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Scrittura

poesie edite | poesie inedite

Sergio Penco
Primo classificato sezione “poesia edita”

I CAPRIOLI

Passano gli anni come caprioli

tra picchi e balze della nostra vita

in un’estrema tensione verso il cielo

e prosciugano

tutte le nostre pozze d’innocenza

per placare la loro sete,

la loro arsura infinita.

E ci costringono così

ad amarci con sempre meno indulgenza,

ad arrancare verso le nostre mete

con eccesso d’intemperanza e poca fortuna,

fino all’ultimo battito prima della fine.

Appena nei dipressi del confine

ci accorgeremo che io non sono Tex Willer

e tu non sei la luna.

L’OSTERIA

Un gabbiano che plani per caso dentro un’osteria

sospinto dal vento e dai cattivi pensieri

non può fare altro che bere del vino rosso

e unirsi alla bella compagnia

in sarabanda di bestemmie e di ammiccamenti e giochi d’azzardo

girando invano lo sguardo

dagli angoli più celati a sotto i tavolini

dove ristagnano macchie d’unto e di muffa

e polvere, e facchini.

Eppure si sa che fuori dall’uscio, oltre le case grigie,

oltre la nebbia, oltre l’odore di ruggine,

aspro brulica il mare,

ma non è il caso di sbattere forte le ali

né di gemere come la pioggia che si uccide sui tetti,

nel riluttante spegnersi del giorno

è più opportuno fingersi uguali

al gatto, e fare le fusa, e sonnecchiare.

Dalle panche dell’osteria non si fa ritorno

ma il fumo dell’osteria raggiunge la luna.

Gian Luigi Falabrino
Menzione speciale sezione “poesia edita”

KUGLUF

Giovanna Zontar, slovena, nata

nell’Ottocentonovanta, a Trzic,

vicino a dove adesso passa il confine

con l’Austria. Era emigrata

come tanti contadini, era andata

a fare la serva a Vienna, al Cairo

e poi, nel Tredici, a Trieste.

Giovanna Zontar aveva visto morire

l’impero facendo la cuoca per una famiglia

austriaca, aveva visto venire l’Italia,

andare il fascismo al potere,

e lei continuava a servire.

Giovanna Zontar veniva da noi

(e ci sembrava già vecchia)

a fare i lavori di casa

e specialmente il bucato,

quando bisognava mettere l’acqua calda

nella vasca, il turchinetto e la liscivia

e strizzare le lenzuola con l’olio di gomito.

Chissà in che cosa Giovanna Zontar di Trzic

era diversa dalla Rosa di Sampierdarena

che avevo visto strizzare con smorte

forze il bucato, dopo averlo sbattuto sull’asse

del mastello e lavato con liscivia e turchinetto.

(Dopo l’8 settembre i tedeschi avevano staccato

Trieste Udine e l’Istria dalla Repubblica Sociale

e istituito il Litorale Adriatico, Adriatisches

Küstenland,(1) il nome di prima del Diciotto,

con il suo Gauleiter e la radio che mandava in onda

“Trieste saluta Vienna, Wien grüsst Triest”

e trasmetteva il notiziario anche in sloveno,

per cercare simpatie fra gli antichi sudditi).

Allora vedemmo Giovanna Zontar piangere:

“Xe venti ani che no podèvimo parlar nostra lingua

– disse nel suo duro triestino — e anca carsoline

che vien a vender late in zità finiva in chèba

se le cucava a parlàr per sloveno tra lori.

E ora xe prima volta che sento mia lingua per radio”(2),

diceva Giovanna Zontar piangendo,

perché‚ perfino i tedeschi un’ingiustizia

riparavano dei miei connazionali.

L’ultimo anno di guerra Giovanna Zontar

faceva la povera torta di riso nella forma

che era stata del Kugelhupf di cioccolata,

che lei chiamava kugluf,(3) surrogato di nome

per un surrogato di dolce. Insieme mangiavamo

pane e lardo, e sembrava che mai la guerra

dovesse finire, con gli allarmi, le bombe,

il cartone al posto dei vetri, il buio,

il carbone di legna, la œila per il pane.

“No la stia bazilàr, chi bazila mori”(4),

Giovanna Zontar slovena diceva a mia madre

sempre paurosa, sempre preoccupata.

E borbottava del mondo che aveva visto

dalle cucine di Vienna, del Cairo e di Trieste,

e aveva imparato che gli uomini xe tuti uguali,

cambia le bandiere e niente cambia,

e i pòveri quei ga sempre de bazilàr.

Kugluf la chiamavamo, noi ragazzi.

