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Cinema

Le forme dello spazio inosservato (III)

CAPITOLO 4: Occhio privato sul nuovo mondo di Alfredo Leonardi

4.1. — Analisi del film
Occhio privato sul nuovo mondo è un documentario del 1969 sugli Stati Uniti, sulle agitazioni politiche, i disagi delle minoranze e le manifestazioni artistiche underground.  Leonardi  realizza questo film durante un soggiorno negli USA, reso possibile da una borsa di studio che gli doveva consentire di occuparsi del cinema underground americano. Risultato di questa esperienza è il libro Occhio mio dio sul New American Cinema. Si tratta quindi di un viaggio fatto alla ricerca di quel cinema di cui Leonardi aveva tanto parlato in Italia nei suoi interventi pubblicati sulle riviste cinematografiche, che aveva già conosciuto attraverso festival e rassegne e che ora si appresta ad incontrare direttamente. Un viaggio alla ricerca di un mito, quindi, che purtroppo si rivelerà una delusione. Evidentemente la situazione reale non è come aveva sperato. La delusione si legge già nelle prime righe dell’introduzione al libro:

“A più di trent’anni dalla sua nascita, il cinema americano d’avanguardia, sperimentale, indipendente, underground — come è stato variamente definito — è più sotterraneo che mai. […] A furia di guardarsi in uno specchio dimenticano [i film-makers] che il loro vasto mondo si muove e progredisce senza di loro e si trovano alla fine soli, con l’unica compagnia dei loro tesori e sventure, destinati a una lenta asfissia per mancanza dell’ossigeno derivante da un contatto vitale col loro popolo. La società americana è in questo senso implacabile ed è questo il suo premio per lo sfrenato culto dell’individuo che predica: ognuno — gelosissimo della propria peculiarità  irripetibilità — crea altre barriere intorno a sé e deperisce lentamente nel timore del prossimo e nella sfiducia di un generale miglioramento.”
Queste parole velate di amarezza introducono comunque un’ampia trattazione sul cinema underground americano, svolta in una serie di capitoli dedicati ognuno ad un autore diverso, rivelando in questo modo la sua approfondita conoscenza dell’argomento. Quest’opera ancora oggi in Italia rappresenta un valido strumento di studio.
A distanza di trent’anni Leonardi tornerà a parlare di quest’esperienza e, pur mantenendo la stessa opinione, userà toni più pacati, e giustificherà anche la sua delusione considerando lo stato di entusiasmo e di esaltazione in cui viveva allora: “Vivevo allora in un empireo esaltato in cui la creazione artistica si fondeva completamente con la vita, e non a caso considero il ’67 come l’acme della mia ricerca espressiva cinematografica.”

Ed inoltre:
“[Il 1969] Fu l’anno del mio viaggio negli Stati Uniti sulle tracce dei film-makers del New American Cinema, mitici esempi che grazie a Jonas Mekas avevo scoperto esser già da tempo incamminati per la via creativa che anch’io battevo, e che non sapevo esser così frequentata. Ma Stan Brakhage, annidato sulle Montagne Rocciose, Bruce Baillie nascosto in qualche località agreste della California, i fratelli Kichar mimetizzati in un’anonima periferia newyorkese, risultavano dispersi e quasi annichiliti dalle più mostruose manifestazioni che avessi mai visto contro la guerra in Vietnam e da proliferanti dimostrazioni di Black Panthers, Young Lords portoricani, gruppi maoisti e quant’altro.
Questo viaggio, nato sotto tutt’altri auspici e propiziato da stimoli che già stavano avvizzendo, fu quindi una specie di Götterdämmerung, un crepuscolo degli dèi, dèi miei e del piccolo dio che ero anch’io nella mia veste di creatore, dio pur richiamato nel titolo del mio libro americano (Occhio mio dio)”.

Leonardi quindi, deluso da una cinematografia non così vitale e fertile come si sarebbe aspettato di trovare, rimane comunque colpito dalla condizione di degrado in cui, negli Stati Uniti, vivono le minoranza etniche e volge lo sguardo sulle loro lotte, sulla loro rabbia e disperazione.
Questa scoperta risveglia in lui l’aspetto rivoluzionario della sua attività artistica e lo porta a realizzare appunto il film Occhio privato sul nuovo mondo.
Sia il titolo del film che quello del libro iniziano con la parola “occhio”, solo che mentre nel primo caso l’occhio rappresenta il “dio” creatore, il realizzatore dell’opera d’arte, nel secondo caso l’occhio è quello privato di una persona che si limita a raccogliere quegli sprazzi di una realtà poco visibile (anzi, per usare un termine appropriato all’epoca, potremmo dire proprio “sotterranea”), ed eleggendola protagonista di un film, la porta alla luce del giorno, la rende evidente per tutti.
Questo concetto di “occhio privato” nel cinema documentaristico e di cronaca è un elemento estraneo che rompe il confine tra cronaca e cine-diario. Nel film coesistono modi diversi di vedere e di proporre la realtà, che se in alcuni casi possono apparire omologabili alla cronaca in altri acquisiscono una qualità più personale ed intima che sfiora la poesia.
Anche in questo caso un’analisi delle varie sequenze si è dimostrata molto utile. Le immagini sono sempre accompagnate dalla voce fuori campo del regista che, coerentemente con lo stile classico del documentario, spiega in maniera dettagliata le immagini e lo svolgimento delle situazioni.
Dopo aver effettuato l’analisi delle sequenze (anche in questo caso è riportato lo schema relativo nella parte terza) ho rintracciato tre temi principali e raggruppato le stesse secondo questi temi:

1) l’esplorazione del mondo esterno, dove gli elementi della realtà quotidiana, le persone che si incontrano per strada, i giochi dei bambini si combinano in un’atmosfera gioiosa e “colorata”, il tutto tra New York e San Francisco, nel rispetto del classico percorso coast-to-coast.
2) la realtà politica e sociale: assistiamo alle manifestazioni delle Black Panthers, a quelle organizzate dagli Young Lords, l’organizzazione per la salvaguardia dei diritti dei portoricani residenti negli Stati Uniti, le manifestazioni dei bianchi contro la campagna in Vietnam di Nixon, “il moratorium day”.
3) il cinema underground americano, punto di riferimento dell’autore stesso.

Al primo gruppo appartengono:

  • la sequenza 1 dove l’atmosfera festosa delle persone che fanno volare gli aquiloni a Central Park, accentuata dalle inquadratura sugli aquiloni colorati che si liberano nel cielo è in aperto contrasto con quella più cupa delle strade nel lower east side;
  • le sequenze 6, 8 e 14: nella prima dei bambini portoricani giocano con gli idranti antincendio sollevando colonne altissime d’acqua e nelle altre due gruppi di bambini giocano nel cortile sotto l’abitazione di Leonardi;
  • particolarmente festosa e colorata è la sequenza 9 dove viene ripresa la festa di San Gennaro a Little Italy, dove, però, la generale atmosfera spensierata, viene turbata dalla ingombrante presenza di alcuni politici presenti alla manifestazione, molto probabilmente a caccia di voti;
  • Central Park, con la sua coloratissima scena, ritorna nella sequenza 10 dove si vede in azione il gruppo teatrale di “Burning City”;
  • infine la penultima sequenza, la 17, ci mostra prima due surfers che cercano di rimanere in equilibrio affrontando le onde dell’oceano, e subito dopo lo spettacolo di strada di un gruppo di danza moderna; la scena con i surfers è praticamente identica a quella del film di Andy Warhol Surfing Moviei (1968).

Il secondo gruppo è riservato agli avvenimenti politici che vedono lottare in prima linea le minoranze per il riconoscimento dei loro diritti.
Ampio spazio è dedicato da Leonardi alle Black Panthers con tre sequenze molto lunghe (la sequenza 4, 5 e 15): mentre le prime due sono ambientate a New York, la terza è girata a San Francisco e ripercorrono quindi la storia del movimento nelle sue tappe fondamentali segnate da scontri con le forze dell’ordine, e da manifestazioni di protesta per l’ingiusta reclusione di qualche rappresentante.
L’atto di nascita delle Pantere nere data all’ottobre del 1966 ad Oakland con la pubblicazione de “La piattaforma e il programma del partito” in dieci punti. Porta la firma di Bobby Seale e di Heuey Newton, il leader e il “ministro della difesa” della nuova organizzazione.
Le origini di questa nascita si devono ricercare nella disumana condizione dei neri all’inizio degli anni ’60, nel movimento dei diritti civili, e soprattutto nella rivolta dei ghetti e nell’assassinio di Malcom X (2 febbraio 1965).

Il teorico del partito era Eldridge Claver il terzo leader del movimento, che investiva la carica di “ministro dell’informazione” e che teorizzò un doppia spinta per la liberazione dei neri nella colonia bianca , e per la rivoluzione marxista nella “Babilonia del capitalismo”.
Un evento portò le Black Panthers agli onori della cronaca: il 2 maggio 1967 trenta pantere nere, guidate da Bobby Seale, fanno irruzione nel palazzo del Parlamento di Sacramento, nello stato della California, Armati, ottengono l’autorizzazione legale  di leggere il “mandato esecutivo numero uno” del partito. Questo episodio portò al partito una grande popolarità, tanto che i tesseramenti salirono alle stelle, ma l’organizzazione non fu in grado di filtrare queste nuove iscrizioni e troppo tardi si rese conto di aver aperto le porte anche a criminali e a informatori della polizia. Da questo momento iniziò la parabola discendente del partito. Bisogna tener presente che sia i successi che le sconfitte delle Black Panthers si misurano sempre in scontri diretti con le forze dell’ordine, più che con le forze politiche o con l’opinione pubblica.
L’episodio di protesta che viene citato da Leonardi avviene proprio quando la crisi del movimento è già in atto e i suo leaders sono imprigionati con accuse probabilmente false, montate per incastrarli: Heuey Newton viene arrestato il 28 ottobre 1967 per l’omicidio di un poliziotto. Verrà liberato nel 1970 per mancanza di prove a suo carico, mentre Bobby Seale cade in una trappola nel maggio del 1969 quando viene accusato di aver torturato ed ucciso un compagno sospettato di essere informatore della polizia.
Al terzo gruppo appartengono invece la sequenza 3 e la 12, ambedue ambientate a New York. Nella prima vediamo l’esibizione di danza di Mario Montez, l’attore transessuale protagonista di moltissimi film di Andy Warhol tra i quali ricordiamo: Harlot (1964) parodia della attrice Jean Harlow, Hedy (1965) dove veste i panni di Hedy Lamarr, Mario Banana (1964) e Screen test n. 2 (1965) dove in entrambi il soggetto è un provino.

Nella seconda vediamo Jonas Mekas e P. Adam Sitney passeggiare con l’autore in Central Park, Mekas sempre accompagnato dalla immancabile cinepresa: questa scena non può non ricordarne una simile vista nel film di Mekas Reminiscences of a Journey to Lituania, dove vediamo Peter Kubelka passeggiare nel parco circondato dai piccioni. Questo film è posteriore a quello di Leonardi, risale infatti al 1972, ma rappresenta comunque lo stile di Mekas, dei suoi diari cinematografici, ai quali, in questa sequenza si ispira anche Leonardi.

4.2. — Il genere documentaristico-diaristico

Questo  film appartiene al “filone” dei documentari e dei cine-diari, filone nel quale la messa in scena viene abolita per lasciare spazio alla realtà. Il regista non allestisce un set per rappresentare una storia, ma il set diventa la strada, e la storia cede il posto al paesaggio e ai volti delle persone, spesso sconosciute, che incrociano l’obiettivo della cinepresa, oppure appartenenti agli amici che accompagnano il regista nelle riprese.
Questo modo di fare cinema, che dalla critica viene definito “cinema verità” o “cinema diretto”, trova origine nelle teorie di Dziga Vertov.  Secondo Vertov il cinema ha la possibilità di cogliere aspetti della realtà che sfuggono all’occhio umano. Di conseguenza l’oggetto privilegiato del cinema non doveva essere la narrazione, ma la rappresentazione della realtà.
Pietro Montani nei suoi studi sull’estetica cinematografica, riassume la teoria di Vertov sul cinema verità e le altre teorie sul documentario cinematografico, tra cui quella di Grierson, compatibili con essa, nel principio secondo il quale:
“la forma del cinema sarebbe capace di organizzare la memoria dell’esperienza visiva non solo in modo significativo, ma anche, per così dire, in modo cognitivamente originale o, meglio, in modo particolarmente appropriato a far emergere e a rendere intelligibili certi tratti della realtà altrimenti indiscernibili.”

