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Musica

Charles Trenet, la gioia di vivere cantando

Je chante, je chante soir et matin
je chante sur mon chemin,
je suis heureux et libre enfin!

Trenet se n’è andato via la notte fra il 18 e il 19 febbraio del 2001. Otto giorni prima lo aveva colpito un’emorragia cerebrale, alla quale faceva seguito una recidiva più grave e senza speranza. Lui stesso, in un momento di lucidità, aveva pregato i medici dell’ospedale di Créteil, non lontano da Parigi, di desistere dalle inutili terapie. Da alcuni mesi aveva compiuto ottantasette anni.

Con lui si conclude non solo un’epoca, alla quale lui stesso era già sopravvissuto, ma scompare una figura leggendaria della canzone di tutto il mondo. Sarebbe riduttivo vedere in Trenet, fra i tanti di una tradizione molto varia e molto solida, uno “chansonnier” allegro e poco più. Lui ha attraversato tutto il secolo, fin dalla sua prima giovinezza, lasciandosi alle spalle un percorso luminoso, fatto di amore per la vita, di fiducia e ottimismo, talvolta con un velo di tenera nostalgia, come nessuno aveva mai fatto prima, né probabilmente farà poi.

La sua immagine sorridente la conoscevano tutti. Lo avevano chiamato “Le fou chantant”, il cantante pazzo, ispirandosi al titolo (The Fool Singer) del film americano che nel 1928 aveva fatto seguito al Cantante di Jazz, la pellicola battistrada del sonoro. Di “fou” o “fool” che si voglia, aveva qualcosa nel suo aspetto: un cappelluccio di feltro rovesciato all’indietro sulla testa arruffata e biondastra, e gli occhi azzurri sgranati sul mondo. Era nato nel profondo Sud della Francia, e la luce della sua terra lo accompagnava dappertutto, le braccia spalancate verso il suo pubblico e la sua umana spontaneità cosi diversa da quella che spesso appariva “costruita” dai suoi tanti colleghi del music-hall.

Cantava le sue canzoni: era un compositore inesauribile e affascinante. Alla SACEM, l’associazione dei musicisti, risultavano registrati ufficialmente oltre ottocento titoli suoi. E fra questi, la ventina di canzoni che hanno percorso fino ad oggi tutte le vie del Mondo. Ha detto Juliette Gréco, alla notizia della sua scomparsa: “Io conservo, di lui, dei ricordi solari. Non servono le lacrime né le orazioni funebri: sarebbe come riconoscere la morte, e Trenet è la vita. Bisogna semplicemente cantare, e lui sentirà la nostra riconoscenza e il nostro amore”.

Gli anni giovani, nell’aria del “Midi”

Percorrendo in auto la costa francese del Mediterraneo ben oltre la Provenza e dirigendosi verso la Spagna, non sempre si vede il mare, che è tuttavia molto vicino, una presenza costante. Lo si intuisce prossimo anche alle città che si attraversano: Montpellier, Béziers, Narbonne… È il grande “Midi”, il Mezzogiorno pianeggiante e soleggiato, con i suoi interminabili viali di platani sotto una luce abbagliante.

Quando poi si arriva all’ultima città francese, nella regione del Roussillon, siamo a Perpignan, sotto i Pirenei, con le prime alture che Trenet ci canta con nostalgia in “Mes jeunes années”, i suoi anni giovani e felici.

Immagine articolo Fucine Mute

Era nato in una di quelle città, Narbonne, il 18 maggio del 1913, dove il nonno materno, Auguste, possedeva una florida “Tonnellerie” cioè una fabbrica di barili, e lo aveva preceduto di tre anni il fratello Antoine. Il padre, Lucien Trenet, era invece uno stimato notaio e un appassionato musicista, che alternava i suoi impegni professionali con lunghe sedute al suo beneamato violino. La madre, Marie-Louise, era una bellissima signora, molto dolce di carattere, ma anche molto decisa nell’amministrare la “Tonnellerie” paterna, che occupava parecchi operai.

