accusato di averla sedotta e di avere in tal modo “contaminato” la razza ariana nella persona della ragazza. La donna, Irene Hoffman, nega con disperata fermezza questo rapporto, limitato ad una paterna amicizia, rendendo così ancora più grave la responsabilità dei giudici tedeschi sotto processo. La presenza di Judy in questa pellicola-fiume è di una ventina di minuti al massimo, ma è la presenza di una grande attrice, in un ruolo tutto contenuto in due deposizioni sotto l’incalzare delle domande di un sulfureo Maximilian Schell, il difensore degli imputati, e di un violento Richard Widmark, l’accusatore americano.
La sua Frau Hoffman è una donna comune, non più la diva in ascesa di “A Star is Born”, e tanto meno è la deliziosa impiegatina di New York nel lontano “The Clock”. E la sua figura di povera creatura ferita nell’intimo dalla bestialità nazista emerge in tutto il suo valore umano. Per questo film, Judy ebbe la sua seconda “nomination” all’Oscar come migliore attrice (non protagonista, questa volta). Ma fu premiata invece una giovane e bella attrice per un “musical” famoso (ironia della sorte, pensando al passato di Judy). Il film era “West Side Story” l’attrice non protagonista era Rita Moreno.

Alle “prime” di “Judgement at Nuremberg” di San Francisco e di New York, il pubblico, attento e silenzioso mentre sfilavano sullo schermo i nomi degli attori, scoppiò in un fragoroso applauso alla comparsa del nome di Judy Garland. Quando glielo dissero, lei pianse, commossa.
Stanley Kramer, in seguito al grande successo dell’attrice tornata al cinema in una parte molto breve, la propose subito come co-protagonista in un film di cui lui era solo il produttore, affidandone la regia al giovane regista John Cassavetes. Cassavetes, poco più che trentenne, era agli inizi della sua personalissima carriera ricca di film importanti e originali, con interpreti “di gruppo”, reclutati da lui stesso, anche attore, fra amici e parenti, fra cui sua moglie Gena Rowlands. Il film è del 1963 e ha per titolo “A Child is waiting” (Un bambino sta aspettando, che nella versione italiana divenne “Gli esclusi”). Nella carriera di Cassavetes è quasi un’eccezione: un soggetto tradizionale tra la fiction e il documento, e due protagonisti di fama, Burt Lancaster e Judy. Ma c’era anche la Rowlands in un ruolo minore.
La trama veniva da un originale televisivo del 1957: Jean Hansen, una “single” al di là della trentina, si impiega in un istituto per ragazzi mentalmente ritardati, e lo fa per dare uno scopo alla sua vita. Siccome aveva in passato insegnato un po’ la musica, accetta la stessa funzione nell’istituto, di cui è direttore il dott. Clark (Burt Lancaster).

Jean si dedica con tenerezza al suo compito e si affeziona ai piccoli ricoverati. Uno di questi, in particolare, la segue dappertutto: per di più i genitori divorziati non vengono mai a trovarlo. Nasce un conflitto deontologico fra lei e il dott. Clark che segue i piccoli con molto impegno professionale ma con un certo distacco che ritiene utile per il loro bene. Lui le spiega pure che i bambini ritardati, in America, sono più di cinque milioni, “fra i quali anche la sorella di un Presidente” (alludendo alla sorella di Kennedy). Jean concentra il suo entusiasmo nel preparare una recita festosa (e faticosa) con i ragazzi, per Halloween. Il padre del suo protetto, venuto in istituto per riportarlo, deluso, a casa, rinuncia al suo proposito, e il film si conclude con l’arrivo di un altro piccolo ospite e relativo penoso distacco dai genitori, mentre si prevede una riconciliazione fra il direttore e la maestra di musica.
Il film fu girato in un vero istituto per ritardati mentali in California, e tutti i ragazzi sono dei ricoverati autentici, eccetto il piccolo protagonista. Non ebbe un grande successo: si deplorò l’evidente influsso di Stanley Kramer su un certo documentarismo sociale a fronte delle istanze umane del giovane regista greco-americano.