Aleksij Pregarc
Menzione speciale sezione “poesia edita”

CADAVERE CON BISACCIA

un mendicante si trasformò in ladro

e il ladro rubava

e riempiva la bisaccia

dimenticando le ristrettezze

ma non si accorse

che il vicinato gli invidiava

la crescente rotondità della bisaccia

eppure rubare è così naturale

storcere il furto in dolce pentimento

poi onorato e puro

librarsi nel cielo

e il ladro andò in paradiso

con la sua bisaccia d’oro

lasciando agli invidiosi un cadavere di sogni

Antonio Tirri
Menzione speciale sezione “poesia edita”

N. 51

Gerusalemme

città della pace

Tempio di Dio sulla Terra

rivolgi il tuo pensiero

al Signore

e purifica le tue strade

e la tua terra

dal sangue dei tuoi figli

morti per la tua vanità.

Tu hai abbandonato

le vie del Signore

hai dimenticato le Sue parole

e i Suoi Comandamenti.

Gerusalemme

dov’è la tua pace?

Tu non parli

parole d’amore

ma la tua lingua

detta leggi di fuoco

che avvampano l’animo

e le menti.

Tu eterna

città di Dio

dilaniata dal furore di uomini

che hanno perso il timore

di Dio.

Tu prediletta casa

del Signore

non emani più

profumi di offerte

d’allegrezza

ma la tua aria

ha l’odore putrido di cadavere.

Tu amata sposa

dell’uomo giusto

hai riposto il sorriso

gentile della purezza

e i tuoi occhi

son velati.

Ascolta, Gerusalemme,

il lamento del Signore

e ricorda

quel che ti disse

un tempo lontano.

Rivolgi, Gerusalemme,

la tua mente

al Signore

implora il Suo perdono

per i tuoi peccati,

chiedi che la Sua benedizione

ricada su di te

e affidati alla Sua misericordia

come fecero i tuoi Padri.

Gerusalemme

città di pace

in te dovrà compiersi

la volontà di Dio

che è volontà di pace

di amore, di giustizia

di fratellanza.

Ascolta, Gerusalemme,

la voce del Signore

e segui le Sue vie.

Sii santa

come il tuo Dio

e fa’ che sulla tua terra

scorra latte e miele

e non il sangue

dei tuoi figli e fratelli.

Il Dio di Abramo

di Isacco e di Giacobbe

è il Padre

di ogni essere vivente

e saprà parlare

al cuore degli uomini

di buona volontà.

Eugenio Pilutti
Primo classificato sezione “poesia inedita”

CANE DI GALILÈE

Si vin sintût avodâs

a un distìn masse grant,

par un panèt di tiare impastàde,

tirade su a man

su la traine di un torniu…

Erin zàris

la-jù in Galilèe.

No èrin prontis

al vin prufumât

in sgâmbiu

dal nostri séi âghe,

e no si devin pensêr

pa la nostre vergogne

di creps plens di nuje,

sujâs

da li bramis dal mont…

“Jemplêt” — Ti âs dite Signôr,

no savarìn mai

se in rispièt

dal malstà di une mâri,

o pa l’astîl

masse a lunc scjafoât,

di scuminsâ a darâ

li piartìis dal tîmp…

“Jemplêt…”

e di colp

no èrin pi zàris

e croste salade di tàrtar,

ma èrin òrnis,

di arzent e di ôru,

e prufùn, e fieste, e ligrìe,

pa la prime volte

che ti vìn cugnussût,

o Signôr…


CANA DI GALILEA

Ci siamo sentiti coinvolti/ in un destino troppo grande/ per un pane di argilla impastata/lavorata a mano/ nel movimento infinito del tornio…/ Eravamo giare/laggiù in Galilea…/
Non eravamo pronte/ al profumo del vino/ al posto/ del nostro essere d’acqua/ e non c’era preoccupazione/ per la nostra vergogna/ di cocci pieni di nulla/ prosciugati/ dai desideri del mondo…/
-“Riempite”- hai detto, Signore,! e non sapremo mai/ se accadde nel rispetto/ del disagio di una madrei o per l’impulso/ troppo a lungo soffocato/ di cominciare ad arare/gli infiniti campi del tempo…
-“Riempite… “-/ed improvvisamente/non eravamo più giare/ incrostate di tartaro/ ma eravamo urne/ d’oro e argento/ e profumo, e festa ed allegria/ per il primo nostro incontro/ con te, o Signore…

ÉMAUS

Sumiâsi

di ciaminâ soresere

discorînt

da la piere savoltàde

e dai sêns di malinconie

pal sintîsi uàrfins

da la Vôs

che veve ciaressât la Galilèe…

Sumiâsi

di séi sintâs

ta une ostarie di Émaus

cu l’inciant di un forest

ch’al scoltève

a propôsit dai marum

ch’al veve implenât il côr e il mont…

E sveâsi

come prins testemonis

dal pan crevât

come ta l’ultin da la Sene,

e tornâ a provâ la dolcesse

dal cognossiTi,

Signôr, come che Ti eris simpri stât:

a la mari cui semplis

e fiêr

di front ai gràinc’

che domenèvin

il podé dal polvar…

Eri propite iò,

Signôr,

un dai dòi

sintâs di front,

che mi partirai diluncsù tai sécui

l’amaresse

di no ve-Ti cugnussût,

come se il côr,

al vés dat in consegne

a li fuèis da l’autun,

li speransis e la siartesse

di sta insieme par simpri.