Sempre a proposito di Vertov, Montani rileva che il mezzo cinematografico viene usato proprio per le sue qualità di elaborazione della realtà al servizio di una percezione visiva maggiore:
 “Ciò che lo appassionava, invece, era la possibilità di modificare, mediante l’intervento formale della macchina da presa, certe condizioni della percezione visiva (nella fattispecie: la durata) per ottenere il rilevamento di certi dati che, altrimenti, sarebbero sfuggiti, o, insomma, per ottenere una rappresentazione più documentata.”
La macchina da presa riesce quindi a sorprendere il fatto documentandone una serie di sfumature che altrimenti sarebbero sfuggite all’occhio umano.

L’underground americano, come precedentemente esposto, si è ispirato molto a queste teorie, e Alfredo Leonardi nel suo libro ricorda a tale proposito alcuni film di Ron Rice, soprattutto Senseless (1962) “cronaca visiva estremamente soggettiva e slegata di un viaggio in Messico”  e gran parte dell’opera di Jonas Mekas. Il grande animatore dell’underground americano, infatti, fonda la sua creatività sugli avvenimenti quotidiani, vissuti e rappresentati in una dimensione di intima sensibilità. Già nel suo film The Brig (1964), nel quale riprende l’omonima rappresentazione teatrale del Living Theatre della vita in un carcere militare, prevale la rappresentazione della visione soggettiva dell’operatore (Mekas stesso), piuttosto che quella della originale messa in scena teatrale, che puntava il senso su alcuni particolari, che nel film magari non appaiono. Nei Diaries (1964-1969) questa sensibilità alle “piccole scoperte che l’occhio non ancora appannato può fare giorno per giorno nell’ambiente in cui vive”  viene manifestata con più libertà senza ricorrere ad ideologie estranee alla sua personalità o a messe in scene già di per sé significative come era successo con The Brig:
“Nei Diaries, l’occhio e ancor più l’anima di Mekas spaziano liberi e puri e raccolgono come passeri leggeri e liberi da tortuosi pensieri, pagliuzze di immagini per farne una costruzione semplice, accurata, accogliente, profondamente umana sia pur nella sua dimensione invalicabilmente individualistica.”

4.3. — Filmografia dell’autore

1964 Indulgenza plenaria 10’ 35 mm colore sonoro su pista ottica
1965 Living & Glorious 21’ 35 mm bn sonoro su pista ottica
Stoccolma per un giorno (colore muto)
La festa ambigua (colore muto)
1966 Musica in corso 14’ 35 mm bn sonoro su pista ottica
Noi
Amore amore 75’ 35 mm bn & colore
La coppia
1967 Cinegiornale 3’ 16 mm bn sonoro su pista ottica
 J. & J. & Co. 9’ 16 mm bn sonoro su pista ottica
 Organum multiplum 17’ 16 mm bn sonoro su pista ottica
 Se l’inconscio si ribella 21’ 16 mm bn sonoro su pista ottica
1966 Esercizio di meditazione 9’ 16 mm colore sonoro su pista ottica
Può la forza di un sorriso 5’ 16 mm bn sonoro su pista ottica
Le n ragazze più belle di Piazza Navona 13’ 16 mm bn sonoro su pista ottica
Libro di santi di Roma eterna 15’ 16 mm colore sonoro su pista ottica
1969-70 Occhio privato sul nuovo mondo 70’ super-8 colore sonoro su pista magnetica
1970 Vampiro romano 25’ super-8 colore sonoro su pista magnetica 24 fts
Vogliamo una casa subito, 40’ (con Guido Lombardi, Anna Lajolo e Paola Scarnati)
La casa è un diritto non un privilegio, 15’ (con Guido Lombardi, Anna Lajolo e Paola Scarnati)
1971 E nua ca simu a forza du mundu, 65’ 16 mm bn (con Guido Lombardi e Anna Lajolo) per la RAI
Loro dicono che fumo non ne fanno, 13’ (con Guido Lombardi e Anna Lajolo)
1972 Il fitto dei padroni non lo paghiamo più, 35’, video (Videobase)
Sotto le stelle, sotto il tendone, 70’ video (con Alfredo Leonardi) per la RAI
& — Là il cielo e la terra si univano, 75’ 16 mm bn
1973 Carcere in Italia, 60’ video (Videobase)
Quartieri popolari di Roma, 50’ video (Videobase)
Policlinico in lotta, 60’ video (Videobase)
1974 Lotta di classe alla Fiat, 75’ video (Videobase)
Omsa sud, dopo un anno di lotta, 50’ video (Videobase)
1975 Lottando la vita, 104’ video (Videobase)
1976 Isola di San Pietro 80’ video ½ “  (con Guido Lombardi e Anna Lajolo) per la RAI
1974-77 L’isola dell’isola, 85’ video (con Guido Lombardi e Anna Lajolo) per la RAI
1979 Il lavoro contro la vita, due puntate 49’ e 58’ video (con Guido Lombardi e Anna Lajolo) per la RAI

CONCLUSIONI

I film analizzati sono solo un esempio di come gli autori del cinema sperimentale italiano abbiano affrontato la problematica del rapporto con la realtà, di come cioè la loro opera poteva porsi nei confronti di un reale che, per una profonda esigenza, tendevano ad elaborare in maniera diversa, soprattutto ponendo l’attenzione su aspetti ulteriori rispetto a quelli che la cultura ufficiale proponeva.
Si è visto come ad esempio Bacigalupo rielaborasse la sua realtà attraverso un filtro composto da elementi culturali acquisiti durante i suoi studi, mentre invece Bargellini con la sua personalità molto più istintiva usasse le possibilità tecniche e chimiche del mezzo cinematografico per riproporre la realtà, trasfigurata da uno sguardo visionario. Guido Lombardi e Anna Lajolo decidono ad un certo momento della loro esperienza nel cinema sperimentale di far confluire le ricerche a favore degli strati della popolazione più nascosti e quindi più bisognosi di attenzione. Da qui deriva il loro impegno nel realizzare un cinema sociale che si imponesse all’attenzione dell’opinione pubblica per svelare situazioni comunemente e volontariamente ignorate dai mass-media istituzionali. E, seguendo un processo molto simile al loro, anche Alfredo Leonardi abbandona quelle illusioni di libertà, prospettate da un cinema che gli aveva permesso di esprimere i propri desideri e le proprie visione private, in favore di una società emarginata a cui sente il bisogno di dare, in qualche modo, una voce.

Più di vent’anni fa la constatazione delle possibilità di elaborare linguaggi diversi aveva portato Adriano Aprà a prevedere uno sviluppo dello sperimentalismo verso la cultura di massa e la sua diffusione.  Il cinema sperimentale si è liberato di tutte le strutture ingombranti proprie di quello commerciale e, grazie a questo alleggerimento, è potenzialmente più agile e libero per circolare tra il maggior numero possibile di persone.
Il merito di questa diffusione è soprattutto dell’evoluzione dei mezzi tecnici: la rivoluzione attuata dal super-8 consiste proprio nell’aver dato la possibilità alla maggior parte delle persone di fruire attivamente di un mezzo e di un linguaggio, quello cinematografico, che finora era stato irraggiungibile e relegato alla sola funzione ludica.
Tale previsione diventa una vera e propria preveggenza se pensiamo all’attuale sviluppo del video e alla sua massiccia diffusione domestica, e alla evoluzione della tecnologia digitale.

Questa non è altro che una conferma di come delle esperienze artistiche considerate marginali e sotterranee rispetto alla cultura ufficiale siano in grado però di incidere profondamente sulla realtà, e tornando a considerare l’atteggiamento comune degli autori esaminati, notiamo come questo è finalizzato a far emergere dalla realtà quell’aspetto che nel titolo della presente trattazione ho chiamato appunto lo “spazio inosservato”, che si trova allo stato di latenza, ma di potenziale manifestazione, ed i film non sono altro che le “forme” con cui affiorano questi aspetti della realtà.
Dal punto di vista teorico-linguistico una possibile lettura di questo atteggiamento è ravvisabile nel saggio di Roland Barthes Il grado zero della scrittura.  Barthes prende in considerazione la scrittura borghese, con le sue certezze, come il limite da superare per lo scrittore moderno che si trova ad elaborare un tipo di realtà e di filosofia dove queste certezze sono del tutto estranee. L’atteggiamento dello scrittore “rivoluzionario”, il cui maggiore impedimento è proprio lo strumento che ha a sua disposizione, vale a dire un linguaggio coniato da quella stessa tradizione che ora lui si ripropone di combattere, può oscillare tra due limiti estremi. Il primo è la sostituzione della scrittura con il silenzio, ossia l’autore si predispone a disintegrare il linguaggio: “la scrittura si riduce allora a una specie di modo negativo nel quale i caratteri sociali o mitici di un linguaggio si annullano a vantaggio di uno stato neutro e inerte della forma.”

Anche se non con una valenza così negativa, possiamo assimilare a questo atteggiamento le esperienze di Bargellini che con le sue manipolazioni chimiche  porta gli elementi della “scrittura cinematografica” a superare i loro limiti e quindi, anche se non li annulla, li rende per lo meno irriconoscibili. Un’operazione simile viene compiuta da Bacigalupo che racconta la sua fantasia adolescenziale con un linguaggio estremo.
Il secondo atteggiamento si rivolge al recupero del codice della parola, il linguaggio, cioè cerca in questo modo di avvicinarsi alla componente sociale del reale. Quella che potrebbe essere una soluzione vicina all’impegno totale dello scrittore che vede finalmente la sua poetica “collocarsi all’interno di una condizione verbale i cui limiti sono quelli della società e non quelli della convenzione o di un pubblico particolare”  e che quindi vede delinearsi la possibilità di una letteratura veramente umana, diventa però un’utopia dal momento in cui il linguaggio “necessario e necessariamente orientato”, deve interagire con una società che non è riconciliata.
In questo tentativo di riconciliarsi con la società e con l’uomo è riconoscibile l’opera di Anna Lajolo, Guido Lombardi e Alfredo Leonardi, che ad un certo momento si uniscono anche per misurarsi, abbastanza consciamente, con questa utopia.
Ecco quindi che una ulteriore considerazione sul cinema sperimentale può partire dalla constatazione di come il codice linguistico cinematografico venga utilizzato in più modi con una libertà assoluta da parte del regista, molto di più rispetto al cinema commerciale.
L’uso liberatorio e libertario, del linguaggio cinematografico da parte degli autori non fa altro che allontanarli dallo “specifico cinematografico” per proiettarli nel panorama più vasto dell’espressione artistica globale, dove confluiscono le opere letterarie, poetiche e figurative.
In questo panorama ampliato, dove l’identità del codice linguistico non è più definibile, l’artista deve comunque risolvere il problema primario del confronto con la realtà e, consequenzialmente, delle modalità di espressione con cui questa viene rappresentata.

PARTE III
Documentazione raccolta

Intervista ad Adriano Aprà

Sarebbe interessante poter costruire attraverso i suoi ricordi un biografia essenziale di Piero Bargellini, anche per ripercorrere il suo sviluppo creativo, con particolare riferimento al film Morte all’orecchio di Van Gogh. Quando vi siete conosciuti?

Ho conosciuto Piero Bargellini nel 1969 ad Arezzo. Precedentemente avevo visto nel marzo 1968 al Filmstudio, dove ancora non lavoravo perché sono entrato al Filmstudio nel marzo del ’71, una memorabile rassegna della Cooperativa del Cinema Indipendente che presentava in una sei giorni molto densa tutta una serie di film.  Considera che il cinema sperimentale italiano in quanto tale era un oggetto abbastanza sconosciuto, e non è che siano stati tanti quelli che si sono interessati ad esso. Queste prime esperienze, tra l’altro, le racconto in un articolo  e inoltre ho scritto una cosa sull’underground italiano che non è edita, è una relazione per la fondazione Rizzoli che si intitola Cinema sperimentale e mezzi di massa, e l’articolo pubblicato da Marsilio non ne è che una sintesi.
Comunque quello che racconto lì sono un po’ gli antefatti, le prime cose che ho conosciuto. A questi antefatti aggiungerei anche un’esperienza che mi ha segnato molto, scioccato direi: la visione, al Festival di Pesaro del giugno 1967, di una grande rassegna di cinema sperimentale americano. Quando, poco dopo, ho visto il cinema sperimentale italiano ero preparato a quel tipo di immagini “strane”.