Sull’interpretazione della Garland non si fece alcuna riserva: questa maestra ancor giovane e desiderosa di essere utile apparve molto simpatica e molto determinata. Nessuna canzone di Judy: una lunga filastrocca stonata dei ragazzi è l’unico supporto musicale di questo film speciale.
Sempre nel 1963 viene proposta a Judy l’interpretazione di un film in Inghilterra. Lei è molto legata a Londra, con i suoi successi al Palladium e con tanti amici oltre Oceano. Le sue condizioni di salute sono discrete, e il suo desiderio di continuare ancora nel cinema è molto forte, soprattutto quando apprende che l’attore protagonista sarà Dirk Bogarde, suo amico da molto tempo (da quando, si racconta, lui le aveva distrattamente rovinato una preziosa toilette da sera bucandola con la sigaretta). Erano anche quasi coetanei.
Dirk Bogarde è già famoso, è proprio l’anno del suo “Il servo” di Joseph Losey, e i suoi grandi film con Luchino Visconti arriveranno negli anni seguenti. La produzione è tutta inglese, dal regista Ronald Neame agli altri attori, fra i quali il ragazzo Gregory Phillips, terzo interprete del film.

Il soggetto è piuttosto melodrammatico. A Londra uno stimato specialista in malattie della gola riceve nel suo studio una paziente un po’ speciale, Miss Jennie Bowman, famosa cantante americana, che deve esibirsi per dieci giorni al Palladium. Ma lei è un lontano amore del medico, e dalla loro relazione, tredici anni prima, era nato un ragazzo che lei aveva lasciato alla custodia del padre per potersi dedicare alla sua carriera. Lui si era poi sposato, e il figlio era stato adottato legalmente dalla nuova coppia. Ora la moglie è morta, il ragazzo è sistemato in un “College” molto esclusivo, e Jennie è ricomparsa per riprendersi il figlio. Dopo un rigido rifiuto del padre, lei ottiene di poterlo almeno vedere: gli si presenterà come una “amica d’infanzia di papà”. Riesce anzi a trattenerlo con sé un paio di giorni, e nasce fra i due un simpatico feeling sereno e un po’ complice (c’è persino una gita in un elicottero-taxi su una Londra da cartolina). Il medico deve poi recarsi all’estero per un consulto, e così lei può anche assistere ad una allegra recita dei ragazzi del college, dove distribuisce autografi e sorrisi a tutti, con grande orgoglio del suo nuovo giovane amico.

Tutto questo è accolto con molta ostilità dal genitore. Ma, come il melodramma esige, il ragazzo finirà per sapere la verità e il padre finirà per intenerirsi e rivelare a Jennie che l’ama ancora. Da ciò la prevedibile prospettiva di un happy end conclusivo. Siamo di fronte ad un film nel quale Judy Garland fa la parte di una cantante. Per di più ha appena interpretato due film drammatici e senza canzoni: qui Judy canta, e splendidamente. Il titolo italiano della pellicola era “Ombre sul palcoscenico”. Il titolo originale “I Could Go on Singing”, cioè “potrei continuare ancora a cantare”. Al cinema non avrebbe più cantato: fu questo l’ultimo film della sua vita.
“I Could Go on Singing” non è certamente un “Musical”, e si potrebbe definirlo un “mélo con canzoni”. A proposito di queste canzoni è necessario dedicare qualche parola al compositore che le aveva scritte: si chiamava Harold Arlen, ed era l’autore, assieme al suo fedele “paroliere” Yip Harburg di quell’ “Over the Rainbow” che sarebbe diventato la sigla musicale di qualunque spettacolo o concerto della Garland. Quella prima canzone era del 1939, e queste ultime del ‘63. Se per un “Songwriter” si può parlare di fedeltà, questo è proprio il caso: un quarto di secolo. Naturalmente non fu Arlen il solo autore di canzoni per lei. Nei suoi tanti film vi sono “songs” di Nacio Herb Brown, Arthur Freed, Richard Rodgers, George Gershwin, Harry Warren, Cole Porter, Jerome Kern, Irving Berlin. Praticamente, tutti coloro che hanno fatto la canzone americana.

Sempre nel suo ultimo film, la canzone finale ha per titolo “Hello Bluebird”, anzi “Mister Bluebird”, un saluto commosso ed affettuoso ai suoi piccoli amici che volavano verso l’arcobaleno di Dorothy. Nessuno poteva supporre che questo “Hello” sarebbe stato in realtà un definitivo congedo: neppure lei. La coincidenza fa veramente pensare: era il suo ultimo film con la sua ultima canzone, scritta per lei dallo stesso autore di allora. Non si può vedere quella sequenza senza commuoversi. Nei sei anni di vita che le rimasero, dal 1963 al ‘69, si dedicò esclusivamente alla sua musica, ai suoi concerti e ai suoi ultimi due matrimoni senza storia. Al suo pubblico rimase devota fino a quell’ultima serata di Londra, anche quando il suo fisico e i suoi nervi sembravano cedere.

