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Arte

Comunicazione e design

Trasparenze di superficie, memoria, progetto

Il gioco delle trasparenze superficiali e la contaminazione tra esperienze percettive differenti segnano da qualche tempo la ricerca di piattaforme più avanzate per la progettazione di oggetti dalle accentuate connotazioni emotive e sensoriali.

La strada l’hanno aperta i progettisti dell’iMac della Apple, disegnando un oggetto dalle forme stondate e vagamente “retro”, quasi materne e femminili, nel quale le colorazioni vistose si abbinano all’ampio utilizzo di plastiche traslucide, che permettono a chiunque di osservare, e in un certo senso di “toccare con mano”, l’hardware contenuto all’interno della macchina1.

Si potrebbe parlare a questo proposito di un fenomeno di “retro-versione”, un movimento simile a quello della mano che rivolta un guanto, oppure un calzino. Il gesto consiste nel portare alla luce, in primo piano, rendendolo disponibile allo sguardo, ciò che virtualmente dovrebbe restare nascosto: il motore, cioè la parte chiamata a svolgere un ruolo decisivo dal punto di vista funzionale, ma che appare meno “nobile” dal punto di vista estetico2.

Si tratta di un’operazione di de-costruzione dell’immaginario scientifico costruito nel corso degli anni attorno al mito del computer: ora questo oggetto ci appare in una veste più amichevole, meno invasiva, quasi dimessa e colloquiale. Inutile aggiungere che l’esempio fortunato dell’iMac è stato seguito da numerosi imitatori, privi tuttavia del rigore e della coerenza formale del capostipite. Così gli scaffali di un qualunque negozio d’informatica si sono riempiti di monitor, mouse e tastiere, in cui l’ampio sfoggio di trasparenze si accompagna alle colorazioni più assurde e alle forme più improbabili.


Trasparenze di superficie

Al di là di queste soluzioni imprecisate e di facciata, la tendenza anticipata dall’ iMac si inscrive a nostro parere in una prospettiva più ampia, che presenta numerose affinità con quanto sta avvenendo anche in altri campi. Citiamo solo alcuni esempi: lo Swatch con la cassa trasparente, che consente di osservare i movimenti meccanici degli ingranaggi e delle sfere contenuti all’interno, l’aspirapolvere Ciclone Power di Electrolux, dotato di un rivestimento plastico trasparente, che lascia in bella vista il sistema aspirante e lo scomparto ermetico destinato ad accogliere lo sporco, la motocicletta Motò disegnata per Aprilia da Philippe Starck, che espone in primo piano le interiora, cioè le parti meccaniche del motore, il packaging e gli allestimenti scenici minimalisti dei punti vendita The Body Shop, ispirati ad un concetto trasparente e non “cosmetico” di cura del corpo e della bellezza3.

È una linea di tendenza sempre più diffusa, che chiama in causa il ruolo riservato al design delle superfici negli oggetti industriali4.

Prendiamo ad esempio i settori del mobile e dell’arredamento. Come spiega Manzini5, per secoli la trama superficiale degli oggetti ha avuto il compito di dichiarare l’intima natura dei materiali utilizzati: la mano che scivola sul tavolo di legno riceve dalle rugosità di superficie la conferma della consistenza, della durabilità, del valore intrinseco, delle essenze naturali che costituiscono l’ossatura del prodotto. Ma con l’avvento dei laminati plastici la superficie passa ad assolvere mansioni differenti: non attesta più il valore degli strati riposti dell’oggetto, ma anzi spesso esercita una funzione puramente cosmetica di occultamento e di mascheramento nei confronti di una materia priva ormai di nobiltà e di pregio.

Il che non toglie che ogni superficie, come una maschera, possa anche esercitare un potere di rinnovamento e di trasformazione del contenuto nascosto al suo interno, proponendo una più ampia libertà di pensiero o suggerendo connotazioni di forza e di aggressività. è quello che avviene con la maschera del giullare, sotto la quale si apre lo spazio per la critica al potere costituito, o con l’armatura del guerriero medioevale, destinata a proteggere e occultare il volto della persona ospitata al suo interno, ma capace anche di conferire efficacia espressiva ai suoi sentimenti e alle sue passioni6. è vero che uno il coraggio non se lo può inventare, ma anche il più pavido dei combattenti, protetto da una solida armatura, può incutere timore agli avversari e magari auto-convincersi della propria infallibilità sul campo di battaglia.

