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Cinema

Peter Pan (II)

 

CAPITOLO TRE

Peter Pan, classico della letteratura per l’infanzia,
fiaba, mito moderno.

Peter Pan, la mitologia e la letteratura per l’infanzia.

Barrie è stato definito un postmodernista antelitteram per aver compiuto un conscio esercizio d’artifizio, la creazione di un mito; di lui si può dire che abbia eseguito quell’operazione “che più di ogni altra cosa caratterizza la postmodernità: la creazione di una realtà illusoria, il trattamento della fantasia come verità.” Abbiamo visto nel paragrafo precedente come in Peter and Wendy le barriere che dividono la realtà dalla finzione siano estremamente permeabili e come il narratore a volte insista sulla realtà di quanto sta raccontando. Già in Peter Pan in Kensington Gardens Barrie tratta il suo personaggio come se si trattasse di un eroe della mitologia: nel fare la conoscenza di Maimie, Peter vuole presentarsi come si deve e raccontarle qualcosa della sua straordinaria storia, ma lei lo interrompe immediatamente dicendogli che tutti sanno chi sia Peter Pan; a quanto pare gli umani sanno molte cose di lui, anche se non tutte, e nel mondo reale lui è già un mito, cosa che lo rende estremamente compiaciuto.

L’intenzione di Barrie di creare una figura mitica risulta evidente già dal nome che egli decise di dare al suo personaggio: lo chiamò Peter come il fratellino di George e lo chiamò Pan ponendolo così lungo una linea in continuum con i miti classici. Il mito del puer aeternus risale ad Ovidio che nella Metamorfosi dà a Iacco, il dio-fanciullo, quest’appellativo. È un mito antico quanto l’archetipo del fanciullo abbandonato, simbolo di innocenza, autenticità, purezza.

Quella del puer aeternus o del fanciullo divino è una figura frequente nella letteratura classica così come nella fiabe popolari europee ed asiatiche; Zeus, Apollo, Ermes, Pan o chi altri, il fanciullo divino non corrisponde ad un fanciullo empirico ma è simbolo dell’archetipo di un fanciullo “prodigioso, appunto non-umano, generato, nato ed allevato in condizioni del tutto anormali: le sue azioni sono altrettanto prodigiose e mostruose, quanto la sua natura e il suo aspetto fisico.”

Questo personaggio ha poteri magici, è sempre associato alla gioia nonché ad un’atmosfera fiabesca, corre pericoli straordinari, ma è amato dagli dei e nutrito e protetto da qualche animale, come Peter Pan, fuggito di casa a una sola settimana di vita è accudito dagli uccelli.

Fra i vari fanciulli divini Barrie scelse il più selvaggio: Pan, il dio dei boschi. Nato da Etere e da una ninfa in una grotta in Arcadia, venne abbandonato subito dopo la nascita dalla madre spaventata dal suo aspetto caprino ed egli, come Peter Pan, fuggì dalla culla per rapire il gregge di Apollo. Venne adottato da Ermes e diventò compagno ed amico delle ninfe rapitrici di giovani e bambini. Satiro con le corna e i piedi di capro, è vagabondo e sta volentieri in grotte, boschi e luoghi selvaggi. Divinità rurale per eccellenza è dio dei boschi, dei pascoli, protettore di greggi e pastori, Pan è giocoso, energico, allegro, ama la musica, la danza, la frenesia, è chiassoso ed irritabile nonché eternamente giovane, ma è anche capro solitario che conduce “una maledetta esistenza nomadica in luoghi deserti che il suo canto rende sempre più deserti e il suo appetito ‘tragedia’.” Spesso è rappresentato seduto o appoggiato da qualche parte, osservatore di eventi ai quali non prende parte partecipa perché, proprio come nel caso di Peter Pan, la sua stessa natura fa di lui un escluso. Nell’Arcadia si diverte a spaventare improvvisamente i viaggiatori solitari suscitando attacchi di panico, ed è divinità associata ad un’idea di liberazione di quanto è spontaneo, istintivo ed inconscio. La leggenda racconta che un giorno Pan inseguiva una ninfa che per sfuggirgli si trasformò in canna; é così che Pan inventò il suo famoso flauto a sette canne, che suona perché tutti stiano allegri e con cui accompagna le danze delle ninfe, così come Peter accompagna quelle delle fate a Kensington. Pan, che in greco significa tutto, è lo spirito romantico della crescita e dell’estasi; tutto natura e istinto, Pan è divinità tradizionalmente associata ad una sessualità di tipo quasi animalesco e fu riscoperto da scrittori, poeti e pittori di fine Ottocento come ispiratore delle pulsioni più profonde dell’uomo.

La figura di Peter Pan risulta mitica anche se accettiamo la definizione di mito che dà Mario Trevi quale “forma originaria con cui lo spirito di una cultura definisce se stesso, espressione diretta anche se non unica di quella visione del mondo e dell’esistenza che caratterizza unitariamente e inconfondibilmente una cultura” e Peter Pan caratterizza quella anglosassone tanto che Camillo Pellizzi nel suo Storia del teatro inglese ha scritto: “Chi non capisce Peter Pan e chi non capisce come Peter Pan sia un’opera seria e in un certo senso fondamentale per lo spirito inglese, deve anche rinunciare a comprendere L’Inghilterra o alcuna cosa sua.”

La storia del bambino che non voleva crescere non poteva che venire da uno scrittore appartenete ad una cultura, quella anglosassone di inizio secolo, che considerava la fine dell’età infantile, età libera da regole e responsabilità per antonomasia, una perdita irreparabile.

Nato nel 1860 e morto nel 1937, Barrie si era formato in un clima culturale vittoriano, tardo-romantico e un po’ austero, fu drammaturgo di grido nella più spensierata era edoardiana e visse la sua vecchiaia in perfetto spirito decadente. Il suo Peter Pan venne alla luce tra il 1902 e il 1911, coprendo così quel breve ma importantissimo periodo della storia inglese noto con il nome di età edoardiana, un’era edonista come il re da cui prende il nome, ma anche un periodo di fervente attività di ridefinizione della realtà e di repentini cambiamenti sociali. Il peso delle numerose conoscenze acquisite di recente, i conflitti in campo politico, scientifico, artistico ma prima di tutto sociale creavano spesso una tale confusione la cui naturale conseguenza fu quel “nostalgico rimpianto della dolce illogicità dell’infanzia e di un universo costruito secondo leggi proprie” di cui Peter Pan è l’incarnazione, sintomo di un crescente bisogno di fuga da una realtà troppo spesso problematica.

