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Scrittura

Le tracce di Giasone

Di Marko Kravos, poeta sloveno di Trieste, non conosco tutta la produzione poetica che conta: per quel che ne so, si tratta almeno di dodici raccolte di versi, dal Canto (Pesem) del 1969, a Il richiamo del cuculo del 1994. Ciò che ho letto di lui mi ha comunque convinto che ci sia, nella sua poesia una tale varietà di stili, una pluralità di livelli semantici, che le rende interessanti anche a chi, come me, è costretta a gustarsele in traduzione. Ho così accettato di fare una microintroduzione al suo ultimo lavoro, anche se sapevo di non essere la persona giusta — per mancanza di competenze linguistiche- per illuminare gli oggetti della sua vocazione originaria. Una vocazione che mi piacerebbe definire, un po’ enigmaticamente, così: il documento di una grazia rifiutata. È come se sentissi, nei suoi versi, la ricerca ossessiva di una terroristica e vanificante dolcezza. Una dolcezza corretta da micidiali scariche di ironia e di autoironia. Basti, a chiarire le cose che vado dicendo, una citazione da Dionisiaca, la seconda poesia del Richiamo del cuculo:

“In fin dei conti,/ proprio grazie alla mia scarsa importanza/ mi rifiuto a ogni saggia devozione”.

E se non basta, si ricorra ad una lettura dell’undicesima, Hotel Astria, Leningrado (lì Esenin si intese con la morte):

“Mi prosciugano la memoria/ tutte le cose taciute/ e il ripetermi il vecchio insegnamento:/ devi imparare, imparare, imparare/ -e intanto mi impaurano i ricordi./.../ amo alla superficie della pelle;/ mi sto esaurendo a furia di trascrivermi/ in punta di penna”.

Ho accettato a scatola chiusa di buttare giù queste quattro pagine, quasi scommettendo sul valore dell’opera. Non sono rimasta delusa, perché — come cercherò di dimostrare — mi sono trovata davanti un organismo poetico piuttosto complesso e vitale che riproduceva, in forme decisamente seduttive, l’impegno di un poeta che vuole antichizzarsi, che vuole fingere una provocatoria perfezione, mimando un brutale corpo a corpo (quasi un fare e disfare) con le statue di gesso della letteratura, della storia e del mito. Innanzitutto si deve dire che l’onnipresente poeta, che si trascriveva e raccontava nelle precedenti raccolte, qui è letteralmente sparito. Al suo posto argonauti, uomini di mare, donne in attesa sulle rive, il mare, un timoniere che muore, un granchio, un giovane delfino…

Chi più chi meno pensa a corteggiare qualcun altro:

“Poi — a volte si ferma,/ con voce acuta intona un canto malinconico./ E si lamenta del suo sangue freddo,/ e di non aver mani né gambe per fare l’amore”.

Come già nel Richiamo dei cuculo, ma qui in forma molto più mimetizzata, la poesia diventa un’arma della seduzione, la traccia scritta di un corpo, che cerca di venire a patti con un’illuministica rabbia, che sceglie di lasciare fluire liberamente una sensualità quasi barbarica.

“Scrittore dotato di una forte sensitività” — scriveva Elvio Guagnini nella Presentazione al Richiamo del cuculo -“che si esprime in un rapporto deciso con la corposità, con l’ambiente, con il paesaggio, con i misteri di una natura in dinamico mutamento, con eventi che rivelano la fenomenologia delle metamorfosi degli organismi, della natura e della civiltà”.

Tutto questo è racchiuso in Le tracce di Giasone in forme di rigore classicheggiante, in un connubio trasparente e insieme spettrale d’idillio e di parodia, mentre si inscenano trucchi da epopea postmoderna (c’è perfino una figura “con gli occhiali” che entra nei “frutti”, “confuso dalle brame”, alla ricerca di una remota conchiglia”).

Mi è piaciuto, insomma, questo lungo poemetto andato in frantumi, di cui sopravvivono, come dopo una mareggiata, pochi relitti, ma mi era rimasta la curiosità di sentirlo in lingua originale. Così ho chiesto ad una amica checonosce lo sloveno di leggermi le poesie in lingua originale; e devo dire che sono stata rapita subito dalla musicalità dei versi, dalla loro metrica quantitativa, che poi mi è stato difficile ritrovare nelle traduzioni italiane. Mi sono convinta che la poesia possa essere anche questa nenia incomprensibile, questa sonorità cullante espropriata di senso.