Narbonne è molto vicina al mare, e d’estate i Trenet si spostavano sul lungo litorale sabbioso, un vero paradiso per i due ragazzini.

Giunse purtroppo la Grande Guerra. Il notaio, “Maitre Trenet”, venne arruolato e dovette partire ben presto per il fronte. Marie-Louise non solo si dedicava con impegno alla fabbrica e ai due bambini, ma era anche riuscita a tenersi occupata nell’ospedale di Narbonne, dove affluivano i feriti. Fra questi, c’era un soldato austriaco del quale si innamorò follemente: si chiamava Benno Vigny, un giovane artista, pittore e scrittore di talento.

Passati gli anni di guerra, nel 1920 accadde per i Trenet un fatto molto importante: Lucien, che aveva ripreso il lavoro nel suo studio di notaio, e Marie-Louise, che non aveva mai cessato di amare il suo giovane straniero, decisero di separarsi, di comune accordo e senza apparenti tragedie. Lei lasciò la famiglia e andò a stabilirsi a Vienna.

Prima di separarsi, i due coniugi sistemarono i bambini in un collegio di religiosi a Béziers. E per il piccolo Charles fu una pessima esperienza , malgrado la protezione assidua del fratello maggiore che gli dedicava tutto il suo tempo: Antoine era più presente nella sezione dei “piccoli” che in quella dei “grandi”.

Nell’estate del 1921 Marie-Louise, che era in continuo contatto coi ragazzi, letteralmente subissati di messaggi affettuosi, trascorse alcune settimane con loro sulla spiaggia di La Nouvelle presso Narbonne, che per Charles furono indimenticabili: si stava abituando a questa bella madre che, appena possibile, arrivava per viziarlo da un posto “in capo al mondo”.

Poco tempo dopo, papà Lucien decise di lasciare Narbonne e di trasferire la sua attività a Perpignan, la città natale, dove suo padre e suo fratello gestivano a loro volta un avviato studio di architettura. I ragazzi furono iscritti come “esterni” in un collegio locale, dove godevano di molta libertò e di una sana vita all’aperto, nel bel clima fra le colline (quelle di “Mes jeunes années”) e il mare (quello che avrebbe ispirato “La mer”, la più bella canzone del futuro di Charles).

Con gli anni, il ragazzo Trenet cominciava ad appassionarsi di disegno e pittura, in accordo con lo zio Louis, per il quale aveva una grande simpatia: fu lui a presentarlo al suo amico Albert Bausil.

Bausil era una figura di vivace intellettuale del Sud, direttore del settimanale “Le Coq Catalan”, giornale satirico, oltre ad essere autore di molte “pièces” teatrali divertenti e paradossali.

Ravvisando nel ragazzo delle sicure possibilità, non solo gli aprì la sua ricchissima biblioteca, ma lo incluse anche nella sua compagnia di “Les amis du Theatre”. E fu così che Charles Trenet si trovò alla sua prima esperienza scenica infagottato in una pelle di capra con in testa una corona di pàmpini, un Bacco incredibile.

Charles scopre veramente un nuovo mondo. Divora i romanzi della biblioteca di Bausil, a sua completa disposizione: Hugo, Verne, Zola, i racconti di Andersen, i versi di Baudelaire… Tutto lo interessa e lo affascina, e per di più è di casa nella redazione del “Coq Catalan”, dove si fa tanti amici. Espone i suoi paesaggi e i suoi disegni, partecipa a qualche recita o a qualche lettura in pubblico. Perpignan è una città di provincia molto animata e simpatica, e Bausil è veramente un amico e maestro di prim’ordine.

Qualche esperienza mitteleuropea

Le vacanze estive interrompevano per un po’ quel flusso continuo di attività creativa in Charles. I due ragazzi rivedevano con gioia la madre, e una volta se li portò dietro, in riva ad un mare straniero e lontano, a Isola d’Istria, sull’Adriatico. Rimasero un po’ delusi davanti a quella spiaggia rocciosa e molto affollata così diversa dai loro arenili. Si trovarono meglio a Vienna, fra il Prater e le pasticcerie, e soprattutto alla scoperta degli ambienti del cinema dove era impegnato Benno Vigny, “l’amico della mamma”.

