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Palcoscenico

Il cuore rivelatore

L’amore e l’odio. Addirittura, direte! Eppure tutti, quotidianamente, facciamo i conti con questi due sentimenti estremi. Fanno parte della nostra vita.
Gli attori (in questa sede, ci interessano di più quelli teatrali) conoscono bene sia l’amore sia l’odio. Mestiere di ambivalenze, di doppi significati ed alternate realtà, quello dell’attore (specie se di successo) suscita amorosi sensi e rancorosi odii. Invidia e fascinazione: un mèlange che corrompe ed affascina.

Giorgio Albertazzi o si ama o si odia: addentratevi solo un minimo nel suo microcosmo e ve ne accorgerete.
Pronunci il suo nome, e una serie di inevitabili immagini-cliché si affacciano alla mente: Luchino Visconti e il suo profumato ed opulento mondo fiorentino-romano: il teatro che trasporta con sé la gelosia e la lussuria; Anna Proclemer, compagna e musa dell’attore per un ventennio; Bianca Toccafondi, il primo mai rinnegato amore e una collega seguita, anche da lontano, con morbido affetto.
Ancora, il Dante televisivo, il prodigioso “Idiota” dostoevskijano che terremotò gli indici d’ascolto RAI; le polemiche politiche, il rifiuto di autocatalogarsi: immagini, dicevamo, a combustione spontanea…
Tutta “biografia” (i dati reali eccoli lì, basta scorrere lo sguardo), ma come nelle migliore delle fiabe, la realtà nasconde sotto il proprio volto una beffarda, sorprendente, sconcertante “meta-realtà”.

Cortina d’Ampezzo, agosto 1988. La marmaglia colorata dei vacanzieri di stanza sulle Dolomiti questo tardo pomeriggio sceglie un diversivo di qualità. Prima dell’aperitivo davanti all’Hotel Posta, affolla il Palazzo dei Congressi ove Giorgio Albertazzi presenta la sua autobiografia “Un perdente di successo”, fresca di stampa.
Fa da moderatore lo scrittore veneziano Nantas Salvalaggio, uomo di cultura affine ad Albertazzi per raffinati gusti estetici: oggi, con terminologia terrificante, li definiremmo una coppia “radical-chic”…
L’ora prevista per l’incontro si gonfia incontrollabile: tipico esempio di logorroico seducente, Albertazzi si “spende” a ruota libera, ride e fa ridere, si adombra solo un po’ quando una spettatrice lo accusa di avere “paura del silenzio”.
Morale: una grande prova d’attore, anche “sotto” il palcoscenico. Esiste un riferimento letterario implicito e fulminante, quando ci si accosta a Giorgio Albertazzi: Gabriele D’Annunzio; una volta si fece persino fotografare in posa, emulando il Vate: avvolto in un lenzuolo bianco, in riva al mare, un’espressione da “tombeur des femmes”, simulacro dell’eterno mito di Narciso. La sensualità, l’inebriante voglia di vivere, di sedurre e lasciarsi sedurre…
E poi quella vocazione “da outsider”, da non allineato fiero della propria eccentricità. Albertazzi è inviso dai colleghi che stanno sempre con il teschio in mano, scuri e duri pure nella vita privata, pallidi e pessimisti.
Questo magnifico settantaseienne fiesolano non potrà mai essere un tormentato, un depresso, un introverso: la sua vita è una festa sorridente a cui saremo, sempre, tutti invitati, e non è un caso che le cene dopo i “suoi” spettacoli siano affollatissime, visto che lui trascina con sé chiunque si sia avventurato in camerino.

Doveva fare l’architetto (si è difatti laureato con una tesi su Frank Lloyd Wright), ma già le Compagnie teatrali fiorentine se lo contendevano, e lui si “lasciava scegliere”, deviava dal suo percorso: consuetudine che si ripeterà spesso nel corso della sua lunga avventura umana ed artistica.
L’Italia si rimboccava le maniche dopo il secondo conflitto mondiale, il bisogno di sfidare l’orrore con un sorriso e una scintilla d’arcobaleno coglieva tutti, indiscriminatamente.

A Firenze c’era Athos Ori, capocompagnia di discreto successo, c’era la cantina degli Albertazzi, dove il giovane Giorgio si dilettava a mescolare sali da bagno multicolori in una conca d’acqua artificiale creata da lui stesso.
C’era una bellissima cugina dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, che morirà all’improvviso, di lì a poco, e Albertazzi lo seppe “in anticipo”, tramite visione telepatica: medium che non parla volentieri dei suoi poteri, scrittore e poeta neofita che subito trova il suo pigmalione  l’avvocato Tanini, pingue ed omosessuale, talmente innamorato di quel ragazzo dagli occhi di brace da cedergli la propria casa di Falconara, vicino Ancona, perché “producesse opere d’arte”), artista già completamente formato, avventuriero che paga consapevole il prezzo delle proprie scelte, quando sono sbagliate.

C’era, e ci sarà sempre, quel mondo toscano di palpabile erotismo, di imprese pionieristiche: nei ricordi e nell’atteggiamento di vita di Giorgio Albertazzi, un uomo incapace di “non” mettersi in gioco, di chiamarsi fuori, di glissare.
Quando, grazie a dei parenti ivi posizionati, Albertazzi mette piede a Roma, subito sente distintamente di aver poggiato i piedi su di una terra magica, dove tutto è possibile, dove i sogni di gloria non hanno il sapore amaro delle utopie, dove anche la visione fantastica può concretizzarsi davanti ai tuoi occhi, basta volerlo.
Franco Zeffirelli, amico e fratello di sempre, fiorentino pure lui, lo introduce a Luchino Visconti: una sera il regista di “Vaghe stelle dell’orsa” si presenta sotto casa di Albertazzi, ostruendo con la limousine nera la via stretta e buia; lo scruta per alcuni istanti, istanti di silenzio e trepido imbarazzo. Poi la sentenza, sussurrata e secca, come una staffilata: “Tu hai gli occhi di Burt Lancaster…”
Nel suo libro Giorgio Albertazzi confesserà: “Era impossibile con Luchino, credo, sottrarsi ad una sorta d’insinuazione erotica, seppur lieve: e difatti mi sentivo vagamente eccitato, come dopo un incontro amoroso”…
L’incontro scintillante tra Visconti ed Albertazzi è stato raccontato da fiumi d’inchiostro che spesso hanno privilegiato la malizia e l’attenzione morbosa, a scapito di quello che l’incontro medesimo ha provocato: un’opera di svecchiamento del palcoscenico italiano, il filone originario che darà la stura ad un nuovo modo d’intendere le questioni teatrali.

L’estate 1948 significa il Maggio Fiorentino, happening teatrale di proporzioni titaniche che produce il “Troìlo e Cressida” di Shakespeare in un’edizione stracolma di interpreti: Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Gabriele Ferzetti, Raoul Grassilli, e Albertazzi, appunto.
Già la critica teatrale si accorge di quel giovane che declama poche battute, ma taglia con il proprio sguardo la scena: due spilli appuntiti, messi lì apposta per calamitarti, per ammaliarti: non ne fabbricano più, di occhi così…
“Delitto e castigo”, realizzato per la televisione nel 1956, commuove migliaia di telespettatori: Giorgio Albertazzi si cala nel ruolo ed è come se avesse abitato lì da sempre, tra le pieghe del testo, mirabile e incomparabile…
Non potrà esimersi di riaffrontare il Grande Russo: accanto ad un minaccioso, sanguigno Gian Maria Volonté sarà il dostoevskijano Principe Mishkin, pallido ed emblematico martire del Male di Vivere: un’esperienza quasi metafisica, con svenimenti durante le prove, inquietanti immedesimazioni nel ruolo, e dei primi piani talmente concreti, plausibili, neorealisti, da rappresentare una pietra di paragone per chiunque vorrà cimentarsi nell’annosa impresa di trasferire sul piccolo schermo la Prosa e la Poesia.
“Appuntamento con la novella”, libera trasposizione di capolavori della letteratura sottoforma di pillole per il tubo catodico, trasferisce l’attenzione del pubblico dagli occhi alle mani di Giorgio Albertazzi: “quelle” mani appaiono in primo piano, ogni puntata,e saranno mitizzate come un miracolo attoriale, come un’apoteosi della comportamentistica teatrale: gli imitatori si affannino pure, fatica sprecata.

Sarà il cinema, piuttosto, a non mettere a fuoco il “personaggio” Albertazzi, a spaventarsi del suo viso sottilmente misterioso: con qualche apprezzabile eccezione…
1961. Alain Resnais, parigino di talento alle prese con l’incomunicabilità (in quel periodo svolgeva in Francia un’attività imparentabile a quella del nostro Michelangelo Antonioni), una mattina sparpaglia sul pavimento del suo open space un mucchio di fotografie di attori di tutto il mondo.
Accanto a lui lo sceneggiatore Robbe Grillet lo aiuta nella ricerca del protagonista misterioso e inquietante de “L’anno scorso a Marienbad.”
Quando Robbe Grillet si ritrova sotto gli occhi la foto di Albertazzi, non ha un secondo di esitazione: è lui l’impersonificazione del Mistero versione Resnais.
Pochi giorni dopo è a Roma, incontra l’attore e chiede di visionare alcuni momenti del famigerato “Idiota” televisivo: se lo vedrà invece tutto, chiuso in una saletta di proiezione della RAI: sette ore e mezzo di programmazione.
Quando esce, rincontra Albertazzi e lo fulmina: “Marienbad” non si può fare senza di te.

Avevo divorato la sua autobiografia, dopo avere assistito alla presentazione del libro, quel pomeriggio indimenticabile a Cortina. Una mattina me lo vedo passeggiare per Piazza dell’Unità d’Italia, tranquillo e al solito sorridente sotto il fuoco di fila degli sguardi, dei sussurri, delle mezze frasi un po’ prese in surplace: “ma quel xé Albertazi…”.
Apprendo così che, un po’ alla chetichella e senza preavviso, è giunto nel capoluogo giuliano per una manciata di repliche del suo successo del momento, quelle “Memorie di Adriano”, tratte dalla Yourcenar, che stanno incantando platee di varia provenienza e collocazione: vedo lo spettacolo, e in un lampo capisco perché Giorgio Albertazzi “è” Giorgio Albertazzi.
Glauco Mauri, che ben lo conosce avendoci lavorato per parecchie stagioni, al solo nominarlo s’illumina in viso: ed è raro che accada, in un ambiente che professa l’amicizia tra gli attori ma poi si guarda bene dal metterla in pratica…

Con il compianto Enrico Maria Salerno, e con Vittorio Gassman, ha rappresentato a lungo una sorta di Triade Intoccabile del palcoscenico italiano: tre voci d’argento vivo, la capacità di distinguersi “tra tutti gli altri” per un gesto, una modulazione della voce, un tratto; attori d’altra pasta, rispetto a tanti ectoplasmi blateranti oggi in auge.
I rapporti con il Mattatore par excellence sono stati sempre improntati ad un rispetto “speziato”, condito di veleni sottilmente perfidi, di quelli che piacciono alla follia a provocatori patentati come Aldo Busi e Costanzo Costantini.
Non a caso, chiudendo una querelle a lungo perpetrata, Albertazzi sibila: “Ma sì, Vittorio è il più bravo di tutti: facciamo pure questo monumento al Mattatore, tanto io sarò sempre pronto ad accenderci una miccia sotto…”

Gli attori, i colleghi, i compagni di lavoro (che sono anche compagni di notti, di città visitate, di dolori e gioie) riempiono uno spazio importante nella sensibilità di Giorgio Albertazzi, che non ha mai dimenticato persone come Renzo Ricci, Memo Benassi, Antonio Crast, Franco Enriquez: da ognuno di loro ha appreso qualcosa, ha assorbito qualche atteggiamento, qualche di lezione di vita di palcoscenico: altri una volta installatisi sul proprio piedistallo, vengono avvolti dalla nebbia della superbia, e disintegrano nella polvere della propria memoria chi li ha aiutati a salire fino in cima.. semmai, a creargli non pochi disagi di natura psicologica è proprio la sua tendenza a “deviare”, a scansarsi un po’ dai grandi drammi della vita, e non a caso confessa: “Non ci sono mai alla morte di coloro che amo: non sopporto la malattia, la morte, il male che si accanisce sulle persone a cui ho voluto bene”.
Inutile, perfettamente inutile, elencare tutti i suoi spettacoli: Re Lear, Macbeth, ma pure il Diavolo con le Zinne scritto per lui da Dario Fo; innumerevoli volte Casanova, e tantissimi recital pazzi e screziati di riso, di pazzia, di disincanto e sensualità. Amleto, inevitabilmente, in un’edizione supervisionata da Luchino Visconti e diretta da Franco Zeffirelli; uno spettacolo talmente “forte” da suscitare l’ammirazione incondizionata di Laurence Olivier, che venne a Roma e si sciolse davanti al viso pallido, aristocratico, nobilmente languido, di Anna Proclemer.

Le donne, poi, immancabili vestali per il Seduttore: ed è con affetto sincero che nelle pagine della sua autobiografia accenna (senza mai approfondire) ai suoi legami di vita e di lavoro con tante presenze femminili: “ogni tanto qualcuna di loro arriva e mi ama con un trasporto che io assolutamente non merito, perché per me quasi nulla conta, a parte la mia arte…”.
Ma a difenderlo, dalle spire dell’autocritica un po’ eccessiva e masochista a cui a volte si abbandona, è proprio una donna, una sua amica storica che desidera restare anonima ma che chiosa: “Giorgio è molto meglio di come si descrive: chiunque può averlo, parlare con lui, possederlo anche se solo per un ‘ora: basta aggredirlo, investirlo con la propria presenza, e lui non può sottrarsi…”.
Le donne ritornano nella vita di Albertazzi con uno strano e ripetuto gioco di strane coincidenze, cabale, incastri: durante una Mostra del Cinema di Venezia, dove è ospite, abbandona una conversazione con l’attore americano Tony Curtis per inseguire una bellissima “pantera” dalla chioma corvina, che scappa sinuosa attraverso la morbida sabbia della spiaggia del Lido…
Inutile, negare, però, che è stato anche un grande trasgressivo, vivendo alcune avventure di natura omosessuale con sfrontata e lucida consapevolezza… e quanto struggente rammarico nella cronaca dei pomeriggi passati nella casa romana di Visconti, l’immensa villa sulla Via Salaria: pomeriggi di affetto e di musica, non di sesso come i più hanno insinuato…

Vengono i brividi a dirlo: Giorgio Albertazzi è nel pieno della cosiddetta terza età.
Fulmina con lo sguardo chi gli parla di ritirarsi: stolti, non sanno ciò che dicono… E chiude la questione con una boutade delle sue, intelligentemente parossistica: “credo che morirò solo quando lo vorrò io…”
Lavorando ad un progetto artistico lungo cinquant’anni, senza mai perdere di vista il lato esibizionistico, autocompiaciuto, che è insito nella natura dei teatranti, Giorgio Albertazzi ha compiuto un lungo viaggio concentrico attorno a se stesso; il compromesso più alto e più ambito, la non cancellazione di sé attraverso i personaggi, ma anzi lo stimolo ad un completamento della propria individualità, è risultato degno di grandissima nota: impegnandosi in questa operazione, Giorgio Albertazzi ha insegnato a noi tutti quanto possa l’Arte, anche a livello di terapia psicanalitica.
L’amore e l’odio, a questo livello di coscienza, forse non servono più: l’uomo si toglie i panni dell’attore, e viceversa, in una mìmesi per una volta non martirizzante…

Giorgio Albertazzi è nato a Fiesole (FI) nel 1925. Attore e regista tra i più rappresentativi della seconda metà del ‘900, debutta a Firenze con il Teatro della Meridiana, assieme a Bianca Toccafondi e Franco Enriquez. Interpreta Fessenio nella “Calandria” di Bibbiena, ed è Soranzo in “Peccato che sia una sgualdrina” diretto da Luciano Lucignani e tratto da Ford.
Il primo grande successo è del ’48 con “Troilo e Cressida” di Shakespeare con la regia di Luchino Visconti. L’incontro con l’autore di “Vaghe stelle dell’Orsa” sarà fruttuoso per entrambi.
Gli anni ’50 vedono Albertazzi impegnato in una innumerevole serie di grandi spettacoli teatrali: si cimenta con Ibsen, Kingsley, Fry, e si concede un testo “audace” per l’epoca come il “Faustino” di Dino Terra.
Stringe un sodalizio indimenticabile con l’attrice Anna Proclemer, co-protagonista dei suoi spettacoli più belli: “La figlia di Iorio” di D’Annunzio (1957), “Re Lear” di Shakespeare (1958) e soprattutto un folgorante “Amleto” diretto da Franck Hauser e poi da Franco Zeffirelli (1963).
Sono gli anni in cui lo vuole il regista francese Alain Resnais per “L’anno scorso a Marienbad”: capitolo di una filmografia peraltro piuttosto scarna di prove memorabili. 
Gli anni ’70 sono quelli della crisi artistica e della ricerca sui “testi sacri”: si segnala un discusso “Pilato sempre” (1971), una disinibita versione della “Maria Stuarda” di Schiller, e soprattutto il “Fu Mattia Pascal” tratto da Pirandello e ridotto da Tullio Kezich.
Gli anni ’80 lo ricollocano in una posizione di primo piano: recupera la capacità vocale (quasi ineguagliabile in Italia), e porta avanti per molte stagioni le “Memorie di Adriano”, tratte dalla Yourcenar.
Ultimo grande successo, “Il ritorno di Casanova”, tratto da Artur Schnitlzer in cui riversa non pochi tratti autobiografici.

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