Disse di lei sua figlia Liza: “Vorrei che si ricordasse la sua gioia di vivere. Quando era felice non era semplicemente felice. Era in estasi. E se era triste era più triste di chiunque. Ha vissuto otto vite in una. Era un grande talento e per il resto della mia vita sarò orgogliosa di essere la figlia di Judy Garland…”.

Il 22 giugno di quest’anno era il trentesimo anniversario della sua scomparsa. Molto opportuna la serata per Judy, organizzata nel nostro teatro Miela di Trieste, che comprendeva una serie di video inediti, una biografia, il suo concerto con Liza al “Palladium” , e altri ricordi. Sulla locandina, un famoso fotogramma da “E’ nata una stella”: il suo viso sorridente fra le due mani aperte, in un’improvvisata inquadratura.

Ricordiamola così.

Tutti sanno che i film di Judy Garland erano dei “Musicals”, fra i quali alcuni molto famosi. Oggi si vedono poco. Niente copie restaurate per i nuovi schermi, e pochi passaggi in TV, dopo una discreta rassegna su RAI-uno del 1984. La sua filmografia è vasta, trentasette film, fra il 1936 e il 1963: più di un film all’anno, su un percorso talvolta travagliato e irregolare per le circostanze della sua esistenza. Ma allo spegnersi delle luci in sala c’era sempre sullo schermo la sua musica, la sua voce, la sua professionalità, e soprattutto il suo amore per il pubblico. Nell’elenco delle sue pellicole ne abbiamo scelte cinque veramente “serie”, nelle quali il suo talento ci sembra molto significativo. In due di queste lei interpreta, con la solita classe, alcune canzoni toccanti, a supporto di un soggetto drammatico. Nelle tre rimanenti, incredibile ma vero, non ci sono canzoni. Questa nostra rassegna non percorre sentieri fatati né lascia scoprire arcobaleni. Ma ci conferma nella convinzione che le sue canzoni ed il suo stile di “Show-Woman” non erano tutto, perché Judy Garland è stata anche una grande attrice. (I.G.)

BIBLIOGRAFIA E ICONOGRAFIA
(I titoli contrassegnati con il simbolo contengono anche fonti iconografiche)

Anne Edwards, Judy Garland, a Biography. Ed. Simon & Shuster, New York 1975

Christopher Finch, The stormy Life of Judy Garland: “Rainbow”, Ballantine Books Editions, New York, 1976

Joe Morella & Edward Epstein, Judy. The films and career of J.G., Citadel Press Inc. New York 1970

Al Di lorio, Little Girl Lost, Robson Books Ltd., London 1975

James Juneau, Judy Garland, Ed. Milano libri, 1975

Tom Vallance, The American Musical, Timling & Co., London 1970

Arlen Keylin & Suri Fleischer, Hollywood Album, Arno Press, New York 1979 Robert Sklar, Cinemamerica, Feltrinelli, Milano 1982

Marion Vidal, Histoire des plus célebres chansons du cinema, Ed. M.A., Paris 1990

Philippe Paraire, Il cinema di Hollywood, Gremese Ed. 1990

Diane Jacobs, Hollywood Renaissance, Delta Books, New York 1977

David Thompson, A Biographical Dictionary of the Cinema, Secker and Warburg, London 1980

Michael Wood, L’America e il cinema, Garzanti, Milano 1979

Roberto Campari, Nascita di quattro stelle, Cinema e Cinema n. 39, aprile 1984

Articoli su quotidiani:

Fra i molti dedicati alla sua carriera, segnaliamo quelli in occasione della rassegna su RAI-UNO del 1984:

Alvise Sapori, Judy arrivò a Hollywood e tutti si accorsero che
era nata una stella, La Repubblica, 24 agosto 1984

Franco Berutti, Vitalità e disperazione di Judy, Il Corriere della Sera,
24 agosto 1984

Nel giugno del 1969, buona parte della stampa nazionale le aveva dedicato articoli in occasione della sua scomparsa. Nell’impossibilità di farne una rassegna, ne citiamo uno per tutti, quello di Leonardo Autera su Il Corriere della Sera del 23 giugno 1969.

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