Credo, dunque, che questa poesia, presentata in un’elegante edizione trilingue, per Hefti Edizioni, vada letta e anzi ascoltata nella sua ricerca di metrica alternativa, basata in larga misura sulla quantità, in senso classico (per quanto il nostro orecchio possa essere ancora in grado di percepirne la funzione), con un rilancio espressivo degli accenti delle singole parole, che vanno intese non tanto come microunità ritmiche autosufficienti, quanto piuttosto come unità singole di senso assorbite nel ritmo quasi obbligato dell’unità metrica che le ospita e le governa.

Credo che nella traduzione si sia cercato di restituire qua e là il senso dell’operazione ricorrendo all’uso frequente di parole di sapore arcaico; che potessero risvegliare, nelle memorie scolastiche di ognuno di noi, le cadenze dell’epopea, con i suoi imperativi inviti (Cantami o diva…) e le sue cruente risoluzioni.

In una lettera, Marko Kravos mi ha scritto, a riguardo del suo interesse per la poesia epica, alcune cose che ritengo utili per il lettore di Le tracce di Giasone:

“Già dalla mia prima raccolta, Pesem (Canto) del l969, mi avventuro spesso in questo genere di componimenti, nei quali osservo con lo stacco del tempo e del luogo, l’essenza primaria dell’uomo. Le gesta di Fu San erano situate in un astratto e lontano Oriente, tra panteismo e fatalismo. I Canti di Kuwaja sondano nell’atmosfera animista dell’Africa nera, quando l’uomo figurava ancora parte della natura primordiale. La testimonianza da Teskuko evoca un ambiente azteco e il tragico connubio tra fede-ideologia-stato e l’individuo.”

Le poesie di Le tracce di Giasone sono state scritte fra il 1988 e il 1992, a ridosso dei violenti cambiamenti storici che hanno trasformato in quegli anni l’Europa, facendo del mito degli Argonauti, degli eroi che si spinsero dalla Grecia alla Colchide per la conquista del vello d’oro, la metafora di un viaggio di redenzione e di avventura che esalta e insieme condanna le spinte umane alla conoscenza e al dominio:

“Così noi, uomini di mare,/ con tanti approcci sappiamo ammansire lo straniero, gioviali, accorti o generosi,/ con i doni ammalianti, con le merci in mano e lontane notizie sulle labbra,/ e — come il ragno nella propria rete — sempre pronti alla fuga o alla lotta”.  

Brame, ansie di progresso, confronti fra popoli, nuove rotte, partenze, commiati, ritorni: tutto diventa nodo tematico di imputazione di una vicenda che è sempre sul punto di compiersi e non si compie: sia un amplesso, sia una partenza, sia l’attesa di un ritorno, sia una morte. Questa è la poesia di un prima che… Sembra che gli avvenimenti decisivi debbano rimanere irrimediabilmente fuori dalla scena poetica. Ogni frammento poetico, incentrato su immagini di forte carica figurativa, pare sciogliersi in echi di voci monologanti (il mare, un timoniere agonizzante) o dialoganti (una madre e una figlia in attesa), quasi a mimare una verità captata a sprazzi, fra il rumore assordante del mare o il frusciare del vento, una verità in fondo fisicamente irraggiungibile. Di qui, forse, il senso dei tanti puntini di sospensione o le indicazioni grafiche del silenzio e del non detto. Abbiamo davanti la polvere dell’epica, l’ironico-doloroso controstampo di una saggezza primordiale che sta per inabissarsi per sempre, come quelle, voci che si perdono nell’oscurità o nella luce abbagliante di una natura dilagante, pervasiva:

“Uno sciame di api, siamo, in un universo sospeso, cera per altrui sigilli,/ polline vagante che l’eredità insemina nei solchi, affinché il tempo/ duri oltre noi.”

Al centro dell’intera composizione stanno le immagini ipertese dell’idillio, un idillio tramato da un’aggettivazione spesso rotonda e serena, scelta quale espediente formale per esprimere il rapporto rapinoso e incredulo del poeta con una natura barbarica, ammaliante, che viene ossificata poi da lui, quasi col gusto della rappresaglia, in emblema araldico:

“Potrà mai rapprendersi in marmo, questa polvere, /e diventare soglia di un qualche tempio?”.

Il catalogo stilato da questo epigonico aedo, nei Frammenti dall’epilogo, non potrà allora essere altro che negativo, l’inventario del non fatto:

“Nemmeno un cenno ho dedicato al soleNé ho cantato i tentativi di GiasoneE neppure ho accennato al mio tormento”.