Dei film visti alla rassegna del Filmstudio, quelli che mi piacquero di più furono i film di Tonino De Bernardi,  il film di Adamo Vergine  che si chiamava Ciao ciao, i film di Massimo Bacigalupo  e i film di Piero Bargellini, e fu proprio in quell’occasione che, se ben ricordo, vidi Morte all’orecchio di Van Gogh.
Per quanto fossimo pochi spettatori e la sala fosse molto piccola, rimane però un punto di riferimento importante nella storia del cinema sperimentale italiano.
Non mi pare che Bargellini venne a Roma in quell’occasione. Non c’era neanche quando con la redazione della rivista Cinema & Film  organizzai nel maggio del ‘68 una tavola rotonda con alcuni autori della Cooperativa del Cinema Indipendente:  non c’era perché non lo avevo ancora conosciuto. Lo conobbi in un’altra circostanza. Mi ricordo che fui invitato a San Giovanni Valdarno da un cineclub per partecipare ad una rassegna su Jerry Lewis,  per la quale scrissi anche un articolo nell’opuscolo di presentazione.
E fu in quell’occasione che conobbi Piero Bargellini e anche Marco Melani,  giovanissimo cinefilo di formazione mista, che era uno degli interpreti del film Morte all’orecchio di Van Gogh, il ragazzo che si mette lo smalto ai piedi.
Io daterei tutto questo febbraio del ’69. Andai a casa di Piero Bargellini insieme a Marco Melani e vidi anche altri suoi film appena fatti, mi pare che uno fosse Trasferimento di modulazione  e l’altro forse era Stricnina o forse la prima parte di Fractions of Temporary Periods, ovvero Plans-séquences per una bambina.

Piero Bargellini era un impiegato, era diplomato in agraria e lavorava presso un ente agrario ad Arezzo e nel tempo libero si occupava di cinema. Proprio in seguito ai suoi studi aveva acquisito una certa competenza chimica e di conseguenza era un mago dello sviluppo e stampa, sapeva tutto sulla tecnica della pellicola, sviluppava tutti i suoi film da sé. Era molto diverso dagli altri filmmakers italiani proprio per le sue conoscenze tecniche. Aveva partecipato, come del resto Massimo Bacigalupo, al festival di Montecatini,  nei cui archivi peraltro non sono mai andato a frugare per vedere i cataloghi dell’epoca in cui furono presentati alcuni suo film, forse i primissimi come per esempio Capolavoro.  Lui era un cineamatore nel senso più genuino del termine. Rispetto agli altri era il meno colto, quello che viveva di impressioni, era ben diverso da un Alfredo Leonardi o da un Massimo Bacigalupo, che erano colti, avevano una mentalità critica, avevano visto il cinema underground americano e lo avevano studiato. Piero Bargellini era stato al festival di Porretta Terme nel 1965, se non vado errato, quello in cui vennero organizzate delle proiezioni da P. Adams Sitney della Film-makers’ Coop., che era il braccio destro di Jonas Mekas. Mi ricordo che Piero mi raccontò che c’era passato e aveva visto qualcosa. Ma insomma lui era un genio sbocciato senza un background  preparato … era un istintivo in questo senso.

Adesso, a parte il fatto che i suoi film già allora mi avevano colpito più di tutti gli altri, ed ancora oggi penso che sia il migliore film-maker italiano, mi è inevitabile parlare dell’altro aspetto della persona. Ho già detto che Piero aveva un lavoro ad Arezzo e per questo non si era mai visto a Roma, e si spostava solo quando gli era possibile. Doveva lavorare, aveva uno stipendio, un orario di lavoro, non aveva la possibilità di muoversi come gli altri. Non è un caso che io lo abbia conosciuto andando ad Arezzo e non lui venendo a Roma. L’altro aspetto di cui non si può evitare di parlare è quello della droga, ed è un aspetto strettamente collegato al suo modo di fare cinema. Sia Marco Melani sia Piero Bargellini erano dei tossicodipendenti e sono morti di tossicodipendenza, da eroina. Io, senza essere tossicodipendente ma molto loro amico, in particolare di Marco Melani e quindi di conseguenza anche di Piero Bargellini, ho visto da vicino tutto l’universo della droga, l’ho vissuto in casa mia, nel senso che si bucavano in casa mia quando venivano a Roma. Bisogna tenere presente il fatto che parliamo di un’epoca in cui tutto questo era vissuto con una sorta di entusiasmo e di psicologia positiva.
Parlo di droghe pesanti, che venivano usate, diciamo così, come “ampliamento” della mente. Non si vedevano ancora, o ce li nascondevamo, sicuramente loro se li nascondevano, i problemi drammatici, angosciosi, collegati alla tossicodipendenza come quello del procurarsi i soldi per la dose. Era ancora un’epoca, fra molte virgolette, “felice” dell’uso delle droghe pesanti, e il carattere visionario del cinema di Piero Bargellini è molto legato all’uso della droga. Egli stesso non ne faceva mistero. Trasferimento di modulazione, il film che io trovo sia il suo capolavoro, attualmente in fase di restauro alla Cineteca Nazionale, è stato girato, montato, realizzato nell’arco di un pomeriggio, è un film fatto sotto l’effetto di droga, non si capisce altrimenti come abbia potuto avere un perfetto autocontrollo tecnico su una cosa così complessa. Tuttavia non tutto il cinema di Piero Bargellini è ugualmente legato all’uso di sostanze stupefacenti.

Possiamo dunque accostare la personalità di Piero Bargellini alla tradizione degli artisti “maledetti” e “visionari”?

Infatti c’è tutta una tradizione da Baudelaire in poi; il concetto di artista che crea sotto droga e che, come diceva Marco Melani per tentare di trovare una giustificazione al suo “farsi”, se non si drogava si sentiva stupido, è un problema che fa parte della storia dell’arte.
L’idea di usare sostanze che esaltano certe qualità del cervello (anche se lo bruciano allo stesso tempo) è indirettamente presente in Rossellini, che ha scritto un libro, intitolato Utopia autopsia 1010,  nel quale sostiene che l’uomo utilizza in condizioni normali solo una minima parte delle proprie facoltà cerebrali, mentre dovrebbe utilizzarle di più, anche se certo non con droghe, verso le quali era fieramente contrario.
Come ho detto, non tutto il cinema di Bargellini corrisponde a questo tipo di visionarietà. In alcuni dei suoi film si ispirava anche al suo vero background culturale, cioè alla cultura popolare: il cinema del circuito commerciale, i fumetti, i mass-media in generale. Era cioè un uomo che viveva nel nostro tempo ed era molto sensibile ai prodotti della cultura di massa. In Morte all’orecchio di Van Gogh è evidente il riferimento ai film di fantascienza, alla pubblicità. C’è un film in particolare, mi pare fosse Capolavoro, che è frutto del montaggio di immagini prese da riviste di moda.
La caratteristica che fa di Piero Bargellini un autore così originale rispetto agli altri è proprio questa: gioisce delle convenzioni del cinema popolare rivisitandole però con una mentalità completamente diversa, cioè sperimentale, e per di più senza criticare negativamente il materiale di cui si serve, come invece facevano altri artisti. I suoi film, come anche Morte all’orecchio di Van Gogh, non sono solo un grande miscuglio di riferimenti critici alla cultura “bassa”; la cultura popolare è vista da un visionario che non la rifiuta, anzi ne è affascinato.

Per continuare con la biografia di Piero Bargellini, si è trasferito a Roma con l’intenzione di dedicarsi a tempo pieno al cinema?

Sì, ad un certo punto ha lasciato il suo lavoro ad Arezzo,  direi intorno ai primi anni ’70, perché ho incominciato ad incontrarlo sempre più spesso a Roma. Non saprei neanche dire che cosa facesse per campare, per me è sempre stato un mistero… si arrangiava.
Mi ricordo un episodio molto interessante. Piero riuscì ad ottenere un contratto per fare una pubblicità, grazie alla sua grande abilità tecnica, un lavoro per il quale veniva pagato come pubblicitario, forse un po’ meno della media però abbastanza per uno che non ha una lira. Realizzò questo lavoro tutto da solo, senza appoggiarsi ad una casa di produzione, ad uno story board o ad un operatore. Il lavoro piacque e il compenso fu tale che poté comprarsi una macchina, non voglio dire una Ferrari, ma comunque mi ricordo una macchina rossa di lusso, e affittò anche una casa piuttosto grande qui a Roma. Io rimasi sorpreso perché lo conoscevo come uno senza una lira, ma comunque tutto questo durò molto poco, perché lui non era certo uno che metteva i soldi da parte. Li bruciò tutti in questa cosa: gli piacevano le macchine e mi raccontava che sotto l’effetto della droga poteva guidare a non so quanti chilometri all’ora, mantenendo una lucidità perfetta quasi avesse il pilota automatico. Non avendo mai avuto incidenti gli devo credere.
Mi ricordo anche un altro episodio. Bernardo Bertolucci stava facendo La luna   e durante la fase di pre-produzione del film contattò Piero Bargellini perché voleva realizzare degli effetti speciali e aveva sentito parlare da Melani e me di questo mago della tecnica. Evidentemente lo incuriosiva utilizzare una tecnica artigianale piuttosto che una tecnica “americana”. Piero andò a parlarci ma non riuscirono a mettersi d’accordo perché era assolutamente impossibile gestire dal punto di vista professionale uno come Piero Bargellini che oggi c’era e domani non c’era, oggi era lucido, domani intrattabile, insomma la cosa finì lì.
Ci furono altri tentativi, da parte di amici come per esempio Paolo Brunatto,  di trovargli qualcosa da fare proprio in base a questa sua grande abilità tecnica ma non ci fu niente da fare. Era troppo inaffidabile e preso da ben altre preoccupazioni. Quindi campò molto male Piero Bargellini dopo aver lasciato il lavoro, nonostante molto probabilmente avesse una piccola pensione poiché aveva iniziato a lavorare a diciotto anni.
Poi iniziarono a fioccare gli arresti…

Sia Bacigalupo che Luginbühl affermano che venne arrestato nel ’71

Il primo arresto deve essere del 71. Io non mi ricordo esattamente, comunque un arresto so per certo che avvenne in casa mia. All’epoca io abitavo in una casa di vicolo del Governo Vecchio vicino a Piazza Navona, casa che era molto “aperta”, parliamo di un’epoca che oggi ci appare lontana o mitizzata. Mi occupavo del cinema underground ed anche io ero un po’ underground: capelli lunghi, vita disordinata, tante cose molto affascinanti per certi versi ma molto complicate per altri. Casa mia era un porto di mare. Marco Melani e Piero Bargellini venivano regolarmente a dormire quando erano di passaggio da Arezzo o da San Giovanni Valdarno. Un giorno quando io non ero in casa arrivò la polizia e arrestò Marco Melani, perché Marco aveva ospitato a sua volta un tizio incontrato a Piazza Navona che era controllato dalla polizia. Li arrestarono entrambi, ma poiché Marco non aveva con sé sostane stupefacenti, dopo pochi mesi di carcere venne rilasciato. Invece la storia di Piero Bargellini è diversa. Venne arrestato per via delle ricette falsificate per procurarsi la roba. Aveva rubato un ricettario di un medico e faceva ricette false per farsi dare sottoprodotti dell’eroina. Loro si accontentavano di qualsiasi cosa, erano esperti di prodotti farmaceutici e sapevano benissimo quali sostanze assumere, anche se l’aspetto igienico era decisamente ignorato: usavano la stessa siringa, prendevano queste medicine, le cuocevano, ne estraevano delle sostanze. Non dimentichiamo che Piero Bargellini aveva una competenza chimica, però insomma parliamo sempre di cose da incoscienti. Comunque venne arrestato per questo motivo e si fece due anni di carcere nei primi anni Settanta. Probabilmente la storia della pubblicità che ti ho raccontato deve essere successiva, perché nel periodo precedente a quel lavoro io non lo avevo più incontrato, evidentemente era in carcere e non a Roma.

