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Palcoscenico

Federica Guerra

Elogio della follia

Riccardo Visintin (RV): Sono con Federica Guerra, un’attrice giovane, per proseguire queste ricerche di realtà teatrali diverse da quelle un po’ più “blasonate”.

Federica Guerra è una mia “scoperta”, vorrei dire, ma non è esattamente così: diciamo che sono rimasto molto impressionato vedendo a Trieste, al “Caffè San Marco”, un bellissimo spettacolo tratto da poesie di Alda Merini, uno spettacolo che ha avuto un pubblico ristretto, ma intenso e partecipe. E mi è venuta voglia di conoscerla, di conoscere un po’ prima l’attrice e poi lo spettacolo, ed è quello che stiamo facendo.

Se tu dovessi dare una specie di cartolina di presentazione di te stessa, cosa diresti, Federica?

Federica Guerra (FG): Be’, intanto che sono un’attrice: ho iniziato diverso tempo fa e adesso sono approdata a questo spettacolo che s’intitola Sono nata il 21 a primavera. È stato un percorso sicuramente non premeditato a tavolino, ma frutto di spinte interiori, e sono arrivata alle poesie della Merini perché le ho incontrate nella loro forza, nella loro potenza.

Mi sono trovata, attraverso le parole della Merini, a dire delle cose che erano urgenti per me.

Un vissuto di una donna, molto intenso, molto lacerante e sofferto, ma anche carico di gioia e di speranza, e con uno sguardo verso il futuro, aperto, luminoso, e sto portando in giro questo spettacolo, così ci siamo incontrati al “Caffè San Marco”.

Tra l’altro, questa cosa di fare gli spettacoli non esclusivamente nei teatri, ma anche nei caffè o negli auditorium, corrisponde all’esigenza di arrivare alla gente, quando molto spesso è la gente che non viene da te, di andare tu con la poesia, tu con il teatro verso la gente.

RV: Senti Federica, io ho visto lo spettacolo, ero in prima fila, per cui mi sono forse rimaste impresse delle annotazioni visive particolari, una senz’altro è questa “psichedelia quasi psicologica”, ti piace come definizione?

FG: Sì!

RV: Nel senso che è uno spettacolo molto colorato, c’è quasi una poesia cromatica in questi colori, in queste luci, nei costumi, nei vestiti. Poi c’è questo uscire, in qualche modo, da una specie di… io l’ho chiamata gabbia, ma forse non è una definizione esatta.

FG: No, no, è proprio una gabbia.

RV: Una gabbia di carta, metaforica e anche reale per quello che riguarda il vissuto di Alda Merini, da cui poi tu fuoriesci ad un certo punto dello spettacolo, e si crea subito un effetto particolare, di grande suggestione, addirittura in un locale non adibito strettamente a motivazioni teatrali, con le porte aperte e quindi con la confusione, e con dei problemi tecnici non indifferenti.

Però questa magia si è creata lo stesso.

A parte lo spettacolo, Federica Guerra come attrice, come donna, o come donna che fa l’attrice, come nasce?

FG: Io faccio teatro per capire perché faccio teatro… è una cosa che si autoalimenta.

Ho iniziato casualmente quando ero un’adolescente, perché ho visto dei manifesti che pubblicizzavano dei corsi teatrali tenuti allora dall’OrtoTeatro, e diretti da Carlo Pontesilli che poi è stato il mio insegnante.

Io prima di allora non avevo mai pensato di fare teatro, in famiglia non ci sono amanti del teatro e non sono una figlia d’arte. Probabilmente quando ho visto quella locandina ho detto: “Bene, lo voglio fare…”. Senza sapere di che cosa si trattasse, in realtà. Probabilmente è stata una coincidenza, per me fortunata, adesso lo posso dire, per cui ho trovato tramite il teatro la possibilità di dire qualcosa.

Come adolescente, un po’ come tutti gli adolescenti, si è inquieti, ribelli, insofferenti, non hanno le idee chiare, si procede a tentoni.

Ecco, ho iniziato così, a Pordenone, frequentando questi corsi. Mi ricordo di aver fatto un primo saggio teatrale su delle poesie, ecco, qui ritornano le poesie, ho iniziato proprio con le poesie, di un’autrice italotedesca, Gilda Muse, Berliner Mauer, tra l’altro un testo molto difficile, di cui allora credo di aver capito un decimo.

Comunque, poi sono approdata allo spettacolo, ed ero molto orgogliosa, molto contenta.

Tra l’altro questa scelta non piacque molto ai miei genitori, che non mi impedirono di fare quello che facevo, rispettarono la mia scelta, ma non l’appoggiarono.

E dopo mi sono appassionata, ed è nata una collaborazione con la Compagnia, ho iniziato a fare tournée in Italia e all’estero con spettacoli per ragazzi, che sono una palestra secondo me bellissima ed importantissima, e frequentando autori dell’assurdo come Beckett (con Finale di partita e Aspettando Godot), Mrozeck e altro, adesso non ricordo esattamente.

Come dicevo prima il percorso non è stato predeterminato a tavolino, si fa quello che si sente in quel momento, che ritiene sia giusto fare.