Dell’impianto epico, del canto ore rotundo, non resta che una schematica funzione provocatoria, l’eco di una perentoria e univoca naturalezza poetica piegata a cantare i modi in cui l’ambiguità della natura sopravvive alle crudeli semplificazioni della storia. Come nel monologo del mare:

“Essere, di una tale grandezza, e perdurare, e non finire./ Irsuto, inebriato, da un dattilico dondolio dell’essere./.. / Darei mille onde per qualcosa di nuovo. E — crepi l’avarizia -/ un milione di spume d’acqua a chi mi assolve/ dall’eterno lisciare gli scogli, dall’infantile raccogliere conchiglie,/ dove così indecenti echeggiano le grida dei gabbiani,/ a chi mi libera dagli addobbi di squame, dal luccichio stellare del tramonto”.

Insomma, si canta l’elogio di un’ambiguità vitale non riducibile letterariamente al progetto di se stessa. La materia trabocca dalle forme chiuse che vorrebbero contenerla e fissarla. Così l’Idillio centrale è un vero e proprio intermezzo anacronistico, che svela nell’eros, nella spinta di ogni essere vivente a unirsi e a riprodursi, la molla dell’evoluzione e della illimitata, spaventosa moltiplicazione dell’intera realtà (un discorso, in fondo facile, ma tagliato a colpi di feroce eleganza e di crepitanti sottintesi metrici), offrendo al lettore un contenuto, si direbbe, nutrito di ideologia della “frontiera”, che però trova una nuova potenza di riformulazione, al di là degli stereotipi, nell’invenzione di una dimensione “pseudo-neo-classica” e quasi “materica” della poesia:

“Il Gran Carro è nel cielo e la luna gli scalpita davanti:/ ribocca il frumento, l’olio e il miele, controlla gli otri e le bevande/ braciere e braci disponi sottocoperta davanti ai simulacri di bronzo”.

Suggestioni di esametri, di versi dattilici classici. Ricerca di una maestosità spesso volutamente zoppicante o traboccante. Sul fondo, riconoscibile ad orecchio, la memoria dell’epica popolare slovena.

Queste poesie sono già state pubblicate all’interno della raccolta L’orizzonte e il solco, uscita nel 1992, ma sono oggi riproposte nella loro interezza, come un unico, frammentario poemetto — anzi come i cocci di un poema mai scritto — che forse è rimasto impigliato in qualche albero del Carso, o è stato affidato al ron-ron di un messa in musica ancora in cerca di compositore, oppure, più verosimilmente, aspetta l’arrivo di un coro triestino, a più lingue, pronto a completarlo e a intonarlo.

Ernestina Pellegrini

IL MARE 

Essere, di una tale grandezza, e perdurare, e non finire.
Irsuto, inebriato da un dattilico dondolio dell’essere.
Esistere così metodico, illimitato, strapotente — per così dire.
Sono io l’origine di tutto, non si riversa forse tutto in me — vita e morte?
Nel suo grembo covate di protozoi si schiudono, crescono,
si ergono poi su due arti, e si concedono — per un po’   — in forme di vita superiore. 
Alcuni cacciando, altri scappando sulla terra ferma,
altri volando fin sopra le nubi, altri ancora costruendo grandi dimore,
ma poi, tutti si ritrovano in me. Plancton.  
In cristalli di sale registro la memoria di ogni cosa,
i corpi li disciolgo, ché il mio ventre fluttuante ogni forma comprende. 
Solo qualche piccola barca,
che s’azzardò alla ricerca di vino e olio, di sale e oro,
sta ancora adagiata di fianco sul mio verde fondale, ed io la corteggio con trasporto andaluso, con greco riguardo; niente in  me rimane incorrotto!
In me rifluiscono vita e morte. Non l’ ho già detto, questo?
Ah, che testa, con tanta memoria che pesa…  
lo, con i miei ghiacciai e i miei vulcani, io sono il   signore del pianeta,
cui la terra può dare appena il nome. 
Con le piogge impongo la mia legge, e con il denso mosto dei fiumi mi sbronzo;
io, che per me stesso sono vino dorato e spumante — chi è più potente, chi, è più bello di me! 
Fresco come una rosa, ritmando un motivo, 
mi metto a ballare con la luna e le stelle, e all’alba strizzo l’occhio al sole…
Ogni cosa su cui mi poso è già sedimento, impronta in  qualche strato,
uno stornello sballato, rumore, confuso rumore del  ricordo…
Che lagna, vecchio mio! Be’, cosa ho detto, dove    sono rimasto?
Darei mille onde per qualcosa di nuovo. E — crepi l’avarizia — un milione in spume d’acqua a chi mi assolve dall’eterno lisciare gli scogli, 
dall’infantile raccogliere conchiglie,
dove così indecenti echeggiano le grida dei gabbiani,
a chi mi libera dagli addobbi di squame, dal luccichio stellare del tramonto.
La barba già grigia, confuso dall’ondeggiare continuo di  maree,
strasazio di tutto questo pesce, fritto in olio rancido,
col cervello inceppato, ma con l’animo frizzante e      vigoroso.
Ma solo chi si compiace di se stesso, un metodico sfacciato indolente,
rimane per così dire onnipotente, inesauribile, praticamente sempiterno,
come lo sono io, Sua Eminenza il mare.