Immagine articolo Fucine Mute

Oggi ci troviamo ad affrontare un ulteriore passaggio: i materiali plastici, per loro natura flessibili e mutevoli, sembrano assumere la consistenza dell’acqua, diventando liquidi e trasparenti. Le superfici non attestano e non nascondono, ma semplicemente “denunciano” la progressiva perdita di peso (pensiamo ai microchip di un computer) delle componenti “funzionali” depositate all’interno dell’oggetto. Svelano semplicemente il gioco, smascherando e rendendo disponibile per tutti il suo meccanismo.

Si potrebbe leggere in quest’operazione la risposta ad un consumatore sempre più evoluto ed esigente, ma anche più concreto, pronto ad andareImmagine articolo Fucine Mute al sodo, sempre meno disposto a farsi ingannare da lustrini e paillettes, disposti ad arte per attrarre la sua attenzione7. Un ritorno, in chiave ipertecnologica, al rigoroso moralismo di Adolf Loos8: aboliamo l’ultima forma di ornamento, eliminiamo il packaging, la superficie esteriore, la corazza dell’oggetto. O, per lo meno, trasformiamola in qualcosa di etereo e trasparente, assegnandole il compito di enunciare (e denunciare senza mezzi termini) la funzione che pure essa sarebbe chiamata ad occultare9. Togliamo all’oggetto quotidiano ogni emozione, ogni suggestione, anche quell’ultima aura di magia, quella dimensione giocosa di mistero, che la pellicola sottile dell’involucro protegge e tiene in vita10. Riduciamo il tutto a semplice funzione. Lasciamo cadere anche l’ultimo velo: la pelle. E diamo spazio ad uno sguardo pornografico, desideroso di penetrare oltre la superficie dell’oggetto, per esplorarne le parti più intime e nascoste: gli organi vitali11.

 E tuttavia, questa prima ipotesi di lettura non ci convince pienamente. Una prospettiva di trasparenza assoluta nel rapporto con gli oggetti d’uso quotidiano (e anche con le persone) nasconde numerose insidie inaspettate. Del resto, osservandoli da vicino, oggetti come l’iMac e lo Swatch non perdono il loro fascino. Anzi, più li utilizziamo, esplorandone le potenzialità e le funzioni, più ci appaiono come macchine magiche, fonti di incantamento e di mistero12. E sono proprio i materiali innovativi, costruiti attorno a trasparenze velate, a proporsi come “respirazione e battito del cuore degli oggetti, incorporando le logiche del tocco magico dei prestigiatori, o del sussurro nella relazione con l’oggetto”13.

 Dobbiamo dunque allargare la prospettiva, coinvolgendo la memoria, oltre al semplice sguardo orientato sul presente.

Come riconosce lo scrittore Vladimir Nabokov, “Una sottile impiallacciatura di realtà immediata ricopre la materia, naturale o artificiale, e chiunque voglia restare nel presente, col presente, sul presente, è pregato di non romperne la tensione superficiale. Altrimenti l’inesperto taumaturgo si ritroverà non più a camminare sull’acqua ma a inabissarsi, dritto in piedi, fra gli sguardi stupefatti dei pesci”14.

La trasparenza è infatti il luogo attraverso il quale “balena il passato” degli oggetti15.


Lo “sguardo” della memoria: un futuro proiettato all’indietro

Abbiamo parlato di un movimento di retroversione: una sorta di guanto rovesciato, come uno sguardo apparentemente orientato in avanti e in realtà proiettato all’indietro.

Osservando la situazione da questa più ampia prospettiva, scopriamo nuove, sorprendenti, affinità con fenomeni che non riguardano semplicemente il gioco della visione, ma coinvolgono i complessi meccanismi della memoria.

