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Cinema

Il diverso e il nuovo nel cinema balcanico (I)

Le marcate e a volte vistose diversità del cinema e della letteratura balcanica suscitano fra gli intellettuali europei degli altri paesi — e naturalmente, non solo tra gli europei — stupore e spesso ingiuste incomprensioni. Tra le accuse più frequenti che i critici rivolgono alle opere cinematografiche (e soprattutto in passato, anche letterarie (1)), vi sono quelle di incoerenza delle strutture narrative, eccessivo accumulo degli eventi, disorganicità, mancanza di linearità.

La riflessione filmologica su diversi film tratti dal vasto panorama della recente cinematografia balcanica avrà lo scopo di evidenziare tali e altre diversità e di dimostrare che il diverso, da noi spesso percepito in modo negativo e come indice di immaturità, è invece l’espressione di una cultura e sensibilità di certo dissimili dalle nostre, ma non per questo “inferiori” e mancanti di una loro organicità e tradizione; anzi, proprio la maggiore libertà stilistica che l’arte balcanica mantiene offre la possibilità di espressioni creative originali, e non prive di genio; apre, in definitiva, le porte al nuovo.

I lungometraggi presi in esame provengono da regioni diverse e diversi sono i “generi” a cui appartengono. Dai croati Isprani (Gli slavati) e Transatlantic (Transatlantico) si passerà al macedone Crveni konj (Il cavallo rosso) e al serbo Bure baruta (La polveriera); dal dramma individuale e storico in Ubistvo s predumišljajem (Assassinio con premeditazione) alla comicità grottesca di Ko tamo peva? (Chi è che canta laggiù?); per concludere con lo sperimentalismo sfrenato di Lepa sela lepo gore (I bei villaggi bruciano bene). Citazioni di altri film verranno effettuate, fra cui quella, fra tutte la più doverosa, di Arizona dream (Il valzer del pesce freccia).

Dalla maggiore lentezza dei tempi narrativi e degli stessi movimenti di camera oggettivamente riscontrabile in molti di questi film potremmo dedurre una particolare, e rispetto a noi diversa, sensibilità sul piano spettatoriale. Che i fruitori di cinema nei Balcani siano abituati, fino almeno ai tempi più recenti, a vedere immagini più lente è un’ipotesi assai credibile: mancava nella ex-Jugoslavia quella massiccia “cultura dell’immagine” (spot pubblicitari, videotape, ecc.) a cui noi da tempo eravamo già sottoposti. Recarsi al cinema era ancora sentito quale un evento rituale e la percezione filmica conservava più marcatamente i tratti della percezione magica: i registi realizzavano i singoli piani con estrema cura e frequente era il ricorso al preziosismo. La minore organicità delle strutture narrative, la preferenza dell’accostamento di eventi più o meno legati tra loro rispetto al perseguimento della maggiore coerenza possibile, la spesso scarsa ambizione al raggiungimento della credibilità diegetica (da cui si potrebbe dedurre, e studiare, addirittura un diverso e più morbido sistema del verosimile su basi culturali), potrebbero essere fatte risalire solo in parte a motivi analoghi al precedente: che spettatori e regista cioè, assai attenti all’immagine fotografica in movimento, attribuirebbero minor importanza alla coerenza narrativa. In realtà, il motivo principale va ricercato nella lunga tradizione letteraria di questi paesi, e del mondo slavo in generale, ricca soprattutto di poemi epici e cronache scritte nel corso di decenni anche da autori diversi; opere in cui le tre unità aristoteliche e la stessa coerenza narrativa coprivano un ruolo marginale rispetto all’importanza attribuita a dettagli, aggiunte, eventi ed episodi secondari. Un esempio dell’influenza esercitata da tale tradizione sul cinema è l’Andrej Rublev di Tarkovskij, suddiviso in grossi episodi che si susseguono senza una stretta logica consequenziale, ma mantenendo ciascuno una notevole autonomia.

Tra le caratteristiche fondamentali della diversità del cinema balcanico noteremo la costante attenzione dei registi, presente in quasi tutti i generi cinematografici, al colore locale, ai paesaggi e ai piccoli gesti e mansioni della quotidianità, che si esprime nei frequenti dettagli e primi piani di oggetti attrezzi e persone intente al lavoro, campi medi con gruppi di donne operai o contadini, campi lunghi o lunghissimi su isole, campagne e città. Spesso questi piani appaiono quasi fini a se stessi e senza grossi legami con la storia rappresentata, frutto di puro desiderio contemplativo: presente in diversi e numerosissimi film balcanici, questa tendenza sembra costituire un tratto stilistico, un modo di rappresentare non codificato ma ben riconoscibile, comune ai registi di queste terre. Qualunque sia l’origine culturale di questo stile (riconducibile forse all’amore romantico per il popolo, la patria e la natura, mai tramontato ma anzi ancora vivo, più o meno consapevolmente, nella letteratura balcanica, o alla corrente del realismo filantropico), certo è che nei film destinati al mercato nazionale, e non solo (quanti sono i turisti stranieri che ben conoscono i paesaggi e i costumi di questi luoghi, soprattutto nel caso di opere ambientate in Dalmazia), esso alimenta nello spettatore il piacere del riconoscimento di cose già viste e familiari.

La sequenza iniziale di Isprani (vincitore nel ‘95 al primo Festival del cinema croato, svoltosi nell’Arena di Pola) è caratterizzata da una sorta di sospensione contemplativa; ma il paesaggio periferico zagabrese rappresentato è sommerso dai rifiuti: cosicché se di contemplazione si tratta, è la contemplazione amara e disincantata di un mondo in degrado. Descriviamo brevemente la sequenza: la prima (I) inquadratura inizia con un dettaglio su delle foglie per passare a un campo lungo sul fiume; una panoramica dx-sx fa entrare in campo due amanti in primo piano che si scambiano tenere effusioni. Una dei due è la protagonista Jagoda, che si alza di scatto perché qualcuno sta arrivando. Lui rimane disteso supino e guarda all’indietro: la soggettiva (II) ci mostra un uomo che passa in bicicletta; si tratta di un campo lungo con l’obiettivo messo sottosopra. Dopo qualche altra breve inquadratura, all’amante di Jagoda che, alzatosi in piedi, si accende una sigaretta viene dedicata addirittura una carrellata su base circolare. La raffinata attenzione nella scelta e disposizione dei quadri e nei lenti movimenti di camera è indice di uno stato d’animo di affetto e adesione al mondo rappresentato, tipico del realismo filantropico di tanta letteratura e cinema balcanici. Un simile sentimento del regista, unito a una rassegnata pietà, caratterizza la sequenza del dialogo in un cantiere tra Tuško, il fratello di Jagoda, e un operaio più anziano. La moglie di quest’ultimo è l’amante di Tuško e l’uomo, appena tornato dal fronte, è talmente amareggiato e disincantato che neppure ambisce a riconquistarsi la consorte, ma si limita a far riflettere il giovane:

“…quanto a me, mi importa poco… Ma ascoltami: ti prenderai mia moglie e mio figlio, e che farai dopo? Hai un appartamento?”

“Vivremo in una pensione per operai.”

“Ho sopportato di tutto, ho trasportato cadaveri… mentre tu ti facevi mia moglie… Ma tu non riuscirai a sopportare a lungo: guadagnerai poco, ti chiederai dov’è finita la tua giovinezza… la tua vita…Lei comincerà a lamentarsi e piangere e tu, senza motivo, picchierai mia moglie.”

La rassegnazione vince ovunque: al padre in collera per non riuscire a salvare la famiglia dalla miseria, Jagoda ricorda che la domenica si sta avvicinando, lui potrà andare a pesca e tutto si sistemerà. Il suo ragazzo non riesce a trovare un appartamento da condividere con lei, e alla fine la protagonista sente che questo amore è di ostacolo alla propria vita familiare non permettendole di occuparsi della madre malata e del fratello Tuško il quale, rotta la relazione con la donna sposata, si dà all’alcool; e per convincere l’amato a lasciarla, dice di voler bene a un altro. Questi si allontana desolato scomparendo nella nebbia, in campo medio: per due volte la sua sagoma sparisce in dissolvenza in un’inquadratura per essere ritrovata, qualche metro più in fondo — e sempre in campo medio — nell’inquadratura successiva. Nella sequenza in cui lei si ricongiunge al fratello, altri originali accorgimenti tecnici vengono adottati: all’inquadratura di Jagoda che ride se ne susseguono lentamente delle altre, con dissolvenza tra l’una e la successiva, e tutti questi quadri sono composti da oggetti domestici e particolari della casa; finchè si giunge all’ultimo piano, con Jagoda che, già distesa sul letto, dorme.

Questo film dà agli spettatori croati in quegli anni un’immagine di sé che di certo già avevano: un paese piagato dalla miseria, provato dalla guerra ancora in corso, un popolo desolato e carico di rabbia; ma quest’immagine viene accompagnata e “corretta”, per così dire, da potenti inviti alla rassegnazione, all’accettazione di una miseria ormai intollerabile tramite l’attaccamento alla famiglia e al focolare, e l’appello a una generico sentimento di bontà. (Questa la citazione di G. Keller quale intertitolo all’inizio del film: “Delle buone persone rendono sempre calda la stanza, anche senza legna da ardere, né tetto, né finestre.”) Quanto alla rabbia, la si fa “sbollire” con l’hobby della pesca e dell’esercizio fisico, entrambi praticati dal padre di Jagoda; l’opera offre insomma allo spettatore un’immagine della propria realtà che egli già possiede e gli suscita rabbia, e su quest’immagine l’autore interviene con chiari stimoli a un’accettazione di tipo regressivo. Al di là di quest’osservazione, non ci è possibile indagare sui possibili reali effetti che tale messaggio abbia potuto suscitare sulla società croata di quegli anni, caratterizzata da grosse tensioni politiche e da un governo che di certo non eccelleva quanto a democrazia e onestà. Neppure possiamo sapere quali siano stati i reali intenti del regista e dei produttori, che presumiamo e speriamo positivi: ma di certo la filantropia di Ogresta, per quanto possa essere stata genuina, avrebbe potuto essere un po’ meno ingenua.(2)

Transatlantic (Il Transatlantico), realizzato nel ‘98 e scelto a rappresentare la Croazia al Premio degli Oscar, stupisce per la gran quantità di paesaggi naturali e urbani in campo lungo o lunghissimo, e per la recitazione marcatamente teatrale dei personaggi. A noi potrebbe apparire come un film decisamente manierato; ma di fronte a tale impressione dobbiamo prendere atto che nella cinematografia balcanica, in parte anche per le ragioni sopra esposte (maggior attenzione e stupore di fronte alle immagini, percezione filmica più vicina, rispetto a quanto sia da noi, alla percezione magica) una tale caratteristica non dev’essere considerata a priori negativa. E accennerei anche, con una dovuta digressione, a un minor rigore, nella cultura balcanica, delle teorie estetiche tradizionali: oltre alla mancanza dell’influenza crociana, da noi invece ancora sentita, nel corso di una tradizione assai antica qui non si è mai fatta una rigida ed esclusiva distinzione tra fatto artistico e cultura più genericamente artigianale e, per quel che riguarda letteratura e arti figurative, molto più a lungo che nelle altre regioni europee si è mantenuto il legame con la religione. Non lasciandoci condizionare dai soliti pregiudizi sull’immaturità culturale dei Balcani, ma cercando di rintracciare in questa diversità un peculiare e non meno valido modo o “mondo” di espressione, ci troviamo a constatare in queste terre, fino almeno ai tempi più recenti, un legame più stretto e diretto tra arte e quotidianità, sia questa una quotidianità di tipo familiare, religioso, lavorativo o politico-sociale.

Per tutte queste ragioni tra l’artigianato con ambizioni estetiche, il kitsch e l’arte vera e propria non vi sono distinzioni nette, ma una fitta rete di rapporti e reciproche contaminazioni; come del resto sono meno netti che da noi i confini tra rito religioso, rito magico ed evento artistico.

Non c’è da scandalizzarsi, adottando quest’ottica, di fronte all’evidente manierismo di Transatlantic. All’inizio del film c’è la romantica immagine di un uomo ripreso di spalle in campo medio, e sullo sfondo intravediamo i colori cupi dell’oceano; nella parte iniziale ancora un campo medio con dei gendarmi austriaci (l’ambientazione è d’inizio secolo); poi un altro con uno sposalizio che avanza, e un altro ancora con tre vecchie donne del luogo. La stretta di mano tra due bimbi è accompagnata da una musica extra-diegetica solenne. La protagonista di questo film incentrato sull’emigrazione dei croati in America è Zorka, che parte per il Nuovo Mondo, con l’intento di sposare un croato più anziano di lei. Campi lunghi sul cupo e nebbioso paesaggio industriale americano danno un’immagine assai inospitale di quelle città, quasi a indicare il senso di alienazione dei pescatori croati lì immigrati. Mentre i campi lunghi sul mare e le isole dalmate suscitano un’impressione di solenne serenità, e i campi medi sulla gente del luogo rendono l’impressione della purezza e genuinità di quel popolo, cosicché ancora più ingiusto ci appare il giogo del dominio straniero (la visione della popolazione dalmata, e di quella balcanica in generale, quale esempio di genuinità e purezza, fu creata dai letterati romantici europei i quali vedevano in queste genti quasi l’incarnazione del mito del buon selvaggio, e quindi gelosamente custodita dagli intellettuali del luogo fino ad oggi, e addirittura alle volte propagandata nel corso dell’ultima guerra balcanica). L’effetto di questo film sull’immaginario degli spettatori è di alimentare una simile visione, un po’ mitica e narcisistica, di se stessi. Rispetto a Isprani, i cui tempi narrativi erano piuttosto lenti, qui essi sono più veloci e più ricca di eventi è la storia, con intrighi economici e politici, un omicidio, e un’innocente ingiustamente condannata. è Miho, l’uomo che Zorka avrebbe dovuto sposare, a venire ucciso da mano ignota; e la donna è la prima ad essere sospettata e incarcerata. I suoi compatrioti riusciranno a stento, e grazie all’aiuto di un buon avvocato, a dimostrare la sua innocenza. Uscita di prigione, un amico la accompagna in un viaggio, che avrà una sosta alle cascate del Niagara: vi sono campi lunghi sulle acque che in quelle cascate dominano il paesaggio; la potenza dell’acqua che precipita sembra poter travolgere ogni cosa: è quest’immagine simbolica che accompagna la morte di Zorka la quale, malata e provata dal dolore, si accascia sul sedile dell’automobile. L’effetto psicologico sullo spettatore è qui emotivamente molto più forte: se Isprani poteva indurre il soggetto a una sorta di regressione e rifugio nel focolare e negli affetti, Transatlantic stimola forti emozioni, dalla rabbia alla commozione, e conduce a una leggera catarsi finale.

Crveni konj di Stole Popov, realizzato nell’81, è ritenuto un capolavoro della cinematografia macedone. è un vasto dramma storico-politico che, tramite la rappresentazione della dolorosa vita di un contadino, ci fa rivivere la tragedia di un popolo. Il protagonista è Boris, che dopo la seconda guerra mondiale deve passare a combattere, insieme ad altri macedoni, nell’esercito democratico greco; poi, con vari compaesani, è costretto a intraprendere un lungo viaggio verso l’Unione sovietica, con diverse fermate in vari campi adibiti alla sosta dei soldati: qui i pellegrini si lavano, nutrono e discutono: è proprio durante queste soste che si creano le prime drammatiche divisioni tra i seguaci di Stalin, quelli di Tito e coloro che ormai rassegnati e disincantati hanno perso ogni fede politica. Dopo un’ultima sosta nella quale aiutano i contadini nel lavoro delle risaie, i nostri macedoni giungono in una sperduta cittadina dell’Uzbekistan e vengono arruolati nel lavoro collettivo nelle cave. Boris inizia una convivenza con una bella vedova del luogo, e in presenza dei compatrioti celebra con lei un matrimonio non ufficiale. Vani, giovane macedone di carattere sensibile, sostiene che nel caso si sposasse in quel luogo sperduto, non potrebbe più ritornare in patria. Roso dal dilemma tra il proprio bisogno d’amore e la nostalgia della patria lontana, si ammala e muore, mentre l’amico Boris si trovava lontano in convalescenza per una non grave disturbo polmonare. Tornato dalla propria donna, non appena questa lo informa sulla disgrazia di Vani, Boris si sente in colpa per non essergli stato vicino, e inizia pure lui a soffrire la lontananza dalla propria terra. In una lettera all’ambasciata greca a Mosca sottoscrive di essere di nazionalità greca e di non riconoscersi quale comunista e, ottenuti i necessari permessi e documenti, ritorna in Jugoslavia, nella sua Macedonia. Non lontano dal villaggio natio, compra da un contadino un robusto cavallo rosso e con questo termina il proprio viaggio: giunto a casa trova una realtà di miseria e l’indifferenza di parenti e vicini che non lo riconoscono più come uno di loro. I pochi vecchi compagni di battaglia si sentono traditi nella loro fede politica, e trascorrono le loro giornate ubriacandosi; uno di questi si reca in cima alle montagne innevate e solo qui, dove nessuno può sentirlo, sfoga la propria lancinante rabbia gridando al vento. Pure Boris precipita nella follia, e giunge addirittura a maltrattare sua figlia incinta e a scavare inutili trincee fra la gente stupita, che lo crede un indemoniato. Dopo essere stato selvaggiamente picchiato nell’osteria da alcuni ruffiani, la morte pone termine alla sua dolorosa vita.

Il ritmo narrativo del film è assai lento: l’istanza narrante dedica molti minuti già al viaggio in barca all’inizio del film, durante il quale nessun evento di rilievo avviene; e molti altri ne dedica alle soste nei vari campi, dove con minuzia vengono rappresentati i lavori più umili dei soldati e i particolari apparentemente più insignificanti; e grazie a questa minuta ed oggettiva osservazione di ogni gesto emerge la complessa psicologia dei personaggi: in questo sguardo oggettivo e concreto manca di certo ogni segno di quella paternalistica pietà che spesso caratterizzava Isprani. Al lunghissimo viaggio d’andata si contrappone quello di ritorno, dove il percorso dall’Unione Sovietica alla Macedonia è liquidato da un’ellisse. Può suscitare stupore anche il modo in cui l’istanza narrante tratta il personaggio della moglie di Boris: presente per un ampio arco del racconto, scompare definitivamente quando egli comincia a meditare il proposito di ritornare in patria; neanche una breve scena le viene dedicata, sia pure per un ultimo abbraccio al marito o per una sua spiegazione. Di fronte alla linearità (flashback e flashforward sono del tutto assenti) e lentezza del racconto, e all’attenzione dedicata ai più piccoli particolari delle attività dei personaggi, non è affatto strano che uno spettatore con la nostra sensibilità rimanga stupito; come pure non sarebbe improbabile rimanesse stupito dal sommario che riassume con l’uso del montaggio alternato il ritorno di Boris e la contemporanea morte di Vani, sommario che presenta oltretutto un sapore marcatamente sperimentale: la prima (I) inquadratura appartiene a un film in bianco e nero che Vani sta guardando al cinema: vediamo un uomo disperato salire le scale; primo piano (II) di Vani; III: Boriš, appena tornato dal luogo della cura, sta camminando verso casa accompagnato dalla moglie; IV: Vani si sta alzando dalla poltrona del cinema per uscire; V: entrato in casa, Boris regala alla moglie uno scialle; altra inquadratura (VI) del film che Vani guardava fino a poco prima: degli sposi in festa scendono le scale circondati dagli ospiti; VII: Vani, ormai in strada, è colto da un malore; inquadratura (VIII) del film guardato da Vani: la sposa è felice e sorride; IX: la moglie di Boris prova lo scialle; X: Vani sta per accasciarsi; ancora, dal film in bianco e nero, un’inquadratura (XI) con cime di alberi che girano in un vortice; dallo stesso film (XII) un uomo (il disperato che saliva le scale) muore e cade all’indietro nel fango; XIII: Boris è a letto con la moglie che, scoppiando in singhiozzi, gli comunica la morte di Vani.

Per quel che riguarda l’immagine, assai curata e raffinata è la composizione dei quadri, numerosi sono i campi lunghi o lunghissimi sui paesaggi naturali e ampie porzioni di quadro sono occupate da mare e cielo, e neppure manca un po’ di preziosismo. Durante i titoli di testa, un campo lungo ci fa vedere una truppa di soldati stanchi che camminano lentamente verso l’obiettivo. E in seguito un’inquadratura senza movimenti di camera si apre sul cielo azzurro pieno di gabbiani; un campo lunghissimo e statico ritrae il mare calmo. Nel corso del viaggio verso l’Uzbekistan, altri campi lunghissimi sono occupati dal deserto che i nostri passeggeri stupiti osservano. E poi ancora campi lunghi lenti e contemplativi sulle risaie coi seminatori che avanzano, e un preziosistico primo piano sull’acqua con i semi che cadono. Un accenno ancora alle tre inquadrature che chiudono il film: la prima (I) è una soggettiva: Boris si trascina a casa dopo esser stato seviziato all’osteria e, mentre sale le scale, si susseguono in primo piano i volti dei vecchi del vicinato; l’ultimo volto è quello della figlia maltrattata, nel cui triste sguardo si intravede la pietà; segue un campo lungo statico e breve (II) sul villaggio ricoperto di neve; e infine un campo lungo, pure questo statico e breve (III) sul cimitero.

Le particolarità rilevate in Crveni konj vengono naturalmente e senza alcuno stupore accettate da uno spettatore balcanico, e il fatto che il film sia oggi considerato dai macedoni, a quasi vent’anni di distanza dalla sua realizzazione, un capolavoro della loro cinematografia, ci dimostra ulteriormente quanto sia diversa dalla nostra la sensibilità balcanica; e non si tratta di una sensibilità priva di basi culturali e di tradizione, ma di sensibilità che anzi richiama a un vero e proprio “mondo espressivo“altro dal nostro.

Bure baruta (La polveriera) del ’98, diretto dal regista serbo Goran Paskaljević, ha riscosso interesse e successo fra il pubblico italiano ed europeo, e ha pure rappresentato la Jugoslavia al Premio degli Oscar. Mediante la rappresentazione dei destini tragici ed assurdi della gente comune emerge lo stato d’animo del popolo belgradese, diviso tra la rabbia e il fatalismo e la rassegnazione. Il ritmo narrativo del film è veloce e incalzante, come pure veloci sono i piani e le sequenze. I personaggi sono tutte persone comuni, ciascuna coi suoi problemi, siano essi economici, politici o esistenziali: un ragazzo irresponsabile in guida senza patente che tampona un maggiolino; l’ossessivo proprietario del maggiolino che, incollerito perché l’automobile d’epoca non tornerà mai più perfetta e bella come prima, irrompe nella casa del ragazzo sfasciando mobili e suppellettili e insultando il vecchio padre; un insegnante costretto dalla miseria a fare l’autista di autobus pubblici; un ragazzo squilibrato ed esaltato che entra nella corriera mentre l’insegnante si sofferma più del dovuto a bere il caffè, “sequestra” i passeggeri e sfoga su di loro la sua rabbia, umilia gli anziani rassegnati alle loro misere condizioni e non esita a minacciare una ragazza; la stessa ragazza maltrattata poi dal fidanzato paranoico per la disavventura che le è capitata; un uomo di mezza età che torna dopo anni dalla donna che amava la quale, essendosi nel frattempo costruita un’altra relazione, non sa decidersi tra i due: cosicché il primo amante inscena, come estremo tentativo per convincerla, un suicidio nel quale morirà davvero. Neppure in questo film tanto vicino alla nostra sensibilità mancano del tutto elementi di gusto tipicamente balcanico: la sequenza degli amanti è caratterizzata da un’eccezionale solennità, e bruscamente si conclude con una comicità cupa e grottesca. Al ritorno dalla sua lunga assenza, l’amante di un tempo regala alla donna un cucciolo; e d’improvviso da un battello sul Danubio un’intera orchestra inizia a suonare un motivo malinconico e solenne: insieme al cagnolino, il concerto è un omaggio per la donna. La donna è commossa ma non ancora convita: e il nostro personaggio si getta in acqua. Ora la donna scoppia a piangere e grida disperata il suo nome, mentre lui nel frattempo è riemerso qualche metro più in là per non essere visto dall’amata; sfortunatamente non è lei a notarlo ma l’altro amante che con una pala lo ferisce mortalmente alla testa, per poi correre dalla donna, che per la disperazione non si è accorta di nulla, e consolarla.

L’istanza narrante si fa sentire pochissimo nel corso del film (fatta eccezione per episodi troppo inverosimili e grotteschi come questo), e gli incontri fortuiti dei personaggi e le loro disavventure sono percepite, nella loro stessa drammatica assurdità, come autenticamente veri e reali. Nel loro mondo è il caso a dominare, nella mancanza quasi completa di certezze e punti di riferimento. E noi spettatori, più che identificarci in questo o quel personaggio — le loro intime caratteristiche ci sfuggono, e la loro stessa presenza può venir meno in qualsiasi istante — , finiamo per identificarci nel loro mondo violento e caotico, rimanendone confusi e sconvolti.

Un fenomeno simile, di identificazione dello spettatore nel mondo diegetico in cui i personaggi si muovono anziché nei personaggi stessi, può verificarsi in Mondo Bobo di Rušinović, vincitore nel ’97 del Primo premio al Festival del cinema croato di Pola; a differenza di Bure baruta, Mondo Bobo è assai più disinvolto ed eclettico nello stile, ricchissimo di curiose “trovate” tecniche e dal sapore un po’ sperimentale: se rimanessimo chiusi nella nostra ottica, definiremmo lo stile dell’opera incoerente e privo di organicità… E non è un caso che un critico de “La voce del popolo” abbia considerato il modo di fare di Rušinović più simile a quello di un “pizzaiolo” che a un regista!(3)

Ubistvo s predumišljajem,realizzato nella Repubblica Jugoslava di Serbia e Montenegro nel ’95, ottenne due anni dopo il Primo premio di Trieste per la pace al Festival del cinema “Alpe Adria”. Attraverso la rappresentazione dell’amore disperato tra la studentessa Jelena e il guerriero Bogdan e parallelamente, tramite un uso continuo di flash-back, quella della dolorosa storia di Buika, l’aristocratica nonna di Jelena, rivive la tragedia collettiva di un intero popolo, le cui due “anime” che lo dividono sono simboleggiate rispettivamente da Jelena e Bogdan: la prima è quella della Serbia culturalmente vivace e pacifica degli intellettuali e studenti moderni e polemici; la seconda è quella della Serbia arcaica, con i suoi miti e antichi valori, e il eroismo a volte fanatico e assurdo.

Quando Jelena ospita Bogdan, ferito e senza dimora, l’istanza narrante si sofferma a lungo sulle mansioni domestiche dei due, sui dialoghi relativi alla divisione dei lavori di casa, sul “rito” della preparazione e cottura del cibo, sui più piccoli particolari della quotidianità. Saranno forse queste “le incertezze di troppo nella narrazione del film”(4) che secondo il critico Mezzena Lona appesantirebbero la pellicola? Ammetto che qualche perplessità, alla visione del film al Festival, destarono in me i numerosi flashback, come scrissi in un mio articolo qualche anno fa(5): ammisi che erano necessari per rappresentare la storia della nonna Buika, ma credetti che la loro massiccia presenza potesse appesantire l’opera; anche se l’indagine che allora seguivo era di carattere prevalentemente sociologico, e sostenni tra l’altro tenacemente l’alto valore del film, di certo a quel tempo la mia consapevolezza sulla diversità del cinema balcanico era assai più fragile di quanto lo sia oggi.

Secondo tale diversa sensibilità, non guasta affatto che in un film dal decoupage sostanzialmente classico, vi sia una sequenza come questa: dopo aver discusso insieme sul mistero della storia degli antenati di Jelana, Bogdan la prende in braccio (I) e baciandola la porta a letto; segue un’inquadratura (II) sul quadro della nonna Buika, ritratta in primo piano, appeso alla parete, con leggera carrellata in avanti; III: primissimo piano — un flash-back ci riporta indietro di cinquant’anni — di un avo di Jelena, probabilmente il padre di Buika, che si trovava in prigione per motivi politici; sappiamo che in mano tiene stretta una corda: il suo volto è provato dalla disperazione e gli occhi guardano a destra scrutando il soffitto; poi lo sguardo si volge dall’altra parte, verso sinistra, e l’obiettivo della cinepresa lo accompagna con una panoramica obliqua verso l’alto finché il volto esce fuori campo e vediamo solo il soffitto e i muri di un angolo della stanza; con un movimento combinato panoramica-carrellata scendiamo verso sinistra: entra in campo il muro sinistro; l’obiettivo “percorre” questo muro continuando a scendere, finché entrano in campo il pavimento e, di profilo, un muretto che divide la stanza da uno sgabuzzino; ora il movimento di camera muta in una carrellata verso sinistra che fa entrare in campo la parte bassa delle pareti dello sgabuzzino; infine una panoramica verticale verso l’alto ci fa vedere i piedi dell’uomo impiccatosi al soffitto; dopo lo stacco l’inquadratura seguente (IV) ci riporta nella camera da letto di Jelena: lei si sta risvegliando contorcendosi fra le lenzuola; fuori c’è il temporale (ne sentiamo il rumore) e Bogdan non è in casa. Nei piani successivi Jelena lo inseguirà sotto la pioggia dove lo abbraccerà per l’ultima volta. Dopo un’ellissi che presumiamo comprenda pochi giorni, nella seguente sequenza lui è ormai deciso, nonostante i tentativi di Jelena per convincerlo a rimanere, a partire per il fronte: sta già preparando le valigie; poi, sulla soglia di casa le chiede il bacio d’addio, ma lei glielo nega.

Proprio la sequenza analizzata, stilisticamente così diversa dalle altre è — mi sia concessa quest’osservazione — di un valore davvero alto: caratterizzata da un originale procedimento tecnico e da un’intensità emotiva che tocca l’apice nell’abbraccio finale, la sequenza comprende cinquant’anni di sofferenze ed errori individuali — e metaforicamente anche di quelli collettivi — che in quell’abbraccio catartico di due amanti disperati, consapevoli dell’assurdità delle loro scelte ma incapaci di trovare delle alternative, cercano invano raggiungere la loro risoluzione.

Nel lungo piano del suicidio dell’avo, quando il volto disperato dell’uomo esce dal campo, viene meno la nostra identificazione secondaria col personaggio, e acquisiamo consapevolezza della identificazione primaria con la macchina da presa; difficilmente riusciremmo a sostenere la visione del momento del passaggio dell’uomo dalla vita alla morte: l’obiettivo, insieme a noi, volge il suo sguardo al muro per tornare sulle gambe penzolanti del personaggio soltanto quando questi, dopo essersi impiccato, è ormai un cadavere.

Dopo aver trovato nel campo di battaglia il corpo di Bogdan, Jelena lo fa seppellire a Belgrado nella tomba di Buika e degli altri suoi parenti; risoluta ad abbandonare per sempre l’Europa e a trasferirsi in Oceania, la ragazza si allontana dalla lapide, consegna al suo amico redattore il libro con la storia della propria famiglia “rattoppata” alla meglio — avendo ormai rinunciato a una ricostruzione completa e veritiera — e s’incammina lungo il viale del cimitero: un movimento in verticale verso l’alto di travelling ci fa vedere in campo lungo le cime degli alberi, il grande cimitero e lei che scompare nello sfondo. Con questo piano piuttosto solenne termina il film.

Un’ultima osservazione: non ci viene risparmiata, evidentemente per problemi di finanziamento, la pubblicità “occulta” a una nota marca di sigarette: un dettaglio ce ne mostra, nella sequenza d’inizio, un’intera stecca, e un altro dettaglio sui pacchetti torna verso la fine del film; e nel corso dell’opera i personaggi fumano davvero tanto! Non mancherà l’influenza psicologica sugli spettatori…

Il lungometraggio serbo Ko tamo peva?, realizzato nell’80 e diretto da Slobodan Šijan, ha un carattere prevalentemente comico, con forti tinte grottesche, e alla fine, quasi a sorpresa, si tocca il tragico. Gran parte della comicità dell’opera si fonda sul piacere del riconoscimento, da parte dello spettatore, di oggetti, comportamenti e usi locali, e su un gusto del comico un po’ diverso dal nostro: in particolare, non è difficile riscontrare come nell’arte e nella cultura balcanica la comicità sia molto spesso — di certo più di quanto avvenga da noi — unita al grottesco; e come il confine tra il comico e il tragico sia assai meno marcato del nostro.

Ambientato nel periodo tra le due guerre mondiali, il film ci presenta un gruppo di personaggi tipizzati che intraprende un viaggio su una corriera vecchia e scassata, la quale li porterà dalle loro remote campagne fino a Belgrado. C’è un tisico da cui tutti si tengono alla larga per paura del contagio; un cacciatore; una giovane coppia di sposi che va in viaggio di nozze presso parenti; un elegante cantante che, definitosi un uomo di mondo, tenta di sedurre l’ingenua sposa; il bigliettaio e suo figlio, di carattere un po’ strambo, che guida l’autobus; un pope; un grasso giornalista-etnologo che, ritenuto morto per due volte, sopravvive alla fine in entrambi i casi; e due ragazzini, suonatori di fisarmonica. Nel corso del rocambolesco viaggio, numerose sono le soste: un contadino si aggiunge alla comitiva senza esitare a introdurre nei veicolo i suoi maialini; davanti a un campo in parte arato, il vecchio e piccolo contadino che ne è proprietario non lascia passare l’autobus, e chiama in aiuto i figli giovani e grandi come colossi, che bucano le ruote della corriera; poi passa di lì un funerale, e gli sposini ne approfittano per far l’amore in una dolina, ma vengono interrotti dal tossicchiare del tisico che insieme agli altri passeggeri li spiava; d’improvviso arrivano a cavallo gli aiducchi, i leggendari briganti che imperversavano un tempo nelle selve balcaniche, e tutti, il pope del funerale compreso, fuggono via con la corriera; ma ancora una volta saranno fermati per sospetto da una truppa dell’esercito regio; e, infine, giunti a Belgrado, la città viene bombardata e una granata esplode sulla corriera. Ne escono vivi solamente i due fisarmonicisti che si mettono a suonare.

Al decoupage classico del film si contrappongono tre piani statici: uno apre il film, un altro è inserito nel corso dell’opera e l’ultimo la chiude. In tutti e tre i piani l’obiettivo è fermo, e di fronte ad esso, in campo medio, i due fisarmonicisti suonano e cantano in piedi, uno accanto all’altro; nei primi due piani i due stanno fermi, mentre nel terzo camminano lentamente verso l’obiettivo.

Un film simile a questo, per il tipo di comicità grottesca e fondata, in gran parte, sul riconoscimento degli elementi del mondo e della cultura locali — e neppure questo mancante di momenti tragici —, è il croato Kako je počeo rat na mom otoku (Come la guerra è iniziata sulla mia isola) realizzato nel ’97 e diretto da Vinko Brešan, che nello stesso articolo prima citato e per i medesimi motivi giudicai davvero troppo severamente.(6)

(fine prima parte)

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