Un’altra estate li portò ad Arcachon, sull’Atlantico, dove Charles conobbe un’inglesina, Jessica, che lo estasiava chiamandolo “Tcharles”, come giustamente voleva la pronuncia d’oltre Manica.

I due Trenet crescevano, ed erano alti, biondi e molto simpatici.

Ad un certo momento, Antoine fu spedito dal padre in una specie di esilio fuori dalla città: era stata scoperta una sua relazione con una distinta signora della “Perpignan per bene”. Per la prima volta, i due fratelli dovettero separarsi.

Charles continua a dedicarsi agli amici del “Coq Catalan” e allo spirito libertario di Bausil. Nel 1928 ha uno scontro, e non solo a parole, con un odioso sorvegliante del suo pensionato, e viene espulso.

Tuttavia papà Lucien non lo biasima, e accetta la proposta della sua ex moglie di inviarlo da lei in Germania, dove intanto si era trasferita con Benno. Proseguirà lassù lo studio? Forse, ma c’è ben altro.

La guerra è finita da dieci anni, e Berlino è una capitale piena d’interesse per il giovane francese. Benno e Marie-Louise lo accolgono ottimamente nel loro appartamento sulla Berliner Strasse, dove ricevono tutta la bella gente del cinema tedesco: Fritz Lang, Thea von Harbou, Joseph von Sternberg, mentre il “muto” si sta avviando anche in Europa verso la grande svolta del sonoro. E Charles, in ammirazione, conosce anche il musicista Kurt Weill, nonché una giovane Magdalena von Losch, prossima a trasformarsi in Marlene Dietrich.

Il giovane Trenet trascorre un anno in Germania, con tante nuove esperienze. Sua madre lo ha iscritto a una scuola d’arte della capitale, dove apprezza ben poco la disciplina tedesca e molto di più una bionda Eva, sua compagna di classe, alla quale segue una bruna Suzy, graziosa e sorridente ebrea. In loro compagnia ascolta con entusiasmo i dischi che arrivano dall’America, con le grandi orchestre di jazz e La Rapsodia in Blu di Gershwin: non ha tempo per studiare.

Marie-Louise sarebbe più tranquilla se Charles tornasse alla vita ordinata di Perpignan, e si congeda a malincuore da questo suo figlio un po’ troppo vivace. Ancora una volta saranno le lunghe lettere e le vacanze estive a tenerli uniti.

Grandi novità lo attendono al suo ritorno in Francia. Lucien Trenet si è sposato, ed è appena nato il suo terzo figlio, Claudius. La moglie è una giovane “catalana” (questo è il nomignolo dei francesi che confinano con la Spagna). Tre maschi dunque, questi Trenet, e a quanto pare, tutti contenti in famiglia. Antoine, il maggiore, si è iscritto a giurisprudenza all’università di Tolosa, e seguirà la strada paterna.

La bella brigata di Perpignan, la “bande à Bausil” è piuttosto in declino, e il Coq Catalan si sta trasformando in un galletto un po’ spennacchiato. Ma il vecchio e ostinato Bausil resiste, felice di avere ancora al suo fianco l’allievo prediletto. E Charles riprende a dipingere e a scrivere. Ma soprattutto, dopo l’anno trascorso a Berlino, vuole dedicarsi alla musica: compone delle canzoni improvvisando al pianoforte, sempre instancabile.

Arriva presto un’altra estate: altro viaggio all’estero. La madre, questa volta, è a Praga, e Charles la raggiunge e le porta anche il manoscritto d’un suo romanzo, un “Dodo Manières” che attende ancora di essere pubblicato. Marie-Louise è orgogliosa ma anche in pensiero, perché Charles si dichiara fermamente deciso di trasferirsi a Parigi tanto più che lei e Benno stanno per andarci anche loro.