E cuantis voltis

ai sussedarà ancemò

di passaTi vissin,

di ciaminâ insieme,

di discori a taule

sense sintî il respîr di Diu,

ta al To vôs,

ta li Tôs mans,

Signôr…

Sense vê la furtune

dai vuàrps di Geric

che tal scûr dal siò mont

àn vût côr di viòdiTi…

E àn vude la Lûs

par simpri…


ÉMAUS

Sognarsi, /di camminare, sul far della sera,/ discorrendo della pietra rovesciata/ e del senso di malinconia/ nel sentirsi ormai privi/ della Voce/ che aveva accarezzato la Galilea… /
E sognarsi / di essere seduti / in un’osteria di Emmaus / affascinati da uno sconosciuto/ che ci ascoltava/ riguardo all’amarezza / che aveva riempito il cuore ed il mondo…/
E svegliarsi/ come primi testimoni / del pane spezzato / come alla fine della Cena / e provare ancora la dolcezza / del conoscerTi / Signore,/ come Ti eri sempre rivelato/ spontaneo con i semplici/ e forte di fronte ai grandi / che controllavano il potere della polvere…/
Ero proprio io,/ Signore / uno dei due/ seduti di fronte a Te,/ che si porterà lungo i secoli/l’amarezza / per non averti riconosciuto,/ come se il cuore avesse consegnato/ alle foglie d’autunno,/ le speranze e la certezza/ di stare insieme per sempre./
E quante voltei accadrà ancora! di sfiorarTi/ di camminare assieme/ di parlare a tavola/ senza sentire/ il respiro di Dio/ nella Tua voce,/ nelle Tue mani, Signore…/
Senza nemmeno avere la fortuna, /dei ciechi di Gerico/ che nel buio del loro mondo/ sono riusciti a vedetTi…/ E hanno avuto la Luce! per sempre…

“CUI CH’AL È SENSE COLPE”

No vevi mai vidût

scrivi tal polvar

cul sèn di un dêt,

cuasi che la me vite

al fòs un zòuc

di pissui clàs

savoltâs

– dret e ledrôs –

da li mans bramosis

dai frus….

Come se vendi amôr

al vès il valôr

di une vite,

Ti àn partât

tal pantanàs da li lès

– justìssie dai òmis –

mitînt a judìssi

un grunùt di stràs

sdramassât a pel tiare….

E adès no sai pi,

se eri jò

cul frêt savôr dal clàp

a’ bussâmi la man,

o se invèssi

eri jò

scufulìde

ta la memorie dal polvar

ingrisignìde li spalis

in spiete dal colp,

savôr ars di condàne…

E Tu?

Ti às sgiavât tal profont

di ogni jèssi,

sense vôs di condane,

ma cu la siartèsse dal jùst:

Cui ch’al è sense colpe…

E cuant mai

Signôr,

sarin sense colpe

e cu la pretêse di jùdis

“CHI È SENZA COLPA?…”

Non avevo mai visto scrivere nella polvere I tracciando segni col dito,/ come se la mia vita! fosse un gioco/ di piccoli sassi/ lanciati e rilanciati / — dritto e rovescio/ da avide mani di bimbi…/
Come se vendere amore/avesse pari valore/ di una vita / Ti hanno portato/ nel terreno infido delle leggi / — giustizia degli uomini — / ponendo al tuo giudizio/ un mucchietto di stracci stramazzato a terra…/
Ed ora non so più, se ero io che sentivo nella mano/ il freddo bacio della pietra, / o se invece ero io / rannicchiata / nella fredda memoria della polvere / con le spalle contratte/ in attesa del colpo, / impietoso sapore di condanna…/
E Tu?
Tu hai scavato in profondità / in ogni essere/ senza toni di condanna / ma con la certezza del giusto:/-” Chi è senza colpa…” –
E quando mai,/ Signore,/ saremo senza colpa,/ ma con la pretesa di essere giudici / saremo pronti / a scagliarci contro il fratello / che ha scavalcato / i confini oltre il peccato…?
Un sasso contro di Te,/ mio Signore/ che hai letto ogni malvagità/ dietro i bianchi mantelli/ della gente/ cominciando da un segno/ messo giù quasi per caso/ nella polvere/ ancora prima di alzare la testa/ e sapere…

Anna Rita Pinto
Menzione speciale sezione “poesia inedita”

I

>/ se bastassero le parole

non ci serviremmo

dei silenzi… …

se questi arrivassero

al cuore,

la mente

non avrebbe bisogno

di fare l’amore

II

>/ come saprei amarti uomo.