Quando uscì ebbe una intensa storia d’amore con una ragazza che noi conoscevamo benissimo, era una nostra amica, Giovanna Ducrot. Intensa ma relativamente breve. Prese una casa con lei a Roma, abitavano vicino piazza Bologna.
Successivamente Piero ebbe una storia d’amore completamente diversa da questa. Mentre Giovanna era una sua coetanea, Oriana Buscemi, la ragazza di Arezzo che sposò e dalla quale ebbe una figlia, Rebecca, era molto giovane e di buona famiglia. All’inizio vennero ad abitare a casa mia. Ma ad un certo punto Piero tornò a vivere ad Arezzo, forse un estremo tentativo da parte della famiglia di lei di rimetterlo in carreggiata. In questo periodo c’è poco cinema e forse nessun film nella vita di Piero.
Nonostante questo venne di nuovo arrestato. Mi ricordo di essere andato a testimoniare al processo ad Arezzo, credo nel 1981. Ma già da tempo lo avevo perso di vista. Andai a testimoniare: dissi che era un artista, una persona… insomma qualsiasi cosa si potesse dire per appoggiarne la difesa. Non è stato dentro molto, perché in carcere per questo tipo di cose si rimaneva per non più di due anni, però subito dopo essere uscito morì.
Venni a sapere che era morto per una overdose, fu trovato su una panchina ad Arezzo, ma le circostanze della sua morte rimangono sotto certi aspetti non del tutto comprensibili.
Questa è la vicenda terrena di Piero Bargellini.
Alcune delle cose che ho raccontato sono rintracciabili anche nei suoi film. Per esempio prendiamo Zukie, che è del ’70, è un film a 16mm, a colori e abbastanza costoso lungo, 20 min., rappresenta quindi uno sforzo economico piuttosto grosso per l’epoca, questo film è un omaggio a Giovanna Ducrot che ne è anche la protagonista. Mentre invece in Due silenzi e un’armonica, se non ricordo male, si vede la famosa macchina rossa di cui ti parlavo prima.
Nel film incompiuto Erinnerung an die Zukunft  (Ricordo del futuro) del 1975, ci sono anche delle scene girate in casa mia, la famosa casa di vicolo del Governo Vecchio. Tra il ’70 e il ’72 e tra il ’75 e l’82 ci sono delle pause nella sua produzione a causa degli arresti , questo è anche un motivo per cui è difficile stabilire una esatta e completa cronologia delle sue opere.

Per quanto riguarda i viaggi, Bargellini non ha avuto un percorso come quello degli altri registi del gruppo della Cooperativa del Cinema Indipendente, che hanno viaggiato, sono stati in America, qualcuno in India…

No, no, Piero era un provinciale ripeto, il suo genio, perché lo considero uno veramente geniale e che ha bruciato la propria genialità, era proprio istintivo. Non aveva bisogno di andare in India, se la creava nella mente l’India. Aveva una grande visionarietà. Ma non bisogna dimenticare che allora i viaggi in India si facevano per andarsi a procurare la roba, non erano viaggi spirituali per andare alla ricerca di chissà cosa. E poi Piero non era come Paolo Brunatto, lui sì che ha viaggiato, era il nostro guru dell’epoca. Paolo Brunatto, Piero Bargellini e Marco Melani incarnavano lo spirito più “underground” del gruppo, spirito dal quale mi sentivo molto attratto per la mia curiosità di esplorare quegli universi a me alieni.
Bacigalupo, Leonardi, Lombardi e Lajolo sono persone più serie, tra virgolette, che col tempo hanno intrapreso delle strade diverse: la politica per Alfredo Leonardi, Guido Lombardi e Anna Lajolo, la carriera universitaria per Massimo Bacigalupo che ora ha quasi completamente abbandonato il cinema. Tonino De Bernardi, invece, sebbene vivesse in modo analogo a Bargellini, aveva una sensibilità opposta. Mi ricordo che era difficilissimo vedere Tonino De Bernardi, viveva in campagna, faceva il maestro elementare. Solo di recente ha abbandonato il lavoro, si è messo in pensione, e fa il cineasta a tempo pieno dalla fine degli anni ’80.

Per quanto riguarda Morte all’orecchio di Van Gogh avrei bisogno di qualche notizia o qualche particolare che lei ricorda, che possa chiarire il senso delle varie sequenze che lo compongono, sono moltissime e di diversa natura, mi riferisco ad esempio alla citazione della poesia di Ginsberg, alla notizia dell’incidente di Andy Warhol, oppure agli scritti di sociologia di David Riesman, alla presenza costante dell’immagine pubblicitaria, e addirittura all’inserimento di sequenze di un film di fantascienza …

Come ho già detto il protagonista è Marco Melani, mentre la protagonista era la ragazza di allora di Marco Melani che si chiama Lidia Barbaglia.
Per quanto riguarda invece il film di fantascienza si trattava sicuramente di una versione 8mm. In quegli anni si trovavano in 8mm delle versioncine dei film che si vedevano nelle sale, erano versioni mute con le didascalie aggiunte, tagliate, di qualità scadente, queste versioni si vendevano nei negozi come accade oggi con le videocassette. Pensandoci bene credo che si trattasse di alcune sequenze di un film di fantascienza degli anni ’50, la versione 8mm di Cittadino dello spazio   un film degli anni ’50 a colori, che nella versione in 8mm è in bianco e nero.

A me è sembrato che l’utilizzazione di queste sequenze, così diverse tra di loro e apparentemente scollegate, non fosse altro che l’uso di entità simboliche funzionali alla rappresentazione, rigorosamente acritica, di un suo mondo, di una sua realtà.

Considera una cosa, che il consulente occulto di Morte all’orecchio di Van Gogh è Marco Melani, è lui che forniva il materiale. Ma Marco Melani era un ragazzino pieno di curiosità, di cultura più o meno intuita, ma comunque sempre un ragazzino. Era lui il referente. La pagina che c’è in Cinema & Film, Estratti di una falsa(ta) intervista   credo che sia stata scritta da Marco Melani, anche se firmata da Piero Bargellini.

Quindi lei dice che Piero Bargellini era esterno a questo materiale?

No, no, anche se non si può dire che ci sia stato uno sceneggiatore, però per avere un’idea bisogna pensare come  ad una chiacchierata fra due persone, nella quale uno dei due fornisce gli elementi della conversazione: per esempio la poesia di Ginsberg può essere stata suggerita da Melani e Bargellini l’ha fatta sua. In ogni caso devi dare per scontato che i riferimenti culturali derivano da questo fitto scambio con Melani. Bisogna tenere presente questo prima di parlare di rappresentazione acritica.

E per quanto riguarda la presenza costante durante tutto il film di spezzoni di filmetti erotici, o anche solo immagini appena accennate, confuse, di donne nude?

L’erotismo è una componente fondamentale del cinema di Bargellini, lui era un cultore di cinema pornografico, in quanto parte della cultura popolare, e ne ricavava una visione non banale. Trasferimento di modulazione è in realtà un film pornografico rifilmato, non è nulla di più, non c’è un’immagine filmata direttamente da Bargellini. Quando lui invece filma delle scene… chiamiamole porno, sono tutte come dire sublimate, sia quelle presenti in Morte all’orecchio di Van Gogh, sia quelle presenti in Un ottofilm dove vengono filmate fotografie erotiche, oppure dove c’è proprio una ragazza nuda che si masturba. Tuttavia nulla è mai esplicito, diretto, è tutto molto stilizzato. Invece quando prende del materiale pornografico effettua delle manipolazioni chimiche sulle immagini.  Sempre in Trasferimento di modulazione c’è un’immagine della morte, qualcosa come un teschio, realizzato intervenendo direttamente sull’immagine dei corpi nudi. Tutto questo è assolutamente incredibile se pensi che il 16mm ha dei fotogrammi di dimensioni ridottissime. Piero mi raccontava che durante lo sviluppo utilizzava una punta luminosa per far risaltare alcuni particolari. Io non ci potevo credere, non capivo come si potesse realizzare praticamente una cosa del genere, un conto è lavorare con un microscopio, ma farlo in una stanzetta con il bagno di sviluppo… insomma a me pareva che potesse essere casuale, invece no, lui diceva che era la magia del cinema, era, come dire, l’immagine latente che emergeva perché c’erano delle “vibrazioni”. Così Piero dava una spiegazione metafisica o magica di un effetto chimico.

Sempre a proposito dell’erotismo: nel film ci sono molte immagini erotiche, in sovrimpressione, virate, colorate, ma più che altro c’è la rappresentazione, direi proprio schematica del rapporto sessuale, mi riferisco alla scena del pedicure con Marco Melani e a quella della prostituta, scena questa che ho trovato interessante per la costruzione, si tratta di due sequenze indipendenti, la donna che aspetta sul bordo della strada prima, l’uomo che arriva in macchina dopo, che si ricongiungono alla fine.

La sequenza è ispirata da Uccellacci e uccellini,  l’uomo è Massimo Parigi, mentre la donna non mi ricordo.
Sì, la costruzione di due sequenze indipendenti che si ricongiungono, senza montaggio alternato, rompe i tempi della narrazione tradizionale.

Il secondo tempo è tutto sulla pubblicità, i negozi, le vetrine …

Girato non mi ricordo se … mi viene in mente a Viareggio … Si vede anche il mare?

Sì, si vede anche il mare …

Ecco, allora mi sembra proprio che sia Viareggio, insomma la tipica città turistica, di vacanza, della costa Tirrenica.

Devo dire che la difficoltà maggiore nell’analisi di questo film è stata quella del sonoro, ci sono sequenze dove è presente, altre dove ci sono brani di musica, altre ancora dove non c’è proprio …

Devi immaginare la tecnica dell’8mm in cui il suono è su banda magnetica fatta in casa, nel senso che Piero non aveva mica lo studio di registrazione, quindi probabilmente se ci doveva mettere la musica, prendeva il giradischi, ci metteva sopra il disco, dopo lo toglieva, le parti sonore erano quindi buttate dentro così, senza nessun effetto di missaggio. Quando non c’è suono è perché proprio non c’è suono, entra di botto e va via di botto, questo è dovuto alla tecnica elementare, senza strumenti, dell’8mm.
Piero ci teneva a distinguere l’8 dal super-8. Credo che abbia continuato a lavorare con l’8 anche quando era disponibile il super-8 perché gli piaceva di più. Il super-8 in realtà ha una superficie di fotogramma più larga. La banda perforata dell’8mm è più larga di quella del super-8, che così ha un fotogramma più largo, ma l’8mm ha un’immagine più stabile.
Inoltre Piero mi diceva che l’8mm ha una qualità di colore superiore al 35mm, perché la pellicola 8mm essendo una pellicola che viene messa in mano a dei dilettanti, che la usano non importa come, ha una gamma di possibilità più ampia del 35mm, che dai professionisti viene usata con maggiori accorgimenti di illuminazione, con particolari accorgimenti nello sviluppo e nella stampa. Quindi diciamo che la gamma di possibilità è inferiore. Sembra un paradosso ma così me lo ha spiegato lui, e credo che sia abbastanza vero, e nei film di Piero, e non solo nei suoi, c’erano dei colori che non avevo mai visto al cinema, e che in alcune inquadrature mi parevano addirittura più belli. La pellicola 8mm ha però un problema: è una pellicola invertibile come può esserlo anche il 16mm. Questo significa in parole povere che non c’è un negativo, si sviluppa direttamente il positivo, costa di meno l’invertibile e per questo veniva usato, ma non puoi fare delle copie.
La conservazione di queste pellicole è un problema che io mi sono incominciato a porre già da tempo e che mi continuerò a porre, specie adesso, stando qua alla Cineteca Nazionale.

Per salvare questo materiale bisogna affrontare molte difficoltà, spesso ti trovi di fronte al paradosso che per salvare un film devi compiere un tradimento nei confronti del regista stesso. Innanzitutto considera che si deve passare per forza attraverso il formato a 16mm, non puoi farli in 8mm altrimenti non avrebbero la possibilità di circolare. Quindi, nel caso dei film di Piero ad esempio, sei costretto a compiere un tradimento doppio. Il primo è quello di gonfiare il film a 16mm, ma è un tradimento necessario se non indispensabile, che ti dà la possibilità di ottenere il negativo del film, e di conseguenza il film è salvo perché ora sei in grado di fare tutte le copie che vuoi. Se pensi a Un Ottofilm, capisci dal titolo che gonfiarlo a 16 è proprio una contraddizione in termini. Tra l’altro questo film è stato stampato recentissimamente, ce l’ha il Museo del cinema di Torino, forse può capitare l’occasione per vederlo, sarebbe interessante perché Un Ottofilm è il film gemello di Morte all’orecchio di Van Gogh, è quello che gli assomiglia di più, nel senso che tutti e due sono film strutturati come collage di sequenze.

Anche di Morte all’orecchio di Van Gogh è stato fatto il passaggio a 16mm?