Immagine articolo Fucine MuteTornato nel frattempo a Perpignan, ha la lieta sorpresa di trovare suo padre d’accordo con il suo progetto, a condizione che si iscriva alla facoltà di arti figurative nella capitale, e che studi sul serio.

L’air de Paris, finalmente

Siamo nell’autunno del 1930. Un ragazzo del Sud che ha appena compiuto diciassette anni, scende a Parigi da un treno della notte, e va a sistemarsi in una stanza d’affitto dalle parti della Porte de Vincennes. Sa già dove andare: nella vicina Joinville c’è la sede della Pathé-Cinéma, dove si sta affermando il bravo patrigno Benno Vigny, che lo attende. Viene assunto come apprendista: è volonteroso ed entusiasta di tutto ciò che ha attorno.

Nel trambusto dei film in lavorazione, dei divi capricciosi e dei tecnici esigenti, Charles se la cava alla meglio. E un po’ alla volta riesce anche a svincolarsi dalla dipendenza economica col padre, al quale non deve più raccontare la frottola di inesistenti impegni universitari. Però non ha dimenticato la sua Perpignan e il vecchio amico Bausil, al quale manda ancora degli articoli per il “Coq” e delle lettere affettuose. Ma ormai la sua vita è qui.

Il suo spirito intraprendente lo mette ben presto in contatto con il mondo della cultura e dello spettacolo, nei luoghi sacri di Montparnasse: le “Térrasses” dei caffè intellettuali, come il Dome e la Coupole, e i locali alla moda come il famoso “Boeuf sur le toit” nella zona dei Champs-Elysées, dove conosce Jean Cocteau, che gli presenta Max Jacob. Di costui lo colpisce il suo geniale spirito poetico, la sua ironia, una certa sua ingenuità: sarà il suo ispiratore.

Sovente, in lieta compagnia, può assistere agli spettacoli e applaudire personaggi come Chevalier e Mistinguett, dai quali imparerà molte cose.

Alla Pathé diventa assistente di Jacques de Baroncelli, un regista realistico,e conosce anche il grande Abel Gance, ormai famoso per il suo Napoléon e i suoi schermi multipli.

Intanto a Parigi è arrivata anche Marie-Louise. Nel ’32 Benno deve impegnarsi nella direzione d’un film musicale (siamo ormai in piena epoca del sonoro) e gli occorrono quattro nuove canzoni. La sua fama si è consolidata l’anno prima, con il film “Marocco” di von Sternberg tratto da una sua commedia, e ha molte occasioni di lavoro. Questa volta, niente Marocco e Marlene, ma una pellicola allegra. E Benno dà l’incarico di comporre le canzoni al brillante figliastro, che intanto si trasferisce dal suo modesto “meublé” a un appartamentino tutto per lui, nella stessa casa dove abita la madre, ormai sposata con il cineasta.

Per avere un contratto come compositore, è necessario che Charles dia l’esame di ammissione alla Società degli Autori, e lo supera a pieni voti. Ci vuole anche, data la sua età, il permesso del padre. Persuaso ormai che quella è la strada giusta per suo figlio, Lucien approva.

Il filmetto musicale sì chiama Bariole, ha un discreto successo, ma per Trenet è fondamentale, perché per la prima volta arrivano sullo schermo (e poi anche su disco) le canzoni con la sua firma.

Lui continua intanto la sua felice vita parigina, con tanti amici e molte buone occasioni. È presente nei cabaret di Montparnasse e anche nei piano-bar del centro, dove tutti lo accolgono con simpatia. Si procura i dischi con le novità che vengono dall’America: Berlin, Kern, Gershwin: è sempre aggiornato.

Tuttavia Marie-Louise è preoccupata: i locali alla moda che frequenta suo figlio sono anche aperti agli abusi, droga e alcool in particolare. Ma Charles respira a pieni polmoni la fortuna che gli è venuta incontro, è in ottima salute e pensa solo al suo domani.