FRAMMENTI DALL’EPILOGO

Mettere al sicuro, riporre sotto una montagna
la barca ricolma con tutto l’equipaggio,

proteggere ogni cosa dall’accidiosa ruggine, perché
il carico non perda di valore, e gli otri boriosi

non si rompano l’un l’altro in gara a chi è il più robusto.
Che il sale finisca a far condimento con l’olio e i semi aromatici.


Potrà mai rapprendersi in marmo, questa polvere,
e diventare soglia di un qualche tempio?


Nemmeno un cenno ho dedicato al sole,
al monte dalle spavalde fronde,
al volo delle api e ad altri insetti

che con tanta grazia animano il congegno del mondo.
Né ho cantato i tentativi di Giasone alla ricerca

di un passaggio tra il Tibisco e l’Isonzo, tra i fianchi delle Alpi,
e delle donne in pianto sulle rive

con le braccia poggiate sul ventre.

E nemmeno ho accennato al mio tormento
che le questioni tra la Terra e il Sole
altro non siano che un gioco
a chi perde e chi vince,
e che il ponte si eleva eretto
dove non c’è mai stato un fiume.


Comunque una dedica aggiungo
per quella vaga moretta
che con altezzoso sorriso
capovolge nella clessidra il tempo
e infila tra ingiallite lenzuola nell’armadio
steli di lavanda del mio orto.


Ora mi sembra, dopo aver rimesso in versi tutto questo,
che la terza delle mie sette vite
non sia stata poi uno spreco.

poesie di Marko Kravos

per gentile concessione della Hefti Edizioni di Milano.

Marko Kravos, nato nel 1943, è un poeta sloveno di Trieste. Laureato in lingue e letterature slave all’Università di Ljubljana si dedicò per 22 anni all’imprenditoria editoriale a Trieste, poi per qualche anno fece il docente di lingua e letteratura slovena alla Facoltà di lettere e filosofia di Trieste. Membro della lega degli scrittori sloveni di Ljubljana e del PEN internazionale. Dal 1996 è presidente del Centro PEN Sloveno. Scrive poesia, saggistica e letteratura per l’infanzia per la quale ha pubblicato sei libri, un video televisivo e sette sceneggiati per la radio. Traduce dall’italiano (sono usciti in ed. librarie Slataper, Luciano Morandini, Loredana Bogliun, Michele Obit), dal croato (S. Mihalic, poesia contemporanea croata) e spagnolo. Per la poesia ebbe diversi riconoscimenti tra i quali nel 1982 il premio nazionale sloveno della Fondazione Preseren e in Italia L’Astrolabio 1998 per la poesia. Le sue liriche sono state pubblicate in varie antologie della poesia slovena ed europea, in edizioni autonome o in riviste letterarie in italiano, tedesco, francese, inglese, spagnolo, croato, serbo, macedone, albanese, russo, polacco, ceco, ungherese, greco, bulgaro, romeno, georgiano, galiego.

Raccolte di poesia: Pesem – Canto (1969), Trikotno jadro – Vela triangolare (1972), Obute in bose – Con le scarpe e senza (1976), Paralele – Paralleli (1977), Tretje oko – Il terzo occhio (1979), Napisí in nadpisi – Epigrammi ed epitaffi (1984), V znamenju skrzata – Nel segno della cicala (1985), Sredozemlje – Mediterraneo (con grafiche di Franco Vecchet – due edizioni: in sloveno, italiano, tedesco, francese, croato e inglese, 1986), Ko so nageljni disali – Quando i garofani profumavano (1988), Obzorje in sled – L’orizzonte e la traccia (1992), Sredi zemlje Sredozemlje – Nel mezzo della terra il Mediterraneo (opera scelta, 1993), Il richiamo del cuculo (1994 raccolta antologica in italiano), Krompir na srcu – Una patata sul cuore (1996), Vreme za pesna – Tempo di poesia (raccolta in macedone, 1998).

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Marco Kravos
Le Tracce di Giasone
 (HEFTI EDIZIONI, 2000) – Pagg. 56 – Lit. 18.000

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