Dei film di Piero che sono stati ritrovati questo è stato il primo ad essere gonfiato a 16mm. Ora è stato fatto anche di Un Ottofilm. L’altro film per ora visibile è Nelda, di cui ho io l’originale in 16mm invertibile.

Nelda l’ho visto a Pesaro…

Sì, è stato proiettato a Pesaro  ma mi ricordo anche che ci sono stati dei contrattempi durante la proiezione per mettere a fuoco, e quando tutto è tornato a posto già mezzo film era passato. Comunque Nelda presenta ben altri problemi per la conservazione, infatti è un film in cui Piero ha adottato in parte lo stesso procedimento di Trasferimento di modulazione. è un film girato per intero con una sua amica, Nelda, non so quale sia il cognome, era una sua amica di Arezzo, che credo sia comparsa anche in Un Ottofilm, nella scena della donna nuda su un divano. Dunque il problema è che lui, in questi film, usava un particolare procedimento di sviluppo della pellicola in bianco e nero. La pellicola in bianco e nero contiene del colore, solo che naturalmente con lo sviluppo completo sparisce. Lui invece arrestava il processo di sviluppo in certi momenti particolari in maniera che emergevano dei livelli di colore vago.
Il problema dei film girati con questo procedimento, come Trasferimento di modulazione e Nelda, è che non ne puoi fare una copia che sia di fatto fedele all’originale. Infatti se tu fai una copia sulla pellicola a colori riesci a mantenere questa particolare emergenza di colore ma contemporaneamente la pellicola a colori comporta per le parti in bianco e nero una sorta di viraggio, per cui ti dà una dominante bluastra o marroncina, a secondo dei casi, per tutto il film. Invece usando una pellicola in bianco e nero queste emergenze di colore spariscono del tutto.
Fatto sta che questi film sono irriproducibili, non si può farne una copia “fedele”. L’unica cosa che si può fare è una copia in video.

Oltre questi tre film ci sono notizie degli altri?

Sicuramente ce ne sono alcuni al Filmstudio, ma potrebbe essere un problema vederli perché sono in 8mm e poi, anche se qualcuno avesse un proiettore, io vorrei proprio che non venissero toccati perché bisognerebbe farne prima delle copie in 16mm Credo che il Filmstudio abbia Plans-séquences per una bambina, che è un film tutto bianco e nero, completamente diverso dagli altri, unico nell’opera di Bargellini, ma anche uno dei suoi film più belli, uno di quelli che preferisco. Lui, dalla finestra di casa sua di Arezzo, filma nel corso di anni la bambina che sta nel palazzo di fronte: la bambina cresce negli anni, diventa adolescente, Piero ottiene in questo modo una sorta di erotismo sottile, molto delicato.
Altri film di Piero Bargellini li ho recuperati tramite la moglie Oriana. Ci sono anche degli inediti. Li ho portati qui in Cineteca e ho in progetto di restaurarli.
Vedi, in questo momento ti trovi in una situazione un po’ paradossale perché lavori su un cineasta che ha fatto diversi film di cui alcuni sono fondamentali per la ricostruzione della filmografia, ma non ci sono i film, ci saranno. Ora l’unica cosa è  aspettare.

A questo punto due parole sulla sua esperienza di critico ed osservatore del cinema, chiaramente sempre quello sperimentale, alla fine degli anni ’60, maturata tramite la direzione della rivista Cinema & Film. In particolar modo avrei piacere di una sua opinione sul rapporto di questi autori indipendenti, non parlo solamente di Bargellini, con il cinema istituzionalizzato e quello autoriale, che in quegli anni poteva essere rappresentato da Pasolini o Godard, considerando che proprio tra le pagine di Cinema & Film trovano ampio spazio questi autori e le loro opere.

Adesso mi viene in mente che, per quanto riguarda Bargellini, lui sicuramente aveva un feeling particolare per Godard, Pasolini e Kubrick, quei registi che sperimentavano anche al livello del grande cinema. Contatti diretti nessuno, anche con il nuovo cinema italiano. Io tentai inutilmente di fare una connessione. Allora tra i più giovani che potevano essere interessati c’era Bertolucci. Bertolucci era un giovane che ancora non sapeva che sarebbe diventato un grande cineasta, faceva ancora un cinema di ricerca. Proiettai a casa sua alcuni film, mi ricordo. Una sera andai da lui a proiettargli un film di Bargellini e uno di Adamo Vergine che era Es-pi’azione, per vedere di suscitare un qualche interesse, ma era veramente un’altra cultura. Con Gianni Amico   stata più o meno la stessa cosa, anche se forse Gianni Amico era più vicino a questo tipo di esperienze. Mentre Marco Melani era amico di tutti quanti, con Piero Bargellini non c’erano rapporti diretti.
In un certo senso questa incomunicabilità vale anche per l’omologo americano, cioè un rapporto tra cinema sperimentale americano e cinema, sia pure “nouvelle vague”, americano, non esiste, è molto scarso, nonostante tutti gli sforzi di Jonas Mekas di parlare sia di uno che dell’altro sulle pagine di The Village Voice.

Dal punto di vista della critica invece sì, era più facile creare delle connessioni. Uno come Jonas Mekas ha sempre cercato, anche se con l’ottica underground più che con l’ottica del cinema commerciale, di farsi mediatore tra queste due culture. Era uno che adorava e adora il cinema sperimentale e anche qualcosa del cinema non sperimentale, ma con caratteristiche vicine alla “nouvelle vague”.
Lo stesso discorso vale per l’Europa perché nello stesso periodo si sviluppa qualche tendenza sperimentale in Inghilterra, in Germania (assai meno in Francia). In Germania c’è un cineasta come Werner Schroeter  che in realtà è un po’ a mezza strada, è un caso un po’ particolare, si può collocare, specialmente con le sue prime opere, sia tra gli sperimentalisti sia tra i “nouvelle vague”, perché poi con il passare del tempo diventa un cineasta relativamente affermato nel circuito commerciale.
In Italia no. Ma è normale che sia così, assolutamente normale. Era così in un certo senso anche negli anni ’20. Nel senso che registi come Viking Eggeling,  Walter Ruttmann,  Oskar Fischinger,  Hans Richter,  Fernand Léger,  e tutti quelli che hanno fatto film d’avanguardia negli anni 20 in Europa non è che poi siano passati al circuito commerciale. Possiamo dire che l’unica eccezione è rappresentata da Buñuel . Il cinema sperimentale italiano è un episodio veramente marginale proprio per il fatto che girare i film in 8mm escludeva completamente la possibilità di farli vedere in giro; era lo stesso cineasta, di solito, che arrivava con la pizza, e la proiettava; erano proprio eventi familiari.

Si trattava però anche di un rifiuto intenzionale di avvicinarsi al cinema commerciale…

C’era un’ideologia del rifiuto; quelli della C.C.I. dicevano: noi non facciamo il cinema perché non riconosciamo la censura, non vogliamo passare attraverso la censura, contestiamo il meccanismo, l’apparato del cinema, la sala di proiezione. In questo modo  rompevano lo schema su cui qualsiasi cinema è costruito, che sia il cinema spettacolare o il cinema “nouvelle vague”, adottando pari pari gli insegnamenti dell’underground americano.
Io personalmente come critico e come direttore della rivista Cinema & Film invece ero e sono contrario a queste separazioni, anche se mi rendo perfettamente conto che è facile ghettizzare gli artisti underground, ma d’altra parte vorrei anche evitare che venissero manipolati dall’industria, addomesticati. Quello che dico semplicemente è che al di là del problema, esistono i cinema e non esiste il cinema.  Il cinema come lo abbiamo conosciuto noi negli anni ’50 non esiste più, esistono tanti cinema, modi di produrre cinema, modi di distribuire cinema e modi di fondere i vari tipi di cinema fra di loro. Ci sono tanti modi perché l’unità che esisteva fino agli anni ’50 si è disgregata. I tentativi di ricomposizione che ci sono oggi sono tutti un po’ contraddittori: la sala è diventata multisala, accanto ai grandi distributori troviamo anche quelli che, pur appartenendo ad un settore industriale, cercano comunque di valorizzare un cinema di qualità, anche perché sull’altro regna il monopolio dei grandi.

Per non parlare poi della produzione: si va dal metodo dello studio system applicato più o meno bene anche in Italia, al fatto che oggi si fanno anche film indipendenti, cioè prodotti ad hoc, che non fanno parte della catena tradizionale  produzione-distribuzione-esercizio.
Comunque quello che condannavo allora è la tendenza che c’era di chiudersi nella gabbia culturale dell’ottica underground. Bisognava certamente cercare di valorizzare questo cinema, ma, allo stesso tempo, anche sfuggire a quella sorta di ghettizzazione che il cinema underground si imponeva proprio per difendersi. Devi immaginare che all’epoca tutto il movimento underground sembrava alla maggior parte della gente qualche cosa di veramente improponibile, si diceva: sono dilettanti, non sanno filmare, non sanno montare, poi era un cinema non narrativo, che rompeva tutti gli schemi, c’era insomma un rifiuto di tutto questo tipo di cinema. Adesso è un po’ diverso, tu arrivi persino a farci una tesi di laurea, e se ci penso… mi sembra paradossale come si evolvono poi le cose.

Per tornare alla rivista, il suo obiettivo era quello di rompere lo schema, di superare le barriere, e per questo si parlava tanto del cinema sperimentale quanto ad esempio del film di Kubrick 2001 — Odissea nello spazio visto come film sperimentale e si parlava anche di Bargellini. Cercavamo a livello culturale di non creare delle separazioni.
Io ero sempre in polemica con altri critici del cinema underground proprio perché uscivo dall’ottica della ghettizzazione, vedevo addirittura  legami culturali e stilistici fra questo cinema sperimentale e il cinema spettacolare, trovavo che c’erano degli scambi, trovavo che era molto interessante studiare Sternberg,  tanto per dire un nome, in quanto cineasta sperimentale a Hollywood. Ti dirò anche che questo mio atteggiamento suscitava lo scandalo della maggior parte dei critici. E questo è lo stesso problema che ho incontrato quando mi sono occupato negli anni ’80 di video.

Io davo per scontato che il video, la videoarte, è figlio del cinema sperimentale, mentre i videasti, ma soprattutto i critici di video, erano intolleranti, parlavano solo dello specifico video; non volevano sentir parlare di cinema, e figuriamoci se volevano sentir parlare di televisione, mentre io vedevo collegamenti fra tutte queste cose. Inoltre la cosa che mi pareva più ovvia era che la grande vera influenza del cinema sperimentale, e poi del video, è stata sulla pubblicità. La pubblicità è stata molto più influenzata dallo sperimentalismo che dal cinema ufficiale, anche se si tratta di una deformazione, un addomesticamento del linguaggio sperimentale.
Quando nell’86 feci una grande retrospettiva a Torino di cinema sperimentale americano, scrissi un saggio  in cui mi domandavo come un pubblico giovane, che non sapeva nulla della storia di questo cinema e che vedeva ora questi “oggetti smarriti” così lontani, avrebbe potuto recepirli. Mi aspettavo molta indifferenza. Mi pareva che fosse una retrospettiva molto coraggiosa e che avrebbe trovato un pubblico modesto, invece fu un gran successo, proprio a dimostrare che poi questi lavori non erano così lontani dalla sensibilità giovanile.

Per concludere, lei ritiene che oggi possa avere un senso la rivalutazione di questi film una volta decontestualizzati, ed analizzati come materiale puramente filmico?