E per un gioco di ruoli

A cui sapremmo sottostare

Non potrei

Che perdermi

Fra le tue gambe con la dignità

Di una lolita e

Farmi succhiare i seni

Con la dolcezza

Di una madre

III

>/ ogni giorno porto

a te il mio saluto e ogni notte,

quando la mente si piega

alla luna

porto a te il mio desiderio

e non basteranno tempeste di sabbia

sul cuore

a farmi temere

il deserto

e non vi sarà caldo afoso

nella gola

a farmi bere altra acqua

se non dalle tue mani.

Guardami, se prima dell’amore

laverò per te

col latte le mie gambe

e sii fiero, se chinandomi

a te, offrirò ai tuoi occhi

il mio orgoglio da spezzare

Marianna De Micheli
Menzione speciale sezione “poesia inedita”

MILANO

Milano,

scendo dal treno, sono a casa;

io conosco quel muro

lo costeggiavo bimba con mia nonna,

questa piazza e questa via

ci passeggiavo dodicenne,

e in questo prato, su questa statua

con mio nonno ho imparato a camminare.

Milano,

tienimi qui e non mandarmi via

non mandarmi in città sconosciute

dai muri assassini,

ci sono nere strade e neri prati dove sprofondo.

Tienimi tra le tue braccia d’acqua

da ieri e per sempre sarò Milanese.

TANGO PARA DOS

Mi volteggi eti volteggio.

Le nostre guance unite.

E come due gatti abbracciati

palpiamo il pavimento

i nostri corpi si abbracciano

e uniti, scivolano in un acqua calda ed effervescente,

Siamo una goccia di crema profumata alla magnolia

che scivola su di un corpo umido di bagno bollente.

Noi siamo i fiumi di quel bagno

che volteggiano nell’aria,

pesanti e leggeri corriamo sui soprammobili

senza farli mai cadere.

Noi siamo il mare che balle a tempo sullo scoglio

e Io rende morbido

e siamo quei piedi estivi che si modellano allo scoglio ovattato

e lo calzano.

Noi siamo una caramella messa in bocca alla musica,

sciogliendoci ci lasciamo assaporare

e siamo quella bocca che

famelica ci mangia.

FORSE È LA NEBBIA

Forse èla nebbia

Forse palazziinquietanti

Oforse è chenon c’è città,

non c’è paese

è che non si può non stupirsi

è che è bravo,

è che sempre più bravi,

uno dopo l’altro.

È che non interessa chi siamo

è che forse il cibo?

è che forse la gente?

È che forse nulla deve stupire?

o che forse aveva ragione Ciarli Braun?

A che numero siamo?

È che forse dovrebbe essere giunto il momento

che il figlio muore e io non piango.

La vita intesa come viaggio può conoscere l’annientamento del naufragio o la serenità dell’approdo, ma può anche essere “sospesa” nell’inerzia immobile della deriva. L’odissea triestina di Penco non ha come epilogo né l’eroico sprofondare nel mare della conoscenza dell’Ulisse di Dante, né l’eroico ritorno alla riconquista della propria casa dell’Ulisse di Omero. L’uomo contemporaneo è sospeso tra accattivanti canti delle sirene e inquietanti visioni di mostri marini, al punto da credere insuperabile la distanza tra sogno e realtà. Non consolatoria, la poesia tuttavia abbandona nel mare della vita delle bottiglie che contengono messaggi, a volte oscuri, ma che intanto in un elemento pur cangiante come il mare, segnano una mobile traccia.

In un sapiente equilibrio tra prosa e poesia, queste “cronache da una marca di confine” si snodano lungo un percorso emblematico: a partire dall’infanzia, evocata dal nome di un dolce che tutte le mamme hanno cucinato per tutti i bambini di questa città cosmopolita si ripercorre il dramma di una maturità martoriata dalla storia. Come la madelaine di Proust il Kugluf di Falabrino ricupera un tempo perduto, che vuole essere ritrovato insieme alla fratellanza antica. La insegue attraverso la testimonianza di figure minori, come una cuoca, una serva, una maestra d’asilo, ma tali da diventare simboli dell’unico modo possibile per sopravvivere.

O r d i n a   i l   l i b r o 

Sergio Penco
BALLATE DAL
MARY CELESTE
(Ist. Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, 1998)
Pagg. 80 – £ 15.000

O r d i n a   i l   l i b r o 

Gian Luigi Falabrino
K  U   G  L  U  F
(viennepienne edizioni, 1995)
Pagg. 72 – £ 14.000

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