“Charles et Johnny”, in due si canta meglio

Abbiamo visto che nel gennaio 1933 Charles è gia regolarmente iscritto alla Società degli Autori di musica: tuttavia la sua preparazione come compositore di canzoni è ancora agli inizi e gli manca l’esperienza “sul campo”. E a questo punto, ha un incontro fortunato.

Al “College Inn”, un piano-bar alla moda di Montparnasse, suona un giovane pianista. Charles, in uno dei suoi soliti vagabondaggi fra i locali, rimane colpito dalla precisione e dall’abilità tecnica dell’esecutore: lo ascolta ammirato, e fanno amicizia. Si chiama Johnny Hess ed è svizzero, viene dai dintorni di Lucerna. Parlano tra loro dei rispettivi paesi e delle proprie speranze: hanno in comune la passione per la musica e l’aspirazione al successo, per cui il “Midi” francese e l’Unterwald svizzero, tanto diversi e lontani, fanno presto ad intendersi.

Il “College Inn” è molto frequentato dagli esponenti del jazz, americani di passaggio per la capitale, oppure “vedettes” francesi: e fra loro c’è anche Django Reinhardt, il mitico chitarrista-gitano del celebre “Hot Club de France”. In quel momento vanno molto di moda i piccoli complessi vocali, come gli americani Mills Brothers e le Andrew Sisters, mentre a Parigi hanno successo “Pills et Tabet”, oppure Gilles et Julien, e altri ancora.

Andrew Sisters  Charles    Django Reinhardt

In breve, i due ragazzi, che non hanno mai cantato prima d’ora, decidono di fare il gran passo: Johnny farà la musica, Charles i testi, e li eseguiranno “in duo”, con un repertorio allegro e molto spiritoso.

Il loro motivo-sigla è suggerito da Albert Bausil, l’amico di sempre, e diverrà famoso: “Sur le Yang Tse Kiang” , storia d’un tragicomico amore cinese che Charles canta con una voce già ben impostata, mentre Johnny, sulla tastiera, si destreggia con degli abili ricami sonori.

È il successo: il repertorio si allarga e tocca talvolta (raramente, però) qualche spunto sentimentale, come “Maman, ne vends pas la maison” (Mamma, non vendere la casa): dedicato, ovviamente a Marie-Louise.

Vanno anche in tournée: a Perpignan c’è sempre Bausil, felice d’una inaspettata ripresa del suo giornale, al quale Charles continua a collaborare, e li accoglie con emozione.

Al ritorno, sono convocati per un’audizione al “Palace” di Parigi. Il “patron” del locale li ascolta perplesso, ma poi li assume comunque, dietro insistenza d’una spettatrice alla quale nulla si può negare, che si chiama Josephine Baker: “Ils sont si mignons” , sono cosi carini…

Ma le cose non vanno bene: il Palace è una specie di rumoroso porto di mare, dove la gente va e viene, ascoltandoli distratta. Nello stesso quartiere di Montmartre c’è però “Le Fiacre”, un altro locale, con un pubblico più “à la page” e ben disposto alle trovate musicali talvolta spiazzanti dei due giovanotti.

Il motivo di successo, stavolta, si chiama “Fils de la femme-poisson” cioè il figlio della donna-pesce, che non solo entusiasma gli ascoltatori ma interessa anche la casa discografica Pathé. E nel corso del fortunato 1934 vengono incisi ben sedici loro motivi. Ma la consacrazione avviene per mezzo di un’altra voce, quella di Jean Sablon, famoso cantante francese in stile “crooner” alla Bing Crosby, che si offre per cantare un loro motivo romantico: niente surrealismi, molta tenerezza, una melodia carezzevole: “Vous qui passez sans me voir, sans même me dir bonsoir…”

Sorprendente questo duo vocale giovanissimo che riesce anche a interessare con le sue canzoni un “pezzo grosso” come Sablon… E chiede loro dei motivi l’orchestra-jazz francese più famosa, quella di Ray Ventura, una cosa veramente inaspettata.

Verso la metà del ’36, il “duo” è al vertice della fama. Vengono scritturati per due settimane all’ABC, famoso