Il Peter Pan che esce dal mini-ciclo di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo è, prima un tipico infante di vittoriana atmosfera, per certi versi l’incarnazione del mito romantico dell’infanzia innocente e buona, e poi un ragazzino impertinente che rifiuta ostinatamente di diventare adulto e rassegnarsi allo squallore di un matrimonio e un impiego mediocre. Due diversi tipi di bambino, che riflettono due diverse concezioni di infanzia: quella dei vittoriani, per i quali l’infante era poco più di un adulto in miniatura e il simbolo di innocenza, purezza e bontà, e quella degli edoardiani, per i quali la fanciullezza era una particolare categoria con un intero universo proprio, e che nei bambini vedevano il simbolo dell’edonismo, del divertimento, dell’avventura e prima di tutto della spensieratezza.

Per meglio chiarire quanto appena affermato, ci è sembrato opportuna rivedere la storia del concetto di infanzia in Inghilterra, individuandone le fonti storico-sociali e le ripercussioni che il variare di questo concetto ha avuto sulla letteratura per ragazzi.

Infanzia e letteratura in Inghilterra.

In Inghilterra prima che altrove si sentì la dignità del bambino e tutto quanto gli veniva offerto doveva essere curato con delicata competenza.

Fu a cominciare dal sedicesimo secolo e poi sempre più intensamente lungo il corso di tutto il secolo successivo che si diffusero i “chapbooks”, così chiamati perché venduti dai chapman, venditori ambulanti; all’inizio si trattava più di opuscoli che di libri veri e propri: raccolte di racconti e poesie popolari, fiabe, favole e leggende, nursery rhymes, ballate e indovinelli, ma vi si trovavano anche riduzioni di romances medioevali. Pieni di elementi leggendari e fiabeschi, non c’erano ancora le fate, che furono importate dalla Francia nel Settecento, e gli eroi dei racconti erano quelli tradizionali, mossi da valori umani più che fantastici con qualità care agli inglesi come la laboriosità, la forza, il coraggio, l’amore per la libertà, l’odio per i soprusi e le ingiustizie. Nel diciottesimo secolo avevano sedici o ventiquattro pagine in ottavo, di scarsa qualità ma illustrati attraverso l’uso di stampi di legno, hanno il merito di aver avvicinato i ragazzi alla letteratura e di averla diffusa a tutti i livelli sociali. è attraverso questo tipo di pubblicazioni che libri scritti per gli adulti borghesi raggiunsero anche i piccoli del popolo. Robinson Crusoe deve gran parte della sua fama a questi opuscoletti, che pubblicarono adattamenti del romanzo che ebbero un successo enorme tra i ragazzi, irresistibilmente attratti dallo spirito del famoso naufrago che lotta per la sopravvivenza viaggia e ha avventure eccitanti, come lo erano dalle due categorie a loro molto care del minuscolo e del gigantesco presenti nei Gulliver’s Travels (1726) di Swift, un autore a cui stava a cuore la cosiddetta questione infantile come dimostra il suo Modest Porposal del 1729 in cui, con il sarcasmo che lo distingueva, faceva notare che i figli delle famiglie più povere avrebbero gravato di meno sui loro genitori se fossero stati mangiati.

L’Ottocento romantico portò il bambino al centro della pagina letteraria sotto vari registri, da quello poetico all’autobiografia, dall’utopia fino ai vari progetti pedagogici, ma tutta la letteratura del diciannovesimo secolo ricevette un impulso determinante dalla riscoperta romantica dell’importanza del ruolo dell’immaginazione e la letteratura per l’infanzia in particolare ricevette le sue linee guida.

I Romantici tedeschi, prima di quelli inglesi avevano cercato di spiegare l’essenza dell’uomo esaltando il fanciullo vedendo nei bimbi dei messaggeri del paradiso, pieni di innata virtù e i veri educatori del genere umano. La stessa creatività estetica era vista come un ritrovamento della fanciullezza e l’artista associato al bambino.

Questi scrittori rifiutando la mitologia classica e la poesia aulica del Settecento rivalutarono le antiche fonti medioevali e la mitologia germanica; essi si dedicarono alla riscrittura di fiabe e canzoni popolari alterandone definitivamente la percezione da parte del pubblico. Un primo importante passo era stato mosso da Charles Perrault, ma furono i fratelli Grimm con la pubblicazione, tra il 1812 e il 1815, delle Kinder und Haus Maerchen a conferire alla letteratura popolare e alle fiabe la rispettabilità di letteratura degna di essere studiata.

Da allora in poi aumentò in tutta Europa la produzione di storie fantastiche che rielaboravano i temi dei racconti popolari e delle leggende. In queste forme, ricche di immaginazione e di simbolismi, si trova un’interpretazione delle esperienze fondamentali dell’esistenza umana, l’attenzione è focalizzata su temi di significato universale, sulle grandi idee morali, ma non vi si trovano precetti ed ammonizioni. Tipico di questo genere è il senso di meraviglia che tanto attrae la mente infantile.

Anche in Inghilterra Wordsworth e Coleridge vedevano l’infanzia come inevitabilmente associata all’immaginazione e alle idee di libertà e vitalità, qualità che andavano perdute crescendo, soprattutto attraverso l’educazione; da ciò segue l’importanza che si attribuiva agli scritti che stimolassero l’immaginazione. Wordsworth è stato spesso associato a Barrie, entrambi vedono la virilità come un segno di degenerazione, ma il nostro autore è più ottimista riguardo la possibilità di resistere alla forza dell’esperienza. Da notare anche che Coleridge chiedeva al lettore che si accingesse a leggere una storia fantastica quella stessa “willing suspension of disbelief” che Barrie chiedeva ai suoi spettatori quando li faceva applaudire per salvare la vita di una fata.

I Romantici vedevano nei più piccoli un’affinità con il mondo naturale degli uomini primitivi e nell’esperienza non più un mezzo per la graduale realizzazione delle potenzialità dei fanciulli, ma qualcosa che avrebbe potuto annullare la loro originaria purezza. Essi si schierarono decisamente a favore dell’autonomia infantile e propugnarono il principio che la letteratura rivolta ai più piccoli fosse animata da una spirito autenticamente infantile; elessero il folklore nazionale e tradizionale ad unica legittima letteratura per l’infanzia, la quale doveva trattare di un passato preborghese, mitico, il passato del Medioevo cristiano o dell’antichità. Per questo cercarono materia prima nei racconti popolari, nella mitologia, nelle saghe e leggende attirando così l’attenzione dei lettori inglesi sulla bellezza di tali forme ed individuando nella fiaba il luogo in cui raffigurare in modo simbolico o allegorico le tematiche moderne.

L’operazione svolta dai Romantici fu più che mai carica di frutti: nel corso del diciannovesimo secolo si assistette al fiorire dell’editoria per l’infanzia: libri, riviste, fogli illustrati, volumetti da colorare e libri che servivano sia a scuola sia fuori. Il libro per l’infanzia si fece più curato, si articolò in generi, si diffuse: mentre uscivano libri di stampo dickensiano sui bimbi vittime della società o racconti di vita domestica in cui i protagonisti non adulti venivano sottoposti a prove di pazienza, altruismo e generosità si riscrivevano le fiabe popolari. Dal desiderio romantico di uscire dalla sfera del mondo reale alla ricerca di una sfera di maggiore libertà nacque anche l’interesse per il fantastico e per le attività di gioco tipiche dei bambini. La pedagogia del primo Ottocento esortava al gioco e nel corso del secolo si andarono definendo particolari luoghi deputati all’infanzia, si realizzarono progressivamente spazi più o meno a misura di bambino come quell’area privilegiata di vita e di gioco tipicamente inglese che si sviluppò tra la medio-alta borghesia nella prima età vittoriana che è la nursery. Questa stanza si trovava in una zona della casa isolata rispetto ai luoghi dove vivevano gli adulti, che passavano pochissimo tempo con i loro figli, e il compito di pulirla arredarla e sorvegliarla spettava alla balia; anche i Darling, da bravi vittoriani, ne hanno una, solo che è un cane.

Negli anni Trenta dell’Ottocento l’Inghilterra emerse come potenza militare e navale, cominciò a prendere forma l’Impero e con esso crebbe il patriottismo e l’offerta di una letteratura che esaltasse i valori umani e civili dei pionieri, dei navigatori e dei soldati. è il momento dei “penny dreadfuls” che Barrie divorava da bambino. Erano in voga storie come quelle di Ballantyne o del capitano di marina Frederick Marryat (1792-1848), che scriveva per i bambini storie di naufraghi e di famiglie attaccate dai pellerossa o da animali selvatici, simili a quelle di J. Fenimor Cooper (1789-1852), ovvero colui che, in America, svolse lo stesso ruolo che Walter Scott aveva svolto in Inghilterra per quel che riguarda il romanzo storico, e forse anche per questa ragione uno degli idoli del Barrie adolescente. Cooper fu autore di numerosi romanzi a carattere marinaresco o di frontiera tra cui il famoso Corsaro Rosso, ma viene ricordato soprattutto per essere stato il primo a presentare gli indiani d’America fra i protagonisti delle sue storie, anche se senza profondità psicologica, e il suo Ultimo dei Moicani del 1826 rimane uno fra i più popolari di questo genere. Si rileggevano volentieri le cosiddette “Robinsonate” della fine del Settecento, rifacimenti, imitazioni, continuazioni o semplici variazioni del libro forse più tradotto e più letto della storia della letteratura inglese.

Nel periodo vittoriano la letteratura per ragazzi era ancora di tipo moralistico-didascalico, per educare i giovani proponendo modelli autoritari; i vittoriani, dimentichi della lezione romantica, non vedevano il bambino come unità autonoma, ma ancora come adulto in nuce. I bambini vittoriani leggevano le fiabe sotto forma di adattamenti se non esplicitamente didattici comunque volti ad ammonire contro i difetti tipici dell’infanzia: egoismo, curiosità, disobbedienza.

Nel 1846 vennero tradotte in inglese le fiabe che Andersen aveva pubblicate nel ‘35 ed ebbero grosso successo ma ancora perché ribadivano la necessità di rifarsi ai modelli comportamentali del ceto borghese, secondo l’etica protestante.

Tuttavia il periodo vittoriano è ricordato come l’età d’oro della letteratura per l’infanzia se non altro per la varietà e ricchezza di temi trattati che contribuì allo sviluppo di una stampa periodica costituita da giornalini e riviste che diffusero ulteriormente i racconti di viaggi e avventure così come le storie di ambiente scolastico, allora molto popolari.

Età d’oro forse soprattutto perché alla fine degli anni Quaranta all’interno della letteratura dedicata ai ragazzi andava formandosi un’area autonoma, quella della fantasy che avrebbe presto dato vita ad un nuovo tipo di letteratura infantile, quella che Alison Lurie nel suo saggio sulla letteratura infantile ha definito letteratura fantastica; seria ma non didattica, sempre più attenta ai bisogni del bambino, al dovere e al senso di responsabilità, ma anche al calore, al divertimento e all’immaginazione. Gli scrittori appartenenti a questa corrente vedevano il bambino come dotato di fantasia, curioso e un po’ ribelle e quindi esaltavano i sogni, le fughe, la disobbedienza e spesso rovesciavano la prospettiva in cui sono visti gli adulti, ridicolizzando scuola e famiglia. L’obbedienza ai genitori era ancora considerata un precetto divino, ma la disciplina cominciava a mostrare segni di rilassamento; lo spirito si faceva un po’ più leggero e il pubblico vittoriano diventava sempre più comprensivo verso le opere fantastiche. Nelle nursery rhymes del periodo si cominciano a trovare fantasie o nonsense che non si riscontrano nelle pur frequenti nursery rhymes dei secoli precedenti. I vittoriani erano una generazione molto abile ad inventare storie. La fantasia vittoriana era piena di mondi secondari e faceva ampio uso del soprannaturale.

In questo periodo la letteratura inglese per i non adulti fece suo il meraviglioso desumendolo dal folklore o, continuando la tradizione delle nursery rhymes, ricamando dei nonsense su aspetti della quotidianità, per esempio umanizzando gli oggetti ma anche esagerando le figure famigliari. Il tono è quello semiserio dell’immaginario tipico del mondo infantile. Il non adulto diventa personaggio centrale soprattutto nella fiaba e nel racconto meraviglioso dove si intrecciano ammonimento etico e fiction.

Non credendo nella rappresentazione diretta della realtà circostante, alcuni scrittori tesero a riflettere il reale tentando di esulare dai filtri socio-culturali e di abbattere le barriere spazio-temporali per creare una dimensione “altra”, straniante e contemporaneamente capace di rispecchiare le tensioni che caratterizzavano gli anni in cui regnava la regina Vittoria. Essi tentarono di arricchire i modi di percepire la realtà attraverso tecniche non realistiche che includevano il nonsense, i sogni, le visioni e le creazioni di altri mondi. Nuovi mondi fondati sull’infanzia, mondi impossibili, alla rovescia rispetto alla realtà effettiva; mondi dove tempo, spazio, ma anche dimensioni morali e psicologiche sono deformate. Per parlare del Now/Here bisognava parlare del No/Where, rovesciando il corrente impianto moralistico, perciò questi scrittori progettarono di creare un universo narrativo volutamente non coerente, anarchico, asistematico, rivalutando i racconti di fate e più in generale il romance come materia privilegiata del racconto narrativo.

Per racconti di fate si intendono quelle storie che narrano le vicende del mondo fatato di Feeria, il luogo in cui conducono la loro esistenza fate, elfi, gnomi, streghe, trolls, giganti e draghi e che racchiude sole, luna, cielo, terra, mare e anche gli esseri umani quando essi cadono vittime di qualche incantesimo. Uno dei poteri di Feeria è quello di “rendere immediatamente effettive, con un atto di volontà, le visioni della fantasia”

Il racconto fantastico ci presenta uomini comuni posti improvvisamente davanti all’inesplicabile come l’esistenza di esseri soprannaturali più potenti di loro. Il confine tra spirito e materia è rimesso in discussione, mondo fisico e mondo spirituale si compenetrano e le loro categorie fondamentali si modificano. La morale ed il messaggio sociale sono secondari rispetto al miracoloso e all’impossibile che invece hanno una funzione essenziale.

Un nome per tutti: Charles Ludwig Dodgson, in arte Lewis Carroll (1832-1898) che nel 1865 fece conoscere al pubblico inglese Alice e il suo Paese delle meraviglie, un mondo non suo che non capisce e dove non riesce a farsi capire; un mondo insensato dove tutto si trasforma perennemente e dove domina la logica capovolta del nonsense, le leggi della società vittoriana sono sovvertite e dove tutto è a testa in giù così che il lettore si chiede continuamente qual è la misura delle cose.

Quest’opera fu subito universalmente riconosciuta come rivoluzionaria perché per la prima volta si rivolgeva direttamente ai ragazzi al solo scopo di divertirli. La società umana è vista attraverso gli occhi dei bambini che non ne conoscono le convenzioni; gli adulti sono imbecilli, tirannici, crudeli o pazzi, come in Barrie che li dipinge come sciocchi, inutilmente ansiosi ed egoisti. Ma diversamente da Peter Pan che è egoista, irriverente, rude, Alice è virtuosa e quasi ossessionata dalle buone maniere; è ancora il tipico fanciullo innocente vittoriano.

Negli anni Sessanta furono parecchie le pubblicazioni che si possono ricondurre a questo filone e che, in un certo senso, prepararono il terreno per Peter Pan. Nel 1862 Christina Rossetti (1830-94), già autrice di nursery rhymes che hanno un tono un po’ melanconico e per argomento temi come il tempo, i cambiamenti, la morte, pubblicò Goblin Market, la storia di una ragazzina ossessionata da un frutto offertole da un folletto. L’anno successivo uscì The Water Babies di Charles Kingsley (1819-1875), sottotitolato “A Fairy Tale for a Land Baby”, un libro dove si incontrano istruzione e creazione fantastica, una strana mescolanza di lezioni morali e di biologia marina.

Nel corso del diciannovesimo secolo, il mondo delle fiabe era lo sfondo tipico dei racconti per ragazzi anche se trattato sempre con estrema serietà e in questi scritti non mancava mai una morale. Entro la fine del secolo le fiabe erano viste come un ottimo strumento pedagogico attraverso il quale il bambino poteva scoprire il mondo, se stesso e la sua mente, perché gli fornivano conoscenze sul mondo in senso largo.

Nella seconda metà dell’Ottocento l’Impero Britannico si ampliò di quattro volte, si sviluppò un sempre maggiore interesse per i luoghi esotici e come naturale conseguenza proliferarono le storie d’avventura. Il protagonista è immancabilmente un giovane eroe né sveglio né stupido, ma pieno di ardimento che, come in ogni fiaba che si rispetti, lascia la casa natale per cercare fortuna in qualche luogo esotico dove fa l’incontro di naufraghi e cannibali; non ci sono più didatticismi religiosi, ma virtù come lealtà, coraggio, armonia e giustizia. Molto popolare in quegli anni lo scrittore americano Herman Melville (1819-1881) che aveva visto con i suoi occhi un ammutinamento e persino dei cannibali, autore di Moby Dick (1851). Il protagonista, il capitano Acab, è uno dei primi eroi moderni per il suo isolamento e il tormento derivato dal dissidio tra ideale e reale e forse uno dei modelli, in chiave ironica, per Capitano Uncino, così come Moby Dick ha all’incirca la stessa funzione del coccodrillo che ossessiona Hook. che si innamora

Il culmine in questa direzione fu raggiunto tra l’ottobre 1881 e il gennaio 1882 quando uscì a puntate sul Young Folks Treasure Island di Robert Louis Stevenson (1850-1894), l’apoteosi dei “penny dreadfuls” con tutti gli elementi tipici del genere (un giovane eroe, un magnifico cattivo, il sangue ed il rum) ma soprattutto una storia scritta per amore della storia stessa senza alcun intento morale; l’autore stesso in un saggio lo definisce “not immoral but simply amoral” e forse per questo motivo Stevenson è l’ultimo degli autori citati da Barrie nel sipario del 1908.

Sul finire del diciannovesimo secolo gli inglesi avevano il culto del fascino (di cui erano seguaci anche i du Maurier) e del fascino dell’infanzia in particolare. Gli anni a cavallo fra i due secoli furono quelli in cui l’infante veniva idealizzato: come emblema di purezza prima, come eroe amante del divertimento poi nella più spensierata età edoardiana. L’antichissimo mito del Puer Aeternus, rafforzato dal Cristianesimo, tornò in voga con il Novecento quando il senso di inadeguatezza fa rimpiangere l’infanzia e il fanciullo è quasi imposto come modello di uomo ideale. In opere come, per fare un esempio soltanto, Le Miniere del re Salomone (1886) di Sir Henry Rider Haggard (1856-1925) si trova testimonianza di un vero e proprio culto della fanciullezza.

Negli ultimi anni del diciannovesimo secolo nacquero nuove discipline come l’etnologia, l’antropologia e la sociologia che si interessavano molto degli stadi primitivi di sviluppo sociale ed umano, e dello stadio infantile in particolare, tanto che la letteratura infantile diventò soggetto di discussione teorica e iniziò anche una letteratura critica della letteratura per l’infanzia e intorno alla fine del Diciannovesimo secolo l’io lirico infantile cominciò a trovare espressione immediata, libera da censure e contemporaneamente questa espressione era presa sul serio. Si cominciava a vedere l’infanzia come qualcosa, non solo di distinto, ma persino di opposto all’età adulta; il bambino diventa “altro”, era qualcosa che poteva anche fare paura.

Un best seller di quegli anni fu The Golden Age ( 1895) dello scozzese Kenneth Grahame (1859-1932), la storia di una tribù di ragazzi che vive in netta ed irriducibile separazione, in continuo anche se sotterraneo stato di belligeranza con la tribù degli adulti che vive nel loro stesso territorio. Questi bambini vedono gli adulti come Olimpi incapaci di gioire e il libro è evidentemente opera di un adulto che ripensa nostalgicamente al passato e idealizza la sua fanciullezza, conscio della distanza fra sé adulto e sé bambino. Il libro ebbe grossa influenza e Peter Pan potrebbe essere la risposta di Barrie a questo suo connazionale.

Nella letteratura per l’infanzia della fine del Diciannovesimo secolo le lezioni morali esplicite non erano più di moda, anzi venivano parodiate così come i modelli educativi del tempo. Il giocare a “fare a finta che” diventò il centro della vita nella nursery; il gioco non era più visto come qualcosa di negativo in quanto ozio, ma incoraggiato quale elemento essenziale del processo cognitivo. I bimbi borghesi venivano incoraggiati ad esercitare la loro immaginazione leggendo e giocando anche se l’etica di fondo dei libri che leggevano era ancora quella eroica, i miti quelli del coraggio e del cameratismo maschile

In quegli anni un po’ tutta la letteratura inglese si arricchì di quella vena di fantastico che subisce il fascino delle divinità pagane, delle streghe, delle ninfe dei boschi e dei visitatori soprannaturali e con l’avvento del Ventesimo secolo il pubblico inglese alle storie d’avventura cominciava a preferire le storie di fate. Pian piano quelle delle fate divenne una mania che presto si sarebbe trasformata in una sorta di religione alternativa e la richiesta da parte dei lettori di storie fantastiche era tale che in Inghilterra tra il 1900 e il 1920, si pubblicarono una miriade di collane di racconti popolari di vari paesi: Russia, Irlanda, Scozia o India.

Quando si parla di età edoardiana ci si riferisce ad un breve ma importantissimo periodo della storia inglese, e cioè a quel decennio (1901-1910) in cui regnò re Edoardo VII (1841-1910), figlio della regina Vittoria e a lei succeduto al trono. Noto come il principe playboy, grasso appariscente e a tratti addirittura grossolano, Edoardo amava le cose materiali e i piaceri carnali, le stravaganze dei ricchi come la caccia, la vela, le scommesse, i viaggi nel continente. Divenuto re Edoardo VII non cambiò quasi per niente: a differenza della madre, egli aveva una concezione di regalità fatta di lusso, ostentazione e solidarietà con l’aristocrazia, ciò nonostante era popolare tra tutte le classi sociali e teneva a questa popolarità più che alle virtù regali di dignità e rispetto. La sua vita è stata paragonata ad un continuo “garden party”, le feste in giardino che era solito organizzare e suo nipote, re Edoardo VIII, lo definì l’ultimo inglese che non ha mai smesso di divertirsi così che l’età che da lui prese il nome è ricordata come un periodo edonista, anche se, come vedremo, è pervasa da un vago senso di malinconia e di apprensione.

Alla morte della regina Vittoria seguì un senso della fine di un’era prospera e si aprì un’era di dubbi, speranze e paure. Il fin-de-siècle fu pervaso dal senso dell’eccessivo peso delle conoscenze, da una certa nostalgia per un Eden perduto, con l’avvento del nuovo secolo si cominciavano a notare delle spaccature nella natura umana, ci si tormentava con presagi sinistri e ci si posero nuovi inquietanti interrogativi.

Quello in cui regnò re Edoardo VII fu un decennio molto importante perché in quegli anni si compì il passaggio dall’Inghilterra ottocentesca e vittoriana a quella moderna. Fu proprio in quegli anni che videro la luce gli aeroplani, il radio telegrafo, ma anche l’ipnotismo, la psicanalisi e il partito Laburista. Il nuovo avanzava a grandi passi, ma l’Establishment tendeva a rifiutarlo: gli scritti di Freud erano considerati osceni, le rivendicazioni delle donne per il loro diritto a votare pazzia, il nuovo teatro, ispirato a quello di Ibsen, era oggetto di una censura spietata e ci furono i primi contrasti tra sindacato e lavoratori. In quegli anni le relazioni fra i sessi come quelle tra ricchi e poveri, tra Conservatori e Liberali andarono sempre più deteriorandosi così che l’età edoardiana fu un periodo di ansie riguardo la politica, l’economia, la filosofia, la religione, il sesso e l’Impero; ma ciò nonostante un periodo positivo e creativo.

Crollata la cosmogonia vittoriana, la fiducia nel progresso e nell’espansione, vedevano la luce nuove idee contro il razionalismo, il positivismo e il materialismo vittoriani in quanto limiti alla libertà umana; gli edoardiani volevano liberarsi dalle restrizioni del pensiero e dei valori materialisti ereditati dall’era vittoriana attraverso il socialismo e lo spiritualismo; i romanzieri edoardiani si interessavano sempre più al soprannaturale, al non-visto, alla psicologia e sempre più spesso al disagio dell’uomo moderno. In quegli anni T.S.Eliot in una sua poesia introduce un personaggio emblematico dello spirito del suo tempo come J.Alfred Prufrock che, non riuscendo ad inserirsi nel mondo adulto, ad amare ed essendo conscio della propria mediocrità non trova di meglio da fare che meditare sul canto delle sirene.

Nell’ambito della letteratura inglese per l’infanzia questi sono gli anni di Peter Pan e di testi come The Wind in the Willows di Kenneth Grahame pubblicato nel 1908 e i cui protagonisti sono animali umanizzati alla maniera di Esopo. Ci sono un topo molto assennato, una talpa dalla grande voglia di vivere e un tasso saggio e rispettato da tutti; ma il vero protagonista della storia è il rospo scapestrato e spaccone. Questo rospo, che gli altri animali tentano in tutti i modi di redimere, è estremamente irresponsabile, pensa solo a divertirsi e a dimostrare quanto è scaltro. Non importa che combini un sacco di guai e che si trovi spesso in situazioni disperate, quel che conta è il suo sconfinato entusiasmo per ogni novità e la simpatia che sprizza da tutti i pori. Il signor Rospo con le sue picchiate in automobile, con il suono del suo clacson disturba la tranquillità agreste ma porta la prospettiva di viaggi lontani e dell’autentica poesia in tanta stasi.

Fu proprio in quegli anni che Saint Exupéry elaborò la storia del suo Piccolo principe, una storia emblematica di quel genere che abbiamo chiamato del racconto fantastico dove il bambino “è fuori da tempo e spazio antropici, esorbita da schemi e regole della quotidianità, che però conosce e domina, tanto da poterli conoscere, esprimere e criticare.”

Sintomatici del clima culturale europeo di inizio secolo sono personaggi come il Piccolo Principe e Peter Pan stesso che, non approvando la realtà, se ne creano una di alternativa a loro immagine e somiglianza, piccoli destinati a rimanere tali per sempre, al di fuori da ogni determinazione cronologica; abitatori di mondi lontani ed alieni la cui ecologia è di natura onirica e verso i quali stiamo fuggendo o dai quali forse proveniamo. Questi piccoli, che vivono in modi completamente diversi dal nostro, mettendo in discussione le nostre regole infrangendole vistosamente. I ruoli di grandi e piccoli sono scambiati nel grande gioco del “facciamo a finta che” dove sono possibili modi di essere e di fare che il nostro cerimoniale vieta. Questi libri mostrano l’infanzia come potrebbe essere se avesse le condizioni che il libro descrive e poi lasciano la scelta al lettore.

Il teatro ai tempi della fairy-play Peter Pan, or the boy who would not grow up.

Durante il regno di re Edoardo VII i problemi sociali del periodo diventarono oggetto di riflessione anche sul palco; in quegli anni la discussione dei problemi relativi all’etica e ai codici di comportamento della borghesia appassionava particolarmente gli autori inglesi, in particolare quelli che scrivevano per il teatro, come Pinero, G.B.Shaw, Granville Barker o Galsworthy. Entrarono in voga le cosiddette problem plays di stampo ibseniano, anche se in Inghilterra era meno impegnate e più melodrammatiche di quelle del drammaturgo danese

Nel 1889 Casa di bambola di Ibsen fu rappresentato per la prima volta in Inghilterra e dal quel momento in poi la questione del matrimonio insieme alla più ampia questione femminile fu trattata apertamente sia in teatro che nella prosa, ma la resistenza tipicamente edoardiana dell’Establishment alla novità si esplicava in una censura autoritaria, paternalistica e protettiva. Ci si preoccupava di evitare che in teatro come in letteratura si parlasse di politica, religione o sesso, i tre argomenti tabù del periodo, mentre si adoperava per preservare “good manners, decorum and the public peace”

Gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento sono considerati anni di declino per il teatro inglese; erano in voga forme ibride come il music-hall o il melodramma, insieme alla commedie musicali, all’operetta e all’opera comica; è il tipo di teatro contro il quale lottarono Ibsen o Shaw. Il teatro per ragazzi è il prodotto di questi elementi di declino del teatro per adulti.

Il teatro per bambini, che ha le sue origini nel diciottesimo secolo, era diventato nel corso dell’Ottocento sempre più ricco, vario ed importante; agli spettacoli di marionette e burattini si aggiunsero pièce con intenti didattici e spettacoli natalizi nelle scuole dove gli attori erano gli stessi scolari.

Ma la principale forma di intrattenimento teatrale per bimbi nel diciannovesimo secolo era la pantomima, una specie di commedia musicale per ragazzi che si rifaceva ai racconti popolari. Lo schema tipico è quello dell’eroe bambino cui viene contrapposto un cattivo (villain); c’è la fata buona e la presenza di scene di trasformazione in cui il mondo quotidiano del primo atto si trasforma, nella cosiddetta “fairy sequence” del secondo, in una specie di terra fatata in cui si svolgono combattimenti all’ultimo sangue. C’erano canti, danze e un elemento fondamentale era il coinvolgimento dell’audience.

La pantomima si trasformò nel corso dell’Ottocento e per la fine del secolo l’arlecchinata era scomparsa e la “fairy sequence” si era ampliata tanto da divenirne la parte centrale. In quegli anni si portano sul palco i classici della letteratura infantile come The Water Babies di Kingsley o le opere di Dickens e proliferano le pantomime che, visto il particolare gusto degli spettatori vittoriani per tutto quello che era spettacolo e spettacolare, erano diventate le depositarie dell’eccesso e della stravaganza in campo teatrale. Piene di tutte le banalità e le volgarità del music-hall, duravano dalle quattro alle cinque ore, la musica che le accompagnava era assordante e gli spettatori ne uscivano quasi storditi.

Il volgere del secolo vede anche la produzione di alcuni “fairy dramas”, espressione teatrale del culto della fanciullezza che aveva pervaso tutto il teatro vittoriano: versioni teatrali di Hansel e Gretel (1894) o di Alice (1886). Assistevano più che volentieri a queste rappresentazioni anche gli adulti, per i quali era un enorme piacere vedere i bimbi sul palco e vi assisteva anche Barrie in compagnia di qualche bambino suo amico.

In quegli anni la pantomima era anche luogo di sperimentazione; il significato di una nuova produzione stava nella sfida che questa lanciava alla pantomima precedente. Per Barrie, per il produttore Frohman e il per regista Dion Boucicault la sfida aveva un particolare fascino, ed è forse anche per questo che essi offrirono al pubblico inglese qualcosa di completamente nuovo; non tanto la fondazione di un nuovo tipo di dramma, ma la rivivificazione di molti altri. Peter Pan, or the boy who would not grow up rappresenta il momento in cui il dramma domestico leggero, le fate e la fanciullezza venivano offerte insieme ad uno spettatore bambino, nella forma di una “fairy-play”, una fiaba scenica. Ed è proprio di una fiaba che si tratta; non la storia delle avventure di Peter Pan ma di quelle di Wendy e dei suoi fratellini che dalla sicurezza della loro nursery vengono condotti volando nella Neverland.

Secondo Propp, tutte le fiabe soggiacciono ad uno schema comune; possono cambiare i nomi dei personaggi, ma non le loro azioni e funzioni, che si susseguono in maniera sempre identica. Tutto il repertorio delle favole di magia consiste in una serie di varianti, risultato dell’influenza della sempre cangiante realtà, o della letteratura o delle credenze. Il soprannaturale interviene a rompere un equilibrio e attraverso uno squilibrio provoca la ricerca di un secondo nuovo equilibrio. Si parte da una situazione iniziale di tranquillità e benessere in genere una famiglia: sopraggiunge una sciagura che guasta questa situazione, o un antagonista che turba la pace della famiglia; in genere questo antagonista giunge di soppiatto o in volo e tenta una ricognizione, fa domande per conoscere le sue vittime e poterle persuadere o ingannare meglio. L’antagonista con l’inganno, la violenza o l’uso dei suoi poteri magici arreca danno a uno dei membri della famiglia; rapisce o attira a sé una vittima, che diventerà l’eroe della storia, colui che “avverte la mancanza di qualcosa oppure che accetta di porre rimedio alla mancanza o sciagura che affliggono un’altra persona.” L’eroe è condotto, spesso volando, in un altro reame, molto lontano, dove dominano delle concezioni di tempo, spazio e numero completamente diverse, in cui spesso si trova quel qualcosa di cui avverte la mancanza. Lì eroe ed antagonista lottano e la mancanza iniziale è rimossa dopodiché l’eroe ritorna da dove è venuto.

Questo schema, che è lo stesso dei miti più antichi (ai quali, molto probabilmente risale la fiaba) o dei romanzi cavallereschi, si adatta perfettamente alla storia della famiglia Darling, turbata dall’arrivo di Peter Pan che ne rapisce i figli e fa vivere loro le più incredibili avventure sulla Terra-di-Mai, dalla quale Wendy deciderà di far ritorno.

Peter Pan e la psicologia.

Gli anni in cui Barrie elaborò il suo fortunato personaggio sono anche gli anni in cui Sigmund Freud pubblicò le sue opere più importanti e James Matthew Barrie dimostra una certa conoscenza o quantomeno un certo interesse per i meccanismi della mente, soprattutto di quella infantile.

Freud scrisse i suoi saggi sulla sessualità infantile proprio negli anni in cui i vittoriani, e la letteratura per l’infanzia più in particolare, si ostinavano a negarla perché troppo spaventosa. Finché era in vita la regina Vittoria l’Establishment tendeva a rifiutare le idee di Freud come immorali e a censurare i suoi scritti in quanto osceni, ma il padre della psicologia trovò dei paralleli alle sue teorie sull’inconscio proprio nei racconti popolari e nelle fiabe (letteratura per l’infanzia per eccellenza), in cui si trovano drammatizzate situazioni limite come l’amore incestuoso, la rivalità tra genitori e figli, lo svelarsi delle pulsioni sessuali e la letteratura per l’infanzia avrebbe dovuto, presto o tardi, fare i conti con questa novità. Furono gli edoardiani, nel loro tentativo di liberazione dai limiti imposti dal materialismo scientifico vittoriano, di guardare al di là dell’hic et nunc, a tutto quello che non è puramente materiale o credibile, ad aprire le porte alla psicologia anche se la consideravano non tanto come una scienza quanto come qualcosa di alternativo ad essa. In Inghilterra la psicologia si mescolava spesso allo spiritualismo; si studiavano la percezione extrasensoriale, il subliminale, la personalità multipla, il subconscio. è stato scritto che la psicologia sta alla scienza come la letteratura fantastica sta alla letteratura in generale e in un testo rappresentativo della letteratura fantastica, oltre che di quella per l’infanzia, come Peter and Wendy c’è molta psicologia.

La nozione di bambino in Freud e in Barrie sono simili nella misura in cui entrambi vedono i bambini come egoisti e amorali. La scena in cui Barrie descrive la signora Darling mentre riordina le menti dei suoi bambini come se fossero cassetti nei quali dispone davanti i pensieri più belli e nobili e nasconde in fondo quelli che lo sono meno, ha qualche analogia con la teoria freudiana della rimozione.

Abbiamo già visto parlando di Tommy Sandys come Barrie sapesse abilmente drammatizzare i conflitti della mente infantile in formazione e la sua Neverland può essere vista come una metafora dell’ego infantile all’interno della quale si realizzano alcuni sogni e desideri infantili come la capacità di trascendere il tempo e la morte, l’omicidio, il conflitto edipico. Secondo Freud il bambino sogna di avere il sopravvento sul padre per poi prenderne il posto accanto alla madre, e Barrie, dopo aver rappresentato l’ardua lotta tra Peter e Uncino per il possesso di Wendy, chiude con un’immagine di Peter “a very Napoleon on his ship…we see him on the poopin Hook’s hat and cigar, and with a small iron claw.”, che dopo averlo sconfitto, prende il posto di Uncino, di più diventa Uncino.

È indubbio che Barrie si interessasse di questa nuova scienza. I biografi riferiscono che lo scrittore nel ‘15 preparava un copione, per altro mai portato a termine, per un’opera teatrale che raccontava la storia di uno schizofrenico in cui bene e male lottano per il predominio sulla sua personalità. Barrie parlava spesso di sé come di una personalità divisa facendo riferimento al suo writing half, che definiva un unruly self, la parte ribelle, indisciplinata di sé. La sua segretaria personale, Cinthya Asquith sosteneva che il subconscio di Barrie era qualcosa di più di un semplice collaboratore e che spesso prendeva il sopravvento. Nella “Dedica” che introduce il testo della fairy-play di Peter Pan Barrie dichiara di non ricordare di aver scritto quest’opera, insinuando così che Peter Pan potrebbe essere sgorgato direttamente dal suo inconscio oppure che egli potrebbe aver rimosso i pensieri e le sensazioni provate nel periodo in cui la storia prendeva forma nella sua mente.

A quanto pare Barrie faceva dell’autoanalisi e, anche se solo dopo molto tempo, si rese conto che in Peter Pan egli aveva drammatizzato anche i conflitti della sua stessa psiche: tra alcuni suoi appunti datati 1922 troviamo queste parole:

It is as if long after writing Peter Pan its true meaning comes to me. Desperate attempts to grow, but can’t.

Freud, curando i suoi pazienti si era reso conto che gli adulti in fuga da una realtà dolorosa spesso si rifugiavano in una regressione ai giorni spensierati e felici della fanciullezza, stadio in cui gli esseri umani non sono ancora repressi da famiglia ed educazione. In Peter and Wendy Barrie sostiene che i Bimbi Sperduti dopo essere stati adottati perdono progressivamente la capacità di volare perché perdono la fede nella loro possibilità di farlo suggerendo così che la Terra-di-Mai è un luogo accessibile solo fintanto che siamo liberi dalle costrizioni della coscienza che la società ci impone.

Negli anni che seguirono la pubblicazione dei testi di Barrie fu la psicologia junghiana ad interessarsi del concetto di puer aeternus vedendoci il simbolo della capacità della psiche umana di essere in un perpetuo stato di evoluzione, il simbolo dell’incoercibile anelito all’esplorazione del mondo.

Negli anni Ottanta lo psicologo americano di scuola junghiana Dan De Kiley ha individuato una sindrome che ha chiamato proprio “sindrome di Peter Pan”, che colpisce chi, come Peter, “finisce per rimanere imprigionato nell’abisso dell’uomo che non vuole diventare e del ragazzo che non può continuare ad essere” chi ha provato a rifiutare le regole del mondo adulto e si è ritrovato sconfitto.

La sindrome colpisce molti giovani uomini che si sentono rifiutati dai genitori, abbandonati ed incompresi, sono inquieti, non hanno nessuno a cui rivolgersi con fiducia, ma cercano di nascondere le loro inquietudini con coperture, come fa Peter Pan quando si mette a suonare allegramente il suo flauto proprio mentre sta per essere abbandonato da Wendy e dai suoi Bimbi Sperduti.

La personalità di questi moderni Peter Pan li spinge a fingere, mentire, imitare, recitare un ruolo, inventare storie straordinarie. Per prima cosa essi mentono a se stessi e, per evitare di pensare alle loro paure ed insicurezze, preferiscono guardare ai loro lati positivi, finendo così per sviluppare un estremo narcisismo convincendosi presto di essere qualcosa di speciale e trasformandosi spesso in individualisti dall’atteggiamento arrogante, anche se “alla megalomania cosciente corrisponde un’inferiorità inconscia.”

Abbiamo visto come Peter Pan sia indifferente, senza cuore, cambi campo per noia e come spesso faccia uso di questo lato del suo carattere per intimidire le sue nuove conoscenze, mentre fa leva sulla loro comprensione verso un bimbo abbandonato per manipolarli. Manipolazione ed intimidazione sono i mezzi con cui i Peter Pan del nuovo millennio gestiscono i loro rapporti interpersonali.

Secondo De Kiley la causa della sindrome sta nell’atteggiamento dei genitori che hanno lasciato che i loro figli credessero che le regole fossero valide per tutti tranne che per loro, genitori come la signora Darling che lasciando trasparire la sua preoccupazione nel lasciare soli i figli e sentendosi chiedere da Michael “Can anything harm us, mother, after the night-lights are lit?” risponde: “Nothing, prescious. They are the eyes a mother leaves be’ind her to guard her children.” quando invece è estremamente in ansia per loro.

I figli di simili madri conservano troppo a lungo una psicologia adolescienziale, fuggono le responsabilità di qualsiasi tipo, sono letteralmente incapaci di impegnarsi in qualcosa e continuano a cercare la madre in ogni donna che incontrano. Gli uomini affetti dalla “sindrome di Peter Pan” vogliono che la loro compagna faccia loro da mamma che comprenda la loro fragilità psicologica, che ceda sempre ai loro capricci, proprio come fa Wendy Darling, sempre pronta a modificare il suo modo di agire e pensare per assecondare il suo Peter, che proprio per questo la preferisce all’esotica Tiger Lily come alla sensualissima Trilly. Molto spesso questi uomini non riescono a stare senza la loro Wendy e allo stesso tempo hanno il terrore dei legami, della routine e delle convenzioni; come Peter vogliono solo continuare a divertirsi, così, mentre per Jung il fanciullo divino rappresenta “la tendenza più forte ed irriducibile di ogni esistente: quella di realizzare se stesso.”, per De Kiley il puer aeternus è l’archetipo dell’amoralità, della vulnerabilità e dell’autodistruttività.

Questa sindrome si è sviluppata negli ultimi trenta o quarant’anni, periodo in cui l’età non è più qualcosa di biologico quanto di culturale ed è definita in relazione ai codici di comportamento; un’età in cui si incontrano spesso ibridi di adulti con l’aria da adolescenti, persone per le quali essere immaturi altro non è che un comodo modo di dissacrare forme e convenzioni del mondo adulto e ricavarci una buona dose di divertimento, uomini intrappolati nella loro eterna fanciullezza e donne in una specie di eterna maternità. Uso la parola intrappolati perché “ciò che da una parte implica, invero, la possibilità della libertà umana, dall’altra parte però è fonte di infiniti conflitti con gli istinti.”

Altre interpretazioni.

Abbiamo visto come Peter Pan sia un bambino sfuggente e soprattutto pieno di contraddizioni tanto che spesso viene interpretato in modi quasi diametralmente opposti. C’è chi come De Kiley ha visto in lui qualcosa di patologico, chi nell’atteggiamento peterpanesco di quanti si sentono in dovere di pensare e comportarsi da giovani vede un antidoto alla paura della vecchiaia quale età in cui diventiamo materiale di scarto e nella puerizia trattenuta il sintomo della paura di un mondo, quello adulto, senza dei, senza punti di riferimento, decadente: un mondo che alcuni preferiscono osservare da lontano.

Quando la spontaneità, l’aspetto ludico dell’esistenza, l’amore per la fantasia, la stessa curiosità sono minacciate dalle regole dell’educazione, c’è chi, per non inaridire, si rivolge al genio della fanciullezza. Quando le regole educative “rinforzano la competitività a prezzo del gioco, il giudizio e il pregiudizio a scapito della spontaneità e le limitazioni del dovere a danno del diritto alla fantasia” c’è che preferisce rifugiarsi in una sua personale isola che non c’è.

Allora forse bisogna guardare a Peter Pan non tanto come ad un “modello di disconoscimento dell’importanza di crescere”, ma come allo “strenuo difensore di valori e atteggiamenti che solo nell’infanzia sembrano poter essere accettati e pienamente vissuti…”, valori quali la spontaneità, la libertà, la fantasia; all’eterno fanciullo come ad un indomito ricercatore e, come hanno fatto Aldo Carotenuto o Franco Bolelli, nella puerizia trattenuta una semplice disposizione d’animo a mantenersi curiosi nei confronti della vita, a scorgere continuamente speranze future, a mantenersi aperti alla realtà che ci circonda, a non perdere di vista quel fanciullino che, secondo il Pascoli, alberga dentro di ognuno di noi. Quel fanciullino conserva la capacità di godere di quel senso di meraviglia che accompagna le nuove esperienze e di dare un’immediata e franca espressione di sé; è capace di un’apertura all’altro scevra da preconcetti, di aspirare alla bellezza e all’armonia, di partecipare affettivamente alla realtà. è da questa visione del mito di Peter Pan che probabilmente deriva l’enorme fortuna che il suo nome riscuote ultimamente; Peter Pan o l’Isola che non c’è sta ad indicare ormai qualsiasi cosa (punto vendita o trasmissione televisiva, per fare solo qualche esempio) abbia a che vedere con l’infanzia.

Aldo Carotenuto, La strategia di Peter Pan, p. 52.

Ibidem, p. 67.

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