Il pensiero corre naturalmente ad alcuni esempi eloquenti: la pubblicità con la Peugeot 406 azzurra in primo piano e sullo sfondo la Parigi degli anni Cinquanta fotografata da Robert Doisneau nella celebre scena del “Bacio”, la pubblicità della Fossil che rifà il verso ai quadri di Edward Hopper e alle atmosfere della provincia americana negli anni del secondo dopoguerra, la pubblicità di Giovanni Rana a colloquio con una sensuale Marilyn Monroe. Ma anche la riedizione del vecchio Maggiolino Volkswagen16, la Twingo di Renault (materializzazione dell’auto di Topolino disegnata da Walt Disney), la PT Cruiser della Chrysler, vero e proprio oggetto del desiderio, con i suoi richiami all’immaginario degli anni Quaranta. E, ancora, i numerosi remake cinematografici (la nuova versione di Psycho)17 e i sempre più numerosi film — da Chocolat 18 a Los Angeles Confidential 19 — che proiettano in un passato più o meno recente stati d’animo, problematiche e vicissitudini che appartengono all’uomo contemporaneo. Il dato caratteristico in tutti questi casi è l’assoluta verosimiglianza degli scenari.

Prendiamo come esempio Chocolat. Il villaggio francese e il gretto moralismo dei suoi abitanti, l’arredamento degli interni, gli abiti indossati da Juliette Binoche: tutto riproduce alla perfezione l’atmosfera di quel mondo sospeso — siamo nella primavera del 1959 —, chiuso nel provincialismo, ripiegato sul passato, eppure già lambito dal soffio impetuoso della modernità che gli anni Sessanta avrebbero portato con sé. E tuttavia in quello scenario domina la figura della protagonista: una donna del nostro tempo, pienamente padrona di sé, intelligente, “nomade” e tollerante, madre di una figlia ma senza legami di famiglia, attenta addirittura alle più recenti tendenze del marketing, che suggeriscono l’opportunità di un dialogo diretto e personalizzato col cliente.

Non si tratta di semplice citazionismo, perché in tutti questi casi non vengono estrapolati singoli frammenti del passato per inserirli in una situazione attuale, dove risulterebbero totalmente decontestualizzati20. Il fenomeno è più complesso e consiste nel portare in primo piano ciò che dovrebbe stare sotto, stare dietro, per affrontare (utilizzando le forme verbali del passato prossimo) un discorso che riguarda a tutti gli effetti il presente e il futuro più immediato.

Insomma: nella filigrana del passato si leggono le domande non risolte del presente. Qualcosa di profeticamente (e poeticamente) anticipato dai Concetti spaziali di Fontana, dove l’autentico oggetto della visione, non appare tanto la tela del quadro, saltata all’improvviso in primo piano, quanto gli spazi, problematici e indeterminati, che si aprono all’indietro, oltre il taglio praticato nella stessa superficie. L’oggetto della visione non abita più davanti, ma dietro il suo tradizionale supporto, la tela del quadro.

Ma restiamo nel territorio da cui siamo partiti: l’ampia distesa di confine in cui i progetti e le aspirazioni del design si confrontano con le esigenze della comunicazione e del marketing.

In un mercato sempre più complesso e competitivo l’imperativo per le aziende diventa la fidelizzazione del cliente. Non si punta più a massimizzare l’utile derivante da una singola transazione commerciale, ma a considerare il flusso complessivo del reddito che può derivare da un rapporto consolidato lungo l’arco di un’intera vita21.

Cambia dunque l’approccio: mentre il singolo bene può costituire la risposta ad uno stimolo occasionale o ad uno specifico bisogno, che una volta soddisfatto si esaurisce, la fedeltà ad un’azienda e ai suoi marchi va continuamente alimentata, attraverso strategie di tipo narrativo, costruendo attorno ai prodotti delle vere e proprie scenografie virtuali, che consentano al consumatore di interpretare la propria posizione come quella di un attore chiamato a recitare la parte del protagonista nell’ambito di un più vasto copione22. Per le aziende non si tratta più di vendere un prodotto, cioè la risposta ad un semplice bisogno, ma un’esperienza, cioè la partecipazione ad una sorta di sceneggiatura cinematografica, per la quale è richiesta anche una complessa regia23. Esemplare in questo senso è il caso di Borgata, un centro commerciale costruito nel deserto dell’Arizona e che riproduce il borgo medioevale di San Gimignano, in Toscana, con la sua piazza e con le sue torri, all’interno delle quali sono inserite le proposte commerciali dei singoli punti vendita24. Chi entra in questo luogo, non va semplicemente a “fare la spesa”, ma fa il suo ingresso in una nuova dimensione: esce per alcune ore dal suo mondo abituale, per transitare in un altro universo. Si trasferisce virtualmente in Toscana. Vive l’esperienza del viaggio.