Penso che ci sia un ritorno dell’underground, lo vedo nel cinema e nei video che si fanno oggi. Io credo che negli anni ’90 c’è, per vari motivi che adesso sarebbe troppo lungo analizzare, un ritorno dello sperimentalismo, naturalmente su basi sociologiche completamente diverse che in passato. Molto è dovuto all’introduzione delle nuove tecnologie, promosse dalla grande industria, ma che trovano una larga fascia di “artigiani” che ne usufruiscono. Inoltre se negli anni ’80 si è assistito ad una sorta di ritorno all’ordine, adesso viviamo in un’epoca di reazione, gli anni ’90 dicono basta a questo cinema omogeneizzato, a questa televisione omogeneizzata. C’è bisogno di ri-sperimentare, un bisogno nato dalla stanchezza del ritorno all’ordine stilistico degli anni ’80 nonché dalla disponibilità delle nuove tecnologie. Poi vedo che in Italia si fanno film sperimentali, dopo anni di silenzio, nascono inspiegabilmente come germinazione spontanea, senza contare che oggi non ci sono più organizzazioni come allora, si tratta di casi isolati. Qualcosa ho presentato anche a Pesaro, delle cose che… insomma, non saranno lo sperimentalismo di allora, ma sono comunque in un’ottica sperimentale così poco italiana, estremamente significativa, veramente interessante.
In questo senso è molto attuale qualsiasi discorso sul passato, cioè quello che fai lo puoi fare con la coscienza non soltanto di fare una ricostruzione storica, ma di fare qualcosa che è di attualità. E qui ritorna quello che ti dicevo sull’effetto di quella rassegna dell’86, anzi prova a rileggere il saggio di cui ti parlavo, secondo me il motivo di quell’inaspettato successo era dovuto al fatto che il pubblico giovanile era già abituato a quel tipo di immagini dalla pubblicità e dalla videomusic.
Non è stato come per noi quando abbiamo visto per la prima volta i film del New American Cinema, per me è stato uno shock incredibile, perché non eravamo proprio abituati a vedere questo tipo di cose, bisognava risalire agli anni ’20, ma insomma noi non c’eravamo negli anni ’20, avremo forse visto qualcosa nei cineclub ma non era la stessa cosa.
Per un giovane degli anni ’80, educato dalla pubblicità e dalla videomusic, queste immagini non sono più così sconvolgenti, ed è tanto più vero per i giovani di oggi. Questo cinema che ci poteva sembrare strano, oggi non lo è più tanto perché se un minimo di alfabetizzazione esiste, è dovuta, ti ripeto, alla pubblicità e, meglio, alla videomusic.

Intervista a Guido Lombardi e Anna Lajolo 

Il film Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso ha una struttura ben definita. è diviso in tre parti che si alternano: una sequenza rielaborata del film Blow-up di Antonioni, un filmino familiare girato in otto mm, e sotto forma di didascalie un capitolo del libro Il Gioco dell’oca di Edoardo Sanguineti. Mi puoi spiegare come hai realizzato tecnicamente questo film?

Guido: Il film è stato realizzato su una pellicola 8mm e successivamente gonfiato a 16. Ho seguito un particolare procedimento per la sequenza di Blow-up, che ora proverò a descrivere. Prima di tutto devi sapere che la pellicola 8mm è una pellicola di formato 16, però con doppie perforazione, quando la utilizzavi veniva esposta da una parte e dall’altra, come le cassette audio, al momento dello sviluppo in laboratorio la tagliavano in due, ottenendo una pellicola della larghezza di 8mm, la parte di destra veniva incollata in fondo alla fine della parte di sinistra. Un’altra differenza tra la pellicola 16mm e quella 8mm intera è che la prima ha perforazioni più rade rispetto alla seconda, anzi per essere più precisi la metà. Per questa sequenza ho utilizzato la pellicola 8mm intera, impressionandola con una macchina da presa per il 16mm: questo era possibile perché la larghezza era la stessa e la griffa della macchina prendeva una perforazione si e una no della pellicola 8mm, quindi in questa fase non cambiava niente, e tu avevi ottenuto un fotogramma da 16mm impressionato su tutta la larghezza su una pellicola 8mm. In fase di sviluppo la pellicola seguiva lo stesso trattamento di una 8mm: veniva tagliata in due nel senso della lunghezza e la parte di sinistra veniva incollata in fondo all’altra. Quindi quello che ottenevi era una pellicola con le perforazioni da 8mm il cui fotogramma era il risultato di un fotogramma 16mm diviso in quattro [immaginiamo una numerazione dove 1 e 2 sono nella parte superiore e 3 e 4 nella parte inferiore], dove il primo e il terzo sono in sequenza uno dopo l’altro, mentre il secondo e il quarto vengono spostati in coda alla pellicola. Dopo lo sviluppo il film è stato rigonfiato a 16mm, il fotogramma che abbiamo così ottenuto è un quarto di un fotogramma dell’originale.
L’effetto di sfasamento, di lampeggiamento dell’inquadratura è dovuto proprio a questo procedimento.

Non ho capito una cosa, la pellicola originale che avevate a disposizione del film Blow-up, era una 16mm oppure una 35mm, quella che veniva proiettata in sala, oppure tu sei andato in sala e hai girato con la pellicola 8mm mentre stavano proiettando il film…

Guido: Si, è stato così. Non ricordo bene però se abbiamo anche usato della pellicola 35, mi sembra di ricordare però che io avessi a disposizione anche degli spezzoni del film nell’originale 35mm perché l’idea di partenza era quella di agire direttamente sul materiale originale, come è successo anche per il filmino della famiglia, del Natale.
Comunque sia, il concetto è che una pellicola, fosse 16mm o 35mm poco importa, nell’8mm viene ridotta ad un quarto dell’originale, e tutto questo rappresenta un’operazione di destrutturazione di tutto il film. Mi rendo conto che adesso sembrano parole grosse queste, ma capisci che l’idea era quella di “smontare” un film ad “alto montaggio” come questo, realizzato da un “mostro sacro” quale è Michelangelo Antonioni, e contaminarlo con le scene di una vita banale, come quelle che vediamo nel filmino familiare. Tutto questo contiene una certa emozione interna, che non è la tua, a cui non partecipi per niente, che era presente però nel filmino di questa famiglia, anche questo preso a caso, rubato in un negozio, poverini quelli che lo hanno fatto che non hanno più il ricordo. Un giorno entrai in un negozio dove si sviluppavano anche fotografie, sono riuscito a leggere il nome scritto su una busta che conteneva il materiale già sviluppato e mi sono spacciato per il proprietario, sono così uscito dal negozio con la pellicola in mano. Pensa che era già pagato…
 
Anna: Questi particolari non bisognerebbe divulgarli…

Guido: Ma sono passati tanti anni, poi mi ricordo che la busta che conteneva la pellicola era un po’ rovinata, sembrava una busta reietta, che fosse stata dimenticata. Forse quel filmino non è stato mai reclamato. Tanto meglio perché questo aspetto aleatorio era in sintonia con lo spirito con il quale si era realizzato il film. In questo film c’era un pensiero un po’ arzigogolato: smontare questo film, fare questo montaggio… tutto però di pari passo con la casualità, presente sia nel reperimento del materiale originale sia proprio nell’operazione di smontaggio: non sai prevedere dove andranno le varie inquadrature, c’è tutto uno sfasamento che non hai la possibilità di prevedere. Poi c’è stato un montaggio interno anche.

Per quanto riguarda il montaggio interno hai seguito un criterio oppure…

Guido: Mi ricordo di aver seguito un’attinenza tra le scene. Il capitolo del libro di Sanguineti parla dello studio di un fotografo come il film di Antonioni, era una cosa piuttosto “pop” per il suo tempo, credo che anche Sanguineti avesse subito in un certo modo la suggestione dei testi automatici. Ma mentre c’è attinenza tematica c’è anche un forte contrasto tra la tavolata natalizia, priva di qualsiasi ricerca estetica,  ed invece la messa in scena sofisticata di Blow-up che viene anche aumentata dalla descrizione di Sanguineti, che svolge la funzione delle didascalie come nel cinema muto. Mi ricordo che fu molto faticoso realizzare queste didascalie, perché sono state fatte lettera per lettera con uno stampino, quello che si usava per mettere le scritte sulle casse, sembrava più bello così piuttosto che usare la macchina da scrivere.

Effettivamente il contrasto è molto evidente specialmente dove, nella parte centrale, si alternano solo sequenze del filmino familiare e di Blow-up. Questo contrasto è, non senza una certa ironia, ancora più accentuato nelle ultime sequenze dove nelle immagini del filmino familiare viene inquadrato il presepio, mentre in quelle di Blow-up appare il volto del protagonista, come se fossero montate in campo contro campo, e quindi come se l’attore fosse di fronte al presepio e lo stesse guardando.

Guido: Infatti lo spezzone della pellicola originale conteneva una sequenza di campo contro campo che con l’elaborazione risultava oramai smontata, quindi il filmino familiare viene a prendere il posto proprio del contro campo.
Mi ricordo che questo tipo di manipolazione funzionava meglio proprio con il campo contro campo, perché uno dei protagonisti dopo l’operazione di smontaggio rimaneva privo dell’interlocutore, che si poteva così sostituire con qualsiasi altra cosa.

Anna: Bisogna tenere presente anche l’effetto molto forte di queste pagine di Sanguineti, attua uno smembramento fisico della donna che descrive. Ecco, non so se una donna avrebbe scritto in questo modo, a me sembra molto una scrittura maschile

Guido: Ma perché Sanguineti si è messo nell’ottica di un fotografo, il fotografo è uno che tratta il materiale che ha di fronte come un oggetto, deve rispondere alle sue esigenze, quindi la descrizione di questo modello è fatta secondo la tecnica del fotografo, che non bada all’aspetto umano: il soggetto che ha davanti diventa una marionetta che deve mettere in scena delle espressioni. Blow-up in un certo modo aveva questo dentro. Quindi è abbastanza stretto il rapporto tra il film e il romanzo, e tutto questo trova un nuovo riscontro con il filmino che invece è un situazione “bassa”, nel senso che è priva di qualsiasi intento artistico, ma contiene quel calore proprio della situazione più umana.
Comunque questo pezzo di testo di Sanguineti a me piaceva abbastanza, non perché mi desse un’emozione, era una descrizione molto precisa, cruda ma anche abbastanza divertente, perché credo che l’abbia scritta anche con un po’ di ironia.

Anche perché il non voler dare emozioni era proprio tra gli obiettivi degli scrittori d’avanguardia…

Guido: Certo, erano i tempi dello “sguardo”.

Una poetica che però aveva sempre la sua forza…

Guido: Bisogna sempre pensare che se in un’opera non ci metti un’emozione o un sentimento non viene fuori niente di significativo, anzi a volte c’è una forza inaspettata anche solo nella descrizione di alcuni gesti tale da racchiudere tutto un mondo. Nel film c’è tutto un sistema di guardare e di disporre per lo sguardo, Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso è già un titolo di per sé terribile.

Tornando al montaggio interno, ti ricordi se era stato seguito qualche criterio almeno per la durata di ogni sequenza?

Anna: Qui ritorna il discorso della rottura, il discorso sempre presente dentro la poetica dell’underground. Era una rottura non soltanto nella forma ma anche nel tempo, cioè noi andavamo contro i tempi classici del film commerciale, si deludevano tutte le aspettative dello spettatore. Si andava contro il concetto che una sequenza non dovesse durare più di tot secondi altrimenti lo spettatore si annoiava…

Guido: Non pensare che si facesse così per attuare un complotto ai danni dello spettatore. Eri tu, autore, che ti mettevi con la tua “movioletta” e “dicevi qui basta” e “qui invece di più”, era così, era il tuo modo di sentire la cosa.

Anna: C’erano delle immagini subliminali con un fotogramma unico, oppure c’erano degli zoom che duravano tre quarti d’ora.

Guido: Gli americani hanno fatto dei film su un’unica zoomata, una zoomata che dura mezz’ora, e solo alla fine ti rendi conto che è cambiata la scena.

Anna: Dopo tutte queste operazioni di rottura si sentiva la necessità di costruire, cioè di proporre del nuovo che non fosse soltanto rottura.

Ma  secondo me in questo film c’è già quest’esigenza, proprio ritornando al contrasto…

Guido: è vero. Il discorso che si portava avanti era che sì, ci sono film come Blow-up, ma vediamo che anche l’estremo opposto pur apparendo così banale, è però un banale vissuto, non costruito, casuale, come una famiglia, una casa durante il periodo natalizio. In questo film c’era già la tendenza a “pescare” in un altro ambiente. Però certo qui dietro c’è tutta la presunzione di smontare un film e rimontarlo mettendolo in corto circuito con qualcosa che è completamente all’opposto, che non ha estetica, gliela aggiungi tu inserendolo in due binari che sono il testo e queste immagini cinematografiche sofisticate però fatte in quattro. Io mi ricordo proprio che il testo di Sanguineti sembrava perfetto per questo.
L’unica cosa che mi sembra importante dire, e che stava dicendo anche Anna, è che c’era proprio un’esigenza di realizzare questo tipo di film sperimentali. Se consideri la nostra filmografia sono stati fatti in un brevissimo arco di tempo, come se noi avessimo dovuto consumare in fretta un sacrifico o nell’ebbrezza di fare queste cose. Abbiamo fatto questi film nel giro di due anni, poi c’è stata una specie di svolta. Con C — La casa del fuoco e con D — Non diversi giorni si pensa splendessero alle prime origini del nascente mondo o che avessero temperatura diversa abbiamo incominciato a cambiare tutto, eravamo già a contatto di realtà che ai nostri occhi “urgevano”.

I primi film sperimentali venivano fatti… per tutti noi della Cooperativa, anzi Bargellini rappresenta proprio l’estremizzazione di questo atteggiamento, venivano fatti nel proprio laboratorio privato, che era formato dalla nostra testa e dai quattro oggetti tecnici che possedevamo, perché nessuno di noi aveva soldi per comprare delle grandi macchine, e tutto veniva fatto un po’ stregonescamente, con le tue nevrosi, con le tue visioni mentali. In questo modo veniva consumato in fretta. Io l’ho sempre interpretata così: che tu dovevi bruciare nella storia del cinema quel periodo che era già stato fatto all’inizio, alle origini, nel cinema erano già state fatte queste cose, in maniera artigianali e… pensa a Méliès. Ecco noi dovevamo bruciare in poco tempo quest’esperienza, poi le cose si sà, cambiano. Alcuni hanno mantenuto questo atteggiamento nella Cooperativa, altri invece, come me ed Anna, hanno scoperto che guardando fuori di te, nella realtà e nella fantasia ci sono altri mondi… dei mondi che si è tentato di esplorare usando altre modalità.

Quindi è come se la storia del cinema ognuno di voi avesse tentato di ripercorrerla dentro di sé come esperienza propria?

Guido: Sì hai detto bene. Questo atteggiamento nasceva dal fatto che possedevamo la cinepresa in casa; adesso c’è il video, ma il video non permette di sperimentare, di girare, fare una sovrimpressione. Se ti metti a fare gli effetti con il video fai delle porcate.

Anna: Ecco ma adesso questo discorso riguarda la sperimentazione visiva, le immagini, perché poi invece tutto il discorso sulla sperimentazione è continuato, ma sul metodo. Viene accantonato l’aspetto più tecnico ma rimane tutto questo desiderio di sperimentare nei contenuti, nella regia.

Guido: Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso è un po’ un saggio in fondo, anche se è un film da vedere, però c’è  dietro un’ipotesi concettuale.

Si infatti non è un film sulle immagini, non c’è niente di girato vostro, è un film su un’idea.

Guido: è un film su un’idea. Non mi sembra appropriato il termine “critica cinematografica”, però …

… Però si può tranquillamente parlare dell’esposizione di una teoria sul cinema, una teoria personale.

Guido: Questa cosa va sviscerata. Il film fa vedere un effetto ma non ti spiega la sua tesi, non è che viene espressa però ti fa vedere con una certa forza l’idea che c’è dietro, e che è appunto quella di andare ad analizzare quelle tre cose lì.

Anna: Perché se tu vai a guardare dopo, dal 74, quando abbiamo girato L’Isola dell’isola, ecco lì non c’era più niente di sperimentale nel senso tecnico, abbiamo applicato invece un metodo assolutamente sperimentale, nuovo, proponeva un approccio diretto con le persone che ci apprestavamo a riprendere, un dialogo ed un montaggio molto diversi da quelli tradizionali, la nostra ricerca è continuata in questo senso.

Mi sembra di capire che anche la scelta di abbandonare la pellicola per il video era stata condizionata da questo nuovo metodo: girare nei paesi, nelle isole e poi  riproporre queste immagini alle stesse persone che si erano riprese, per instaurare un contatto, un dialogo sul piano sociale.

Guido: Questo è accaduto nei primissimi anni della nascita di queste “scatolette”. è banale ripeterlo, lo dicono tutti, anzi alcuni ne hanno proprio fatto un dramma… è vero che il video aveva delle possibilità in più, ma ci ha anche tolto delle cose importanti come il contatto con la materia della pellicola, con il video non hai più la possibilità di toccare la pellicola. Bargellini, ad esempio, non avrebbe potuto più inventare, ottenere certi effetti, si tratta di tutto un altro mondo. Quindi portandoci via la manualità e il contatto con la pellicola, il video ha invaso il reale: ci ha dato la possibilità di riprodurre la realtà. Se lo usi però in questo senso ti capita di ritrovarti tonnellate di nastri che non riesci più a montare, perché non avrebbe alcun senso, la realtà è già lì, non la devi ricopiare. Fin dall’inizio noi abbiamo capito che non era questa la strada da percorrere, ma che l’uso di questo mezzo dovesse avere una sua metodica, come diceva Anna.

Anna: Poi in questo modo anche l’approccio con la gente è totalmente diverso. Il video non era prevaricante, cioè non presupponeva tutto il “cerimoniale” a cui bisognava sottostare quando si usava la pellicola: ciak, motore, partito, azione… La gente, il più delle volte si bloccava e non veniva fuori la verità. Il senso della sperimentazione è rimasto anche per quanto riguarda i mezzi che usavamo, i quali erano molto poveri. Noi giravamo su supporti che non erano cassette ma bobine aperte, che quindi trattavamo anche in fase di montaggio, come fosse pellicola: segnavamo con la matita grassa il punto di attacco tra una sequenza e l’altra, si azionavano i due registratori, proprio contando ad alta voce uno-due-tre, poi schiacciavamo il tasto di registazione. Era un procedimento cioè molto casareccio.

Guido: Sì, ma era la macchina che ci imponeva, noi sull’immagine non potevamo più fare niente. Mentre con il video se non hai un certo tipo di luce la ripresa viene male, con la pellicola se viene male… fai un film sperimentale! [ridendo] Bisogna dire anche questo.

Anna: Infatti, alcuni cineasti che facevano spesso degli attacchi orrendi, osceni, improponibili, li passavano per scelte sperimentali. Ma, fondamentalmente, restavano sempre brutti attacchi, che non significavano niente.

Guido: Però è vero che l’elettronica ha invaso il reale, se tu guardi un film, un documentario girato in pellicola ha sempre qualcosa di cinematografico forte, credo di poter dire questo. Il video adesso ha delle belle immagini, ha portato una sorta di “leccatura”, una patinatura delle immagini, si possono fare anche delle cose suggestive, simili a quelle del cinema commerciale. Invece nel cinema sperimentale era tutto un po’ più grezzo ma aveva la sua grana di fascino.
Il video si è preso la realtà, infatti siamo stati sommersi dalle immagini televisive. Cosa che con la pellicola… La differenza per me è questa: che una cosa girata in pellicola ti trasmette una certa forza, la pellicola ti impone delle scelte, devi immaginare di più, devi impostare di più tutto quanto il tuo modo di vedere la realtà. Anche quando mi è capitato di vedere i vecchi documentari, anche quelli girati in guerra, hanno sempre dei tagli, un occhio che pensa che è lì, che si è posto il problema dell’inquadratura, del dettaglio, del campo. Mentre con il video questo non si è verificato all’inizio: era un disastro, si accumulavano montagne di immagini, si fotocopiava tutto.
Prendi ad esempio il filmino familiare di Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso, era girato abbastanza male, scombinato, fuori centro, ma andava bene così. Ma vedi delle montagne di roba che insomma… Senza allargare troppo il discorso, voglio dire che le immagini cinematografiche hanno, comunque,  un fascino in più.

Quindi un po’ la pellicola ti manca…

Guido: Si mi manca, ci è mancata ma è inevitabile, non possiamo affrontarla, costa troppo. Abbiamo girato un po’ in pellicola tre anni fa all’isola Robinson Crusoe.

Anna: Mi ricordo che abbiamo portato sia l’elettronico che un po’ di pellicola per certe scene.

Guido: I campi lunghi vengono meglio in pellicola. Solo che poi siamo andati incontro a dei problemi con il laboratorio: te la trattano male perché non fai un film, gli porti trenta minuti di roba e allora passi nel mucchio.

Volevo chiedere ad Anna delle precisazioni sul metodo sperimentale di cui accennavi prima…

Anna: Riproporre le immagini, fare televisione di strada, cose che adesso magari fanno tutti, ma devi pensare che era il 1974 allora…

Guido: Adesso lo fanno ma in studio, vedi certi programmi televisivi tipo Moby Dick, faccio un esempio, porta in studio la realtà corrente, oppure si va a filmarla tra la gente, poi si ridiscute sul grande schermo. Però è diventata… ha perso la sua forza d’urto.

Ma credi che il video e la televisione abbiano veramente messo in crisi il cinema e la sala oggi? Forse l’invasione c’è stata a livello produttivo, ma per quanto riguarda il pubblico, la fruizione …

Guido: Sì, sì, la sala, essere al buio, soli ma insieme agli altri, seguire questa storia, sul grande schermo. Vedi mi fai di nuovo dire delle cose banali, che nascondono però il vero: il grande schermo, la sala …

Per quanto riguarda invece i saggi che hai scritto alla fine degli anni ’60, ho trovato molto interessanti I rami non potranno estendersi nello spazio vuoto  e Lo spazio inosservato,  in quanto rende bene l’idea di questa realtà ripresa nei suoi frammenti, tra un’azione e l’altra, negli interstizi. Un po’ come nel brano di Sanguineti…

Guido: è come rompere un vaso, raccontare i frammenti e poi ricomporre il vaso secondo la tua sensibilità del momento. Si trattava di scritti un po’ progettuali, propositivi: come dire adesso siamo così e cambiamoci così, ricreiamo questo mito in questo senso.

Poi il mito è un tema che ritorna spesso. Mi è sembrato di capire che le figure umane che troviamo nei film C e D, siano proprio figure mitiche.

Anna: Esatto, in questo senso qua.

Il mito quindi come riferimento all’antichità, ma anche come una soluzione tra una visione totalmente soggettiva e una totalmente oggettiva…

Guido: I due estremi li ritrovi proprio nel saggio che hai citato, quando dico “ai due stremi stanno chi si autofilma identico…”   perché il fatto di filmarsi così è un po’ insopportabile, succedevano tante cose e descrivere la propria identità, anche se in fondo tutto è lecito, stava diventando inutile, la “luce materializzata”  vuol dire invece che tu dai una cosa concreta …

A proposito del mito, a me sembra che riguardi principalmente la visione finale che ha lo spettatore. Mi sembra che il problema che vi ponevate allora fosse più quello di entrare in sintonia con lo spettatore, piuttosto che mostrare la vostra visione della realtà. Questo vorrei chiarire.

Guido: Ma sai, il vero problema era quello di capire veramente che cosa era la realtà e la vita, anche se dette così sembrano parole grosse. Però tu sei lì, ti fai i tuoi film, magari speri che qualcuno si metta in sintonia con te e dica ecco questo mi ha dato un’emozione, mi ha fatto vedere una cosa diversa. Però adesso mi viene da pensare che anche nei nostri libri di oggi,  in fondo cerchiamo di entrare in risonanza con le leggende, i miti, la mitologia. Prendi la valle dei minatori di cui abbiamo scritto e pubblicato e stiamo scrivendo storie e racconti, in fondo andiamo a cercare i miti moderni e quelli del passato. Per entrare in contatto veramente con le persone, forse, ci piace raccontare attraverso una mitologia (che può essere quella attuale ma anche quella passata) che poi in non è altro che la trasposizione della pura realtà.

Anna: Attraverso delle metafore, che possono essere recepite a vari livelli, come i film, si parlava prima di sintonia con lo spettatore, non è che debba essere sempre completa o totale, ci possono essere infiniti livelli e strade per arrivare a quello.

Guido: Siamo attratti dal leggendario, dalla dimensione leggendaria, nel senso che ci siamo sempre buttati nella realtà, cinema verità, antropologia culturale. Abbiamo bisogno della gente. Però in fondo, come questi scritti fanno capire, c’è una specie di sofferenza, la necessità di mettere qualcosa di più che non sia solo la mera realtà, quello che vedi, quello che accade. Il mito e la leggenda durano nel tempo, mentre la realtà non dura niente, nell’attimo successivo è già passata. Invece il mito e la leggenda, anche se poi non sono neanche tanto ben visti dal razionalismo di sinistra, però li riscopriamo sempre perché altrimenti non ci sarebbe niente da ricordare, niente che ti spinge, ti emoziona che ti fa pensare all’utopia, al sogno.

Anna: E poi forse questa è una delle ragioni per cui scegliamo sempre o di filmare o di scrivere su dei microcosmi, vedi le isole, o vedi i paesi, dove puoi, dedicandoci tanto tempo, arrivare nel profondo della realtà per poi sentirti in sintonia con essa e innestarti in cose che hanno una loro dimensione e che si esprimono in genere attraverso metafore semplici…

Guido: Però la metafora è uno strumento espressivo, mentre il mito è più profondo della storia. è ciò su cui è fondata la vita di un gruppo, o di una persona singola.

Anna: Il posteggiatore abusivo di C — La casa del fuoco, per esempio, non è solo un posteggiatore, ma rappresenta un microcosmo.

Guido: Più un’allegoria forse.

Io credo che il mito, più che una figura sia un luogo dove si riconciliano i contrasti.

Guido: Tu dici che è un luogo dove la conoscenza si riorganizza, e anche se non risolve, “sfuma” sempre tutto. Quello che diceva Anna: forse noi per esercitare questa modesta ricerca andiamo nel piccolo perché lì abbiamo sottomano tutto, possiamo riorganizzare questa ricerca e queste idee. Noi abbiamo un luogo fisico, ma che diventa anche un luogo di razionalizzazione e di proiezione, in cui tu rimetti in discussione un’idea o una pratica. La realtà e solo la realtà ti blocca, diventa anche banale. Mi viene da pensare alla politica, quando i politici parlano della realtà non parlano mai veramente della realtà, vanno a cercare delle motivazioni per vincere uno sull’altro, ma la realtà rimane lontana. Sembra che a volte la realtà sia più comprensibile con un passaggio fantastico.

Mi viene in mente, dimmi poi se è un caso, che l’unica interpretazione che hai fatto come attore, è nel film Dalla nube alla Resistenza di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet,  dove appunto interpreti Issione, appunto un personaggio mitologico.

Guido: E sì, anche se ultimamente, al Festival di Pesaro, non ho avuto coraggio di rivedermi.

Anna: Per esempio Straub-Huillet sono i più severi sostenitori che il cinema non deve commuovere, non deve emozionare assolutamente, non vedrai mai qualcuno piangere nei loro film. Anche questa è una modalità che va discussa se indugi troppo, se la usi come stratagemma per accattivare. Quando invece è una forza che viene fuori dall’essere che stai filmando, per me va bene.
Lo sai che ci hanno dato un premio, a Salsomaggiore non ricordo l’anno. Loro presentavano Rapporti di classe,  quello tratto dal romanzo di Kafka, e noi avevamo due o tre video nella sezione elettronica, loro hanno vinto il primo premio con quel film. Allora sono saliti sul palco per ricevere questo premio e prima ancora di ringraziare e salutare Jean Marie dice: “contro questa commissione e questa giuria io devolvo dal nostro premio tre milioni per darli ad Anna Lajolo e Guido Lombardi che sono stati “trascorsi” (per dire trascurati)”. Noi siamo sprofondati sotto le poltrone.

Guido: Ci siamo imbarazzati, perché sembrava proprio un complotto, come se noi fossimo d’accordo con loro, invece non sapevamo proprio niente.

Anna: Non ci avevano detto niente, però l’anno dopo, quando hanno ricevuto il premio, sono venuti a portaci i soldi come avevano detto.

Guido: Comunque sono stati molto carini, ci vogliono bene. Una volta ci hanno fatto uno scherzo, una cosa molto simpatica ma comunque imbarazzantissima, c’era stata una rassegna di cinema italiano a Francoforte e il direttore ha chiesto a Jean-Marie e Danièle tre opere più rappresentative del cinema italiano, ha fatto due grossi nomi, tra cui Luchino Visconti e poi Lajolo-Lombardi. Ci è arrivato quindi un telegramma del Festival che chiedeva la copia del film C — La casa del fuoco. Perché sai loro sono un po’ provocatori gli piace molto C — La casa del fuoco, ma come fai a dire che era un’opera rappresentativa del cinema italiano.

Tornando un momento al tuo saggio quando dici che lo spazio inosservato “è la composizione di immagini mancanti, inesistenti, alcune brevi parti mancanti dell’esistenza”…

Guido: Sì è un’utopia in fondo, cercare ciò che non si vede, che non è rappresentabile. In un certo qual modo è un filo che ci ha accompagnato sempre forse con un po’ di presunzione, però fa parte del progetto, nel senso che quando ti trovi davanti alle cose ti sforzi se è possibile di andare a vedere gli “interstizi” se è possibile. Ma non solo da un punto di vista meccanico, ottico ma anche da quello sociale e umano del personaggio. Le soluzioni sono tutte da valutare. Ad esempio in C — La casa del fuoco c’è il parcheggiatore che è diventato una allegoria, mentre in altri film puoi trovare, per esempio, la natura che è diventata fantastica. Vedere di dare intorno alle immagini principali degli accessori di lettura, dei rami che la amplificano, non che la spiegano ma che la mostrano.

Anna: Che sono poi i vari livelli di cui parlavi prima.

Ho voluto riproporvi questi vostri scritti, perché mi è sembrato molto interessante fare un confronto diretto con gli autori, sia per evitare degli errori di interpretazione, ma anche perché anche se si tratta di cose scritte successivamente a Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso, e che riguardano più direttamente altri film come C e D, mi sembra che in questo film siano già presenti questi concetti, proprio grazie a l’idea portante della messa in discussione dell’autore.

Guido: Si infatti mi sembra che tu sia a riuscita a tirare fuori bene l’idea che era dentro il film, che poi in fondo non è un film di immagini, ma contiene questa poetica. E difatti questi film sono stati fatti, come dicevo, con una certa urgenza,  perché facendoli spiegavi quello che avresti fatto in seguito, quello che volevi veramente fare. Forse bisognava passare proprio da lì per sfrondarti la testa di certe cose, per chiarirle. Anche in questi saggi che tu mi hai riproposto, e che io non ricordavo più, scritti fra l’altro in maniera pazzesca, c’era il tentativo di dare una spiegazione ma mai esplicita come hai potuto vedere, però servivano, era un momento in cui si dovevano dire certe cose.
Certe volte non riesco a capire nemmeno l’importanza degli anni ’70. A Pesaro hanno fatto questa retrospettiva,  e rileggendo i saggi che sono stati scritti per la pubblicazione, mi sono reso conto che forse c’era qualche cosa di importante, sono stati anni che comunque hanno portato un cambiamento. Io non ho mai pensato di aver fatto delle cose sconvolgenti. Ti ricordi che cosa disse Miccichè nell’introduzione ai lavori? Disse che negli anni 70 non si sono fatti dei capolavori, quelli vengono sempre nei “mari caldi”, ma si sono fatte tante cose che testimoniavano un movimento, perché c’era dell’incertezza, ed è proprio l’incertezza che ti fa correre in avanti a volte. O vai indietro del tutto, come certe nazioni che perdono il loro cinema, oppure, nei periodi di crisi, ripensi, ti metti in testa dei sogni delle illusioni. Questi però sono i movimenti che si esprimono e forse da ciò si capiscono delle intenzioni, delle idee. I capolavori vengono in seguito, quando tutto è già stato assorbito.

Un’altra cosa. Nei confronti del cinema ufficiale, del cinema italiano d’autore, quale era il Vostro atteggiamento.

Guido: Io ci penso ogni tanto. Riguardo ai lavori fatti, penso che in fondo ci siamo messi da parte, ci siamo posti ai margini di una situazione.

Anna: Però allora non eravamo ai margini c’erano delle strutture vive, grazie alle quali tutto quello che facevamo poteva circolare.

Guido: Be sì, però non ha senso. Come dimensione era minima, considera che, comunque, andavamo noi a proiettare i nostri film in giro. Considera inoltre che questo cinema non aveva nessuna speranza di poter diventare un prodotto commerciale.

Anna: Però intanto proprio nello statuto [della cooperativa] si rifiutava ogni tipo di censura,. Quindi, per questo, si era già fuori.

Guido: Sì, ma è durata poco questa gran presunzione.

Anna: Ricordati quando abbiamo viaggiato in treno da Roma a San Sebastiano, ci abbiamo messo 24 ore, forse anche di più, con i film della cooperativa. E là c’era stata quella questione su un film di Alfredo, con un nudo maschile, sì era Il libro dei santi di Roma eterna,  ed era proprio Alfredo che ballava nell’erba, perché la donna andava bene nuda e l’uomo no, non si poteva vedere, e allora dissero questo non passa e gli altri vanno bene. Allora no, abbiamo detto, se questo non passa non ne passa nessuno. Ci siamo ripresi tutti i nostri film e siamo tornati indietro facendo altre 24 ore di treno.

Guido: Ma questo ti dimostra che noi eravamo proprio emarginati.

Anna: Stiamo parlando dell’importanza della censura.

Guido: Ma la censura è durata poco perché poi si è aperto tutto, poi se ne son fregati. Si trattava per lo più di censure ideologiche poi, e non sul sesso.

Anna: E infatti io parlo dei due tipi di censure. In Venezuela ci chiamavano i porno-maoisti.

Guido: Ma io non credo che possiamo dire di aver avuto il merito di combattere la censura. Questo merito va attribuito ad altri. Noi eravamo di rottura, contro ogni censura perché dicevamo “noi facciamo il film, voi lo dovete vedere così e basta”, almeno l’idea era quella. Però le battaglie contro la censura le hanno fatte altri.

Anna: Volevo dire un’altra cosa, che, almeno per quello che mi riguarda, è stata molto importante, sulla diversa organizzazione del lavoro nel cinema commerciale. Nel cinema commerciale ognuno ha un ruolo, il regista, lo sceneggiatore, lo scenografo, ognuno ha la sua funzione e magari farà quello per tutta la vita. Invece nel cinema underground impari a fare un po’ tutto e vedi il lavoro che stai facendo nel suo crescere, fai il montatore, scrivi il soggetto. Impari a fare un sacco di  cose ed anche a capire quello che stai facendo. è una cosa che il cinema commerciale non ha.
Se parli invece di chances, di possibilità che hai, del pubblico che riesce a raggiungere, da questo punto di vista invece è una mortificazione.

Guido: è giusto questo, però è anche vero che ti mette fuori. Se vuoi fare il cinema che va nelle sale devi invece cambiare tutto perché la scuola, o come vuoi chiamarla, del cinema underground, non ti serve quasi a niente perché un film che va nelle sale non lo puoi fare da solo. Quindi che cos’è che ti rimane? Ti rimane l’amore per questo cinema. Poi ti metti a fare delle cose restando sempre con l’idea che devi far tutto da solo. Ma se vuoi fare il cinema commerciale devi cambiare la mentalità.
Delle volte abbiam pensato: “adesso facciamo qualcosa di diverso”. Ma questa pratica che ha descritto Anna ti segna anche un po’, diventi impaziente, perché devo dire a qualcuno, all’operatore, cosa deve fare? Giro io no? E questo è un limite, è una scelta ma anche un limite.

Anna: Noi per i primi dieci anni avevamo anche abbastanza voglia di andare ai festival, quando ci invitavano. Poi, però, ci siamo stufati e non siamo più andati. Mandavamo i film, e poi neanche più quelli. Ci siamo tirati fuori da soli perché ci eravamo proprio stufati.

Guido: Per dieci anni non siamo più andati ad un festival, eravamo stufi di fare queste cose, anche perché forse ci eravamo impegnati su altre questioni che ritenevamo più importanti. Poi, ultimamente, ci hanno invitati con i nostri film underground, con nostra grande sorpresa, perché noi davamo proprio per chiusa, archiviata questa esperienza.

Anna: La proiezione al Festival di Taormina del 1992, mi ha stupito enormemente perché un successo e un entusiasmo così grande non me lo sarei mai aspettato.

Guido: Soprattutto i giovani hanno riscoperto quel cinema. Adesso, tanto per dire, a fine mese andiamo a Chiavari, la mia città natale, dove proietteremo L’isola nell’isola. A Genova andiamo al Museo di Storia Maturale a proiettare delle vecchie cose di vent’anni fa, girate nella valle delle miniere di manganese, la Valgraveglia. Questi film, tre, sui minatori li abbiamo fatti avere, un po’ per caso alla Pro-Loco, che li ha dati a una televisione locale. Li stanno mandando giorno e notte, hanno ricevuto tante telefonate dai telespettatori che vogliono avere le cassette, a c’è un problema perché sono della RAI. Molti credono che siano state fatte adesso. è un interesse a storie del passato che la gente non ha vissuto e vuole conoscere. Come L’isola nell’isola che ha più di vent’anni: quando è stata presentata a Taormina è riuscita ancora ad affascinare il pubblico, i critici e anche i video maker stranieri. Immagini del passato che ritornano a misurarsi col presente.

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