RV: Io ho visto in questi ultimi mesi, per lavoro e anche per piacere, molti spettacoli, e devo dire  che la scena teatrale femminile sta dando dei punti agli uomini, e allora mi viene da farti una domanda un po’ psicologica.

Come si atteggia una donna nei confronti del teatro, o meglio: secondo te ci sono differenze tra l’approccio al teatro psicologico, ma poi anche professionale, tra un’attrice donna e un uomo, come mai siete così agguerrite? C’è una scena teatrale che continua a partorire attrici giovani, sempre più giovani, sta accadendo qualcosa del genere a Milano con la Lolita di Ronconi, poi mi viene in mente Galatea Ranzi, Giovanna Mezzogiorno al cinema, e tante altre.

Allora, cosa c’è di diverso? Cosa vi porta sul palcoscenico?

FG: Secondo me dovrebbero essere gli uomini a rispondere, del perché siano così ritratti… l’ipotesi che io faccio è che le donne accettano un rischio assoluto, forse giocano anche più d’azzardo, sono delle “bad girls”, e questo giocare d’azzardo evidentemente fa fare loro delle mosse vincenti.

Io credo che una dimensione artistica come può essere quella teatrale ma anche, nell’ambito della musica, della pittura, della scultura, l’essere nell’arte, non può accettare compromessi, e quindi forse non dico che le donne l’abbiano capito razionalmente, ma sia dentro di loro; questo essere senza rischi, senza compromessi le fa osare molto di più, quindi osare anche vincendo, con proposte nuove, con spettacoli interessanti che parlano di sé ma delle altre donne, della società.

Non voglio fare anche un discorso, come dire, di genere, perché dal punto di vista professionale degli attori ci sono degli esempi sicuramente interessantissimi: mi viene in mente tutta quella serie di attori che parlano, che fanno questo teatro di narrazione, ad esempio Marco Baliani o Massimo Somaglino, e ce ne sono molti che conducono proprio delle ricerche personali che approdano poi allo spettacolo.

RV: Noi facciamo sempre una domanda che è in qualche modo un percorso storico.

Ti ricordi, Federica, la prima volta che sei stata a teatro? La prima volta che hai respirato la “polvere di palcoscenico” non da protagonista, ma da spettatrice… perché in certi casi non lo si ricorda, in altri casi, invece, forse è proprio il germe iniziale di tutto un discorso.

FG: Questo ricordo è imbarazzante, nel senso che credo di essere stata la prima volta a teatro alle Medie, al Teatro Verdi di Pordenone che adesso è chiuso, sono milleduecento posti…

Hanno fatto delle specie di deportazioni di massa delle scolaresche delle Medie, a portare a vedere uno spettacolo fatto, credo, dallo Stabile di Trieste, non mi ricordo il titolo, con un attore in scena.

Evidentemente noi non eravamo stati preparati, motivati, eravamo in troppi perché il teatro era pieno.

Mi ricordo lo sforzo mio di cercare di capire cosa succedesse in scena, di non farcela per la confusione, e l’imbarazzo profondissimo perché ad un certo punto l’attore si vide costretto ad interrompere lo spettacolo e a rimproverare il pubblico, giustamente.

Questo è stato il primo contatto, e un po’ mi ha scottato, ho detto “oddìo…”, non ho invidiato quella persona. Poi ho iniziato a guardare le compagnie locali, quelle amatoriali, e dico appunto che sicuramente il germe di voler fare teatro non è nato da quell’episodio.

RV: C’è un faro-guida professionale nella tua vita di attrice? Attori ai quali avresti voluto stringere la mano, o a cui hai invidiato dei ruoli?

FG: Assolutamente è una mia “supereroina” preferita Mariangela Melato, per la sua grande capacità e in teatro e al cinema, per il suo essere anche così molto femminile, molto sexy; Alida Valli, stupenda, l’ho vista in un film dove recitava in inglese senza essere doppiata, Il Terzo uomo; Holly Hunter, a cui ho invidiato la parte di Ada in Lezioni di piano, e poi come tipo di bellezza, a me molto lontana, Cate Blanchett che interpretava la parte della Regina Elisabetta in Elizabeth, queste bellezze molto diafane, con la carnagione molto chiara, le lentiggini… Ce ne sono tante comunque.

RV: Ti ringrazio, Federica, è un piacere averti conosciuta, partendo da questa bella serata che ho passato in tua compagnia mentre tu recitavi e io guardavo… sarà stata senz’altro molto più intensa per te, ma è stata importante anche per me, perché continuando a fare queste interviste per FUCINEMUTE, più andiamo avanti e più scopriamo quanti talenti giovani ci siano, che cercano e fanno teatro con dei mezzi in certi casi limitati, ma con una grandissima applicazione, e devo dire che molti di voi meriterebbero di più, di oltrepassare il fatidico steccato…

FG: Anche più soldi…

RV: Certo, in tutti i sensi… Come proseguirà il tuo percorso artistico?

FG: Bella domanda! Io ho molte idee, alcuni mi dicono che sono troppo ambiziose, utopistiche, temerarie… Comunque mi piacerebbe sviluppare un progetto sulla scrittrice Colette, invitando anche la gente a parlarne…

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