Ma non basta allestire una scenografia: si tratta anche di restituire spessore e profondità al prodotto, di dargli un respiro, di costruirgli attorno (al limite, inventandolo, se non ce l’ha) un passato. Un po’ come accade ai replicanti di Blade Runner 25, che credono di avere un proprio passato, mentre anche questo è stato abilmente costruito a tavolino, in laboratorio, mescolando e ricombinando con assoluta verosimiglianza frammenti provenienti da altre storie26.

Qualcosa di simile è successo anche al mito di Che Guevara, che nel corso degli anni è stato letteralmente reinventato27. Se ai tempi della contestazione giovanile il “Che” rappresentava l’archetipo del guerrigliero, del rivoluzionario, oggi l’esponente politico cubano viene interpretato come un poeta, un viaggiatore alla maniera di Easy Rider, un eroe circondato dall’alone romantico che è riservato agli sconfitti. La recente biografia di Ignacio Taibo (titolo originario: Ernesto Guevara tambien conocido como El Che) è stata pubblicata in Italia dal Saggiatore nel ’97 con un titolo che è sintomatico: Senza perdere la tenerezza 28. Ribelle dunque, ma con un cuore. La sua immagine (la celebre fotografia di Alberto Korda) è apparsa sulle copertine di Max, di Time e del giornale economico Il mondo. è stata impressa sul quadrante dello Swatch e utilizzata dalla Fischer per pubblicizzare un nuovo modello di sci29.

Il mito di Che Guevara è un caso da manuale, la chiave d’accesso per esaminare altre simili storie: prendiamo come esempio il successo dell’Harley Davidson, universalmente considerata la moto del ribelle e dell’alternativo, mentre negli anni Cinquanta era il mezzo di trasporto utilizzato dai poliziotti americani30. Pensiamo anche alle numerose storie che rievocano la nascita, nel 1957, del sodalizio tra Bill Bowerman e Phil Knight, qualche anno più tardi soci fondatori della Nike: il primo, allenatore di atletica all’Università dell’Oregon con il pallino di confezionare a mano le scarpe da competizione; il secondo, suo allievo, successivamente laureato in Economia alla Stanford University e tuttora presidente dell’azienda31. Può anche darsi che questa sia una storia vera, il che non le toglie per nulla la vaga e sia pure implicita somiglianza con i tanti “miti di fondazione” di cui è intessuta la storia delle città antiche32. In pratica, non si tratta soltanto di costruire un passato, ma anche di proiettarlo sul terreno del mito, dove i tradizionali vincoli di identità e di non-contraddizione vengono a saltare. E dove tutto, come per magia, diventa possibile33.

Questo movimento di “retroversione” oscilla tra due poli.

Per un verso, configura un percorso simile a quello che l’analista tenta in psicoterapia con il suo paziente: anche in questo caso, l’obiettivo non è tanto la restituzione di un’interpretazione filologicamente corretta e ineccepibile dei traumi psichici che hanno segnato la vita del soggetto a partire dalla prima infanzia, quanto la ricostruzione di un (non del) passato che egli sia in grado di accettare e ri-conoscere come proprio, ponendolo come base per il progetto del domani34.

È una prospettiva che, ponendo l’accento su ciò che non è finito, terminato, intende restituire luce e vitalità ai frammenti di futuro depositati nel passato e alle domande aperte che ancora attendono risposta, con l’obiettivo di liberarne le possibilità inespresse35.

Per un altro verso, nella misura in cui attualizza la struttura del mito, segnata da scansioni metriche regolari e da formule rituali che vengono continuamente reiterate (rime, jingle, ritornelli, periodi ripetuti), la “retroversione” assolve solo in apparenza al bisogno di ricordare il passato del marchio, dell’azienda, del prodotto. La narrazione mitica possiede infatti caratteristiche peculiari: la prevalenza assegnata al metro rispetto a tutti gli altri aspetti del racconto alleggerisce il tempo dalla funzione di “supporto della registrazione mnemonica”, trasformandolo “in un battito immemorabile che, in assenza di differenze registrabili fra i periodi, impedisce di contarli e li consegna all’oblio”. Si potrebbe a questo proposito parlare di una “funzione letargica” del sapere narrativo, la cui referenza sembra a prima vista riguardare il tempo passato, mentre in realtà è sempre contemporanea all’atto stesso del raccontare. In sostanza, fare della narrazione mitica l’archetipo del proprio rapporto con il tempo può essere — paradossalmente — un modo per sollevarsi dalla responsabilità di ricordare il proprio passato o, comunque, per parlare “al passato” di problemi che sono attuali. Forse anche “troppo” attuali.

