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Scrittura

La poesia di Miroslav Kosuta

La poesia di Miroslav Kosuta, originario del villaggio di Santa Croce (Kriz) presso Trieste (1936), si evolve da ormai quattro decenni in un costante processo creativo, che gli assegna un posto sempre più rilevante nella produzione lirica slovena contemporanea. A Trieste, Kosuta si colloca in quella generazione di artisti della parola, che si é affacciata sulla scena dopo la seconda guerra mondiale, in intimo contatto con la cultura letteraria slovena del tempo: privilegio di cui la generazione precedente, cresciuta sotto il fascismo, non aveva potuto fruire. Finiti gli studi medi presso le scuole slovene di Trieste, da poco istituite, Kosuta seguì i corsi di germanistica e letteratura comparata alla Facoltà di Lettere dell’Università di Lubiana, dove allacciò contatti con l’ambiente culturale sloveno, che conosceva in quel periodo — all’inizio degli anni Cinquanta — un processo di sviluppo dinamico quanto fruttuoso. Ciò fu manifesto soprattutto nella produzione poetica che, nei primi decenni del dopoguerra, spaziò attraverso fasi estranee e antitetiche: dalla semplice poesia in un certo senso collettiva e propagandistica del realismo sociale, al modernismo esistenziale più pronunciato, alla più audace sperimentazione della parola. Tutto questo fu ovviamente recepito da Kosuta, per quanto la sua poesia resti pur sempre pregna di echi e influenze legati, non solo nelle immagini esteriori, ma anche nei tratti dello spirito e dell’espressione, allo spazio geografico in cui veniva elaborata. Si tratta di uno spazio esposto da tempo a influenze contrastanti di cultura slovena, italiana e germanica, in cui l’identità degli sloveni, la loro coscienza nazionale e la loro lingua sono particolarmente vulnerabili alle sirene della snazionalizzazione.

Nelle liriche di Kosuta e pertanto possibile cogliere, nonostante la varietà delle sue esperienze esistenziali, la testimonianza di un inquietante destinopersonale e nazionale, inserito peraltro in modo evidente nel paesaggio che si estende da Trieste a Duino. Il corpus metaforico di Kosuta è infatti espressione di una tangibile realtà quotidiana, vissuta dal poeta in tutta la sua originalità, freschezza e forza primigenia. Nella sua poesia non possono dunque mancare quelle immagini di mare, barche e scogli, reti stese, alghe secche, vele gonfie, e del pari di pietre carsiche, vigneti, cespugli di sommacco, insomma del Carso nei suoi vari aspetti, che ne fanno il portavoce espressivo quanto eloquente della sua terra natia (Sempre di nuovo, O, pioggia, Canto di mare, Carsica pietra). Va comunque sottolineato che non si tratta di mero regionalismo letterario, in quanto questo materiale descrittivo, lungi dal rimanere tale, sa assurgere ad aperta metafora di più profondi significati, personali e sovrapersonali. Kosuta è infatti il cantore del proprio male di vivere, ma anche di quello nazionale e sociale della sua gente; e ciò, senza indulgere a toni declamatori, patetici o ampollosi, ma riuscendo — a volte con ironia ed acre sarcasmo — a farsi interprete di un’esperienza che, pur circoscritta al ristretto spazio del Litorale triestino, non appare per questo meno originale e profondamente umana.

Al paesaggio carsico sono talora intimamente legate quelle poesie, in cui riaffiorano i ricordi dell’infanzia passata nel proprio paese. Ne è un esempio assai suggestivo l’autobiografico Cantico del figlio di falegname, in cui si esaltano l’etica del lavoro umano e degli affetti familiari e la capacità di far fronte coraggiosamente, in silenzio, ai travagli della vita. La fierezza dell’individuo è specchio di una più vasta fierezza collettiva, che s’innalza, con riferimento evidente al Cantico delle creature di san Francesco, nella sfera della preghiera. Dall’intreccio tra il sacro e il profano, nasce un forte contrasto, che dà alla sua lirica un’emozionante valenza espressiva. Un’altra poesia da citare in tale contesto è quella dedicata ai Pescatori di Santa Croce, nella quale l’umile lavoro della piccola gente, cui il poeta si sente intimamente legato, viene esaltato come espressione di moralità e dignità umana e struggente ricordo di un mondo vivo solo nella memoria. Accanto a questi e simili ricordi, irrompono spesso nella lirica di Kosuta esperienze traumatiche della seconda guerra mondiale, che conobbe da bambino: quella per esempio, di fucilate venute a interrompere un gioco infantile, o dell’uccisione dei parenti più stretti. Il poeta appartiene a una generazione crudelmente segnata dalla repressione fascista, dalla guerra e dalla resistenza, tanto da portarne nella memoria un indelebile, pauroso retaggio.

Ma veniamo a Trieste e al complesso rapporto del poeta con la città, sentita come propria ed estranea insieme. La parentela col mondo triestino e con la sua cultura d’espressione italiana si rivela in modo eloquente nella lirica La capra in piazza, che si riallaccia esplicitamente alla poesia La capra di Umberto Saba. Kosuta stesso afferma che Saba, la cui libreria antiquaria frequentava timidamente da studente liceale, gli aveva fatto comprendere la possibilità di scrivere poesia di valore anche dedicandosi a tematiche modeste come una semplice partita di calcio o, appunto, una capra. Nell’ispirarsi al grande poeta triestino, Kosuta innalza a sua volta la capra in piazza a simbolo della giovinezza perduta, in significativa ed efficace polemica con l’ambiente urbano in cui è costretto a vivere. Nell’incertezza generale del mondo contemporaneo, questa appare come una ricerca delle radici, espressa con un lessico semplice ed elementare. Per Kosuta, Trieste non è però, come in molte poesie di Umberto Saba, solo una città in cui si consuma la sua vicenda privata, ma qualcosa di più complesso: una città in cui palpita il sofferto disagio di un’intera comunità etnica. Nel suo viscerale rapporto con essa, egli si trova costretto a confrontarsi di continuo con la problematica nazionale, quale testimone di un processo storico improntato a un senso di lenta, ineluttabile decadenza. Ne nasce un filone tematico che, come scrive il poeta e saggista Niko Grafenauer, trova sfogo nell’angosciosa domanda: “Come sopravvivere?”

I timori esistenziali degli sloveni al di qua del confine non sono quelli dei loro compatrioti della madrepatria. I problemi legati all’affermazione della propria identità, che negli anni Settanta impegnavano i poeti in Slovenia, sono avvertiti infatti in modo ben più drammatico da Kosuta, quotidianamente alla prova con l’assimilazione silenziosa della comunità di cui fa parte. Conscio di avere a disposizione come strumento lirico una lingua in pericolo di estinzione, egli non poteva dunque avere grande propensione per l’ermetismo, che, appunto in quel periodo, andava per la maggiore in Slovenia. Per lui, la lingua è una categoria etica e ontologica, radicata negli strati più profondi dell’io, non già mero mezzo di sperimentazione; d’altronde, chi scrive a quella parte della sua nazione che è tagliata fuori non può permettersi una sperimentazione linguistica, che rischierebbe di renderlo comprensibile a pochi. Per questo, egli avverte la necessità di trasmettere il suo messaggio poetico con tanta più forza, quanto più minacciata e soggetta a pressioni di ogni genere è la lingua di cui si serve. Egli però non può essere un bardo nazionale, come lo sono stati i poeti “classici” del Litorale: Simon Gregorcic, Igo Gruden, Alojz Gradnik. La sua opera, infatti, non ha nulla di programmatico e vitalistico, ma è semmai espressione di un profondo disagio, che si traduce soprattutto nel lamento.

Nel suo rapporto con Trieste, tuttavia, Kosuta non si limita a farsi cantore di una problematica nazionale, ma diventa anche testimone della generale decadenza della città, del suo oscuro e sterile chiudersi nel proprio glorioso passato e nei propri miti. La peculiarità di questa stanca realtà urbana si esprime, nella parte della presente antologia intitolata la Corrente del golfo, in tutta una serie di dettagli che presentano scene di palazzi fatiscenti, di vecchi caffè e bar di via Cavana, di saloni abbandonati, dove il parquet è corroso e i tappeti sono slabbrati, come se vi fossero annidati dei topi (Caffè degli Specchi, Nei bar di Cavana, Trieste triste, Il tè delle cinque). Lo sfacelo di Trieste si manifesta anche nelle vie e nelle piazze vuote, nelle navi abbandonate al molo, con la ruggine che si scrosta dalle loro fiancate (La nave abbandonata). E piazza Goldoni gli appare, una domenica sera, come uno spazio desolato, in cui il vicino tunnel, abitato da un’enorme e mostruosa seppia, vomita il nero della notte (Piazza Goldoni verso sera). Questa scena da incubo acquista nella fantasia di Kosuta un significato storico e, al limite, anche esistenziale e ontologico: il lento spegnersi di una comunità etnica, anzi, di un’intera città, non è forse metafora dell’inarrestabile sfacelo di tutto ciò che è umano? Non è un caso che il concetto chiave nel lessico di Kosuta sia la “paura ancestrale” (prastrah, Urangst), che affiora in determinati momenti storici, ma trascende la storia, in quanto simbolo di tutto il ventesimo secolo così pregno di sofferenza e di tragedia. Nella poesia che porta questo titolo, l’autore esprime con semplicità estrema e stringata il suo profondo smarrimento, la vana ricerca di una via d’uscita, che per lui diventa esperienza drammaticamente frequente (Fuga al chiaro di luna, Una selva infinita).

Comunque, questo sentimento d’angoscia non esclude il suo esatto contrario, cioè la speranza e la volontà di resistere. Una delle poesie più significative in tal senso è quella intitolata Questa Trieste, in cui è presentata l’immagine paradossale di una città condannata a morte, nella quale però arde pur sempre una fede tenace nella possibilità di riscatto.

Questa Trieste è come una città sull’orlo del mondo.
Vecchia e rituale, con la bancarella di case avanza,
gole umane come flauti suonando,
quando catturi nell’argento la sua sembianza.
Con decoro imperiale si scrosta il passato splendore.
Per le vie, navi scivolano sull’onda del vento.
Simile a una donna, si offre senza pudore.
I suoi morti sono più amari dell’assenzio.

Cinta di lingue che cantano canzoni,
ebbra d’incendio e austera di sale,
derubata del domani, dell’onore e illusioni
questa Trieste è come una fede immortale.

Questa Trieste, come afferma il critico Taras Kremauner, è in verità lo stesso Kosuta. E infatti, accanto alle immagini desolanti della città isterilita, si trovano, in tutta una serie di poesie dedicate a Trieste, delle scene piene di vitalità mediterranea, vivacità e grida gioiose, che rivelano l’altra faccia della personalità del poeta (Il mattino va al mercato, La venditrice con la bancarella): una personalità estroversa, che cerca vanamente di nascondere, con la propria esuberanza, il fondamentale sentimento di caducità del tutto.

La caducità e la morte non sono però avvertite solo su un piano oggettivo e impersonale: sono vissute anche a livello di esperienza personale, soggettivo, a tal punto da poterne enucleare il fondamentale messaggio di Kosuta. Si consideri per esempio la sua poesia La tavola, gravida di paurosi presagi, il cui tema principale è il commiato dalle persone care, la dipartita, che avrebbe ben presto colpito l’autore nei suoi più profondi affetti familiari: una metafora cara al poeta, che usa la concreta saldezza del tavolo, per contrapporla alla fragilità della vita umana, ma nel contempo ricorre anche a reminiscenze bibliche per rendere tutta la sua disperazione di uomo laico. Così, buona parte della confessione lirica sta sotto il segno dell’angelo della morte, che s’era avvicinato alla sua casa, marchiandone la porta col suo terribile fuoco. In un’altra poesia, dedicata alle Madri dei figli morti, queste sono come murate in una torre e “trascorrono tanto tempo alla finestra / che le consuma la luce del sole”. Ed ecco di nuovo il tavolo, quello del tempo felice, ma ormai segnato da una cara, struggente assenza (Tavola, seconda).

A tavola siamo intre soltanto,
il quarto è il nostro pianto.
Viene senza mai arrivare,
parte senza mai andare.

In tale prospettiva, la condizione dell’uomo appare a Kosuta priva di senso, dominata da un costante, angoscioso sentimento della solitudine e del trapasso:

Nell’indifferenza della folla
solo
dal nulla al nulla

Anche presso Kosuta il nulla e la morte, che con tanta subdola prepotenza si sono insinuati nella poesia europea del ventesimo secolo, sono in agguato, pronti a ghermire l’individuo, invano chiuso nella sua fragile impotenza. Se è vero, come dice Claudio Magris citando Kafka, che la letteratura di un piccolo popolo ha bisogno di parole di conforto e d’incoraggiamento, senza le quali non riesce a sopravvivere, allora bisogna concludere che le poesie di Kosuta non rispondono a tale tesi: parole di conforto e di sostegno sono rare nelle sue raccolte; la sua lirica non cerca di consolare, blandire o calmare: lo spazio spirituale in cui si realizza è quello di una realtà ormai priva di idillio, di pathos, di idee gioiose, immersa in un nulla senza prospettive. Ciò tuttavia non infirma quei valori — la lingua e l’ethos nazionale — che il poeta, facendosi portavoce di tutta una comunità di cui è espressione, continua a coltivare con caparbia volontà e fiduciosa costanza: nel buio della sua disperazione, Kosuta non rinuncia, nonostante tutto, all’accendere qualche fiammella di vita.

In questo senso, è sicuramente significativa la sua poesia per ragazzi che per valore e impegno creativo non sfigura affatto accanto alla lirica “maggiore”. Con acuta sensibilità verso i risvolti dell’animo infantile e la percezione del mondo da parte dei più giovani, e con felice scioltezza nel coniare versi e intrecciare immagini in gioiose ghirlande, egli riesce a divertire il lettore, piccolo o grande che sia, sorprendendolo continuamente con motti di spirito e con inediti, audaci accostamenti di parole e suoni.

Naturalmente, Kosuta non s’accontenta di ciò, ma spesso, soprattutto nelle più recenti raccolte, introduce nelle sue liriche anche frammenti di riflessione, clic, come egli stesso sottolinea, le collocano talvolta alla frontiera tra la poesia per ragazzi e quella per adulti.

Miroslav Kosuta è nato a S. Croce di Trieste (Kriz) nel 1936, ha frequentato il liceo scientifico sloveno di Trieste e continuato gli studi all’Università di Ljubljana, dove si é laureto in letteratura comparata e teoria letteraria. E’ stato redattore alla Radio di Ljubljana e dopo il ritorno a Trieste, tra l’altro, per più di vent’anni direttore artistico del Teatro Stabile Sloveno.

Poeta, drammaturgo e traduttore, ha pubblicato la sua prima raccolta

Morje brez obale (Mare senza lidi) nel 1963.

Seguirono:

Pesmi in zapiski (Poesie e annotazioni, 1969)

Trzaske pesmi (Poesie triestine, 1973)

Pricevanje (Testimonianza, 1976), Premio Fondazione Preseren 1978

Selivci (Migratori, 1977)

Pesmi (Poesie, 1978), antologia

Robidnice in maline (More e lamponi, 1983), cento epigrammi

Potem znenada ptica – Poi, d’improvviso un volo, traduzione di Arnaldo Bressan (cartella grafica di C. Palcic, 1988)

Odseljeni cas (Il tempo traslocato, 1990), traduzione di Daria Betocchi, Premio Kosovel 1995

Riba kanica (Il pescecane, 1991).

Poesie per ragazzi:

Kje stanujes, mala miska? (Dove stai di casa, topolino?, 1975)

Zaseda za medveda (Imboscata per un orso, 1977)

Abecerime (L’abc in rima, 1979)

Pticka smejalka (L’uccello del riso, 1984)

Zidamo dan (Costruiamo il giorno, 1987), Premio Kajuh 1988

Na Krasu je krasno (Di corsa sul Carso, 1988), Premio Levstik 1989

Kavka s Kavkaza (La cornacchia del Caucaso, 1992)

E’ autore di alcune commedie, messe in scena dal Teatro Stabile Sloveno di Trieste, dal Primorsko dramsko gledalisce di Nova Gorica, dal Teatro Nazionale Sloveno di Maribor e dal Dramma Italiano di Fiume, e di numerosi radiodrammi per ragazzi, prodotti da Radio Ljubljana e dalla sede slovena della RAI di Trieste, per la quale ha scritto pure tre testi ispirati ai ricordi di un’adolescenza in tempo di guerra: Mreza in zvezde (La rete e le stelle), Gora, imenovana sin (Una montagna di nome figlio) e Kadar te zbudijo (Quando ti svegliano), pubblicati nel 1982 con il titolo Tri igre za glas (Tre drammi per voce).

L’ultimo suo libro è una raccolta di scritti politico-culturali Na hirbtu vala (Sul dorso dell’onda, 1996).


Miroslav Kosuta
Memoria del corpo assente (ZTT EST – consorzio culturale del monfalconese, 1999) – Pagg. 228

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