Interrogare l’interiorità e la storia dell’oggetto

Torniamo agli interrogativi da cui eravamo partiti: l’enfasi sulla trasparenza, lungi dal porre capo sull’esclusiva funzionalizzazione dell’oggetto, del prodotto industriale, ci appare un modo per interrogare la sua interiorità e per mettere a tema la problematicità del suo rapporto con il tempo presente e con il tempo passato.

Fino ad oggi, compito del design in tanti settori è stato quello di assicurare una cornice formale autorevole ai complessi meccanismi di carattere tecnologico presenti all’interno del prodotto, differenziandone l’aspetto esteriore in base ai gusti e agli orientamenti dei consumatori. è stata la politica di Alfred Sloan alla General Motors: offrire carrozzerie e allestimenti diversi, pur assemblando e ricombinando gli stessi elementi di base nel motore36.

L’evoluzione tecnologica prefigura tuttavia un futuro in cui gli aspetti prestazionali saranno supportati da componenti sempre più leggere e meno invasive. Questo porta a rimettere in discussione la tradizionale dicotomia tra forma e funzione e i tanti vincoli di carattere tecnologico e prestazionale che ancora si frappongono alla libertà del designer e del creatore di forme37.

Forse la trasparenza dell’involucro è un modo paradossale per affermare — e proprio in absentia — l’imprescindibile necessità di forme che aiutino a leggere, a decifrare, il “messaggio” e il valore di comunicazione che gli oggetti d’uso quotidiano (dal tostapane alla lavastoviglie, dal computer all’aspirapolvere, dall’automobile a una boccetta di profumo) trasmettono all’utente attraverso le loro prestazioni38. E forse è un modo anche per riscoprire le tante dimensioni della memoria che si sono sedimentate negli oggetti: non un semplice magazzino di forme retoriche e di stili da saccheggiare a piacimento, ma un luogo a partire dal quale riscoprire l’urgenza di domande che riguardano il presente39.

È un tema che si potrebbe notevolmente ampliare, a partire da due fondamentali direzioni di ricerca: a) da un lato — nella definizione del ciclo di vita dei prodotti — orientandosi verso il superamento della progressiva “gadgetizzazione” degli oggetti e favorendo la progettazione di forme e materiali capaci di assicurare valore nel tempo o, comunque, un declino dignitoso, una senescenza serena, a ciò che cessa di esercitare la funzione pratica per cui è stato posto in essere40; b) dall’altro lato, mettendo a fuoco l’opportunità di promuovere — nei confronti dell’oggetto che assume lo status di scarto tecnologico o di rifiuto — forme di possibile rivisitazione e riutilizzo: una seconda vita del prodotto, destinata a mettere in luce possibilità inespresse, diverse da quelle per cui era stato progettato41.


Abitare la trasparenza (e la memoria)

Il ricorso sempre più massiccio alle trasparenze di superficie sembra dunque in rapporto con una concezione del progetto come in-venzione (nel senso letterale del “ritrovamento”) di un futuro proiettato all’indietro: entrambi forme ed aspetti di un più generale movimento di retro-versione, che si configura come condizione di transito, di passaggio, ma anche come ponte aperto verso nuove possibilità. La trasparenza chiama in causa la memoria e la responsabilità di un soggetto che deve imparare a perdersi, per poi ritrovarsi in un luogo diverso da quello da cui era partito. Come scrive Rella, “Anche la memoria (e la trasparenza, aggiungiamo noi) è dunque smarrimento. Anche perdersi nella memoria è una cosa tutta da imparare … Ma chi non impara l’amaro sapere della memoria, sperimenterà soltanto gli effetti riduttivi del ricordo. Gli effetti che, di fronte a una chiesa, a un quadro, a una strada a un paesaggio, a un volto, costringono tutti questi tratti all’interno del ‘già visto’. L’arte della memoria, al contrario, è quella che scopre come nuovo ciò che è già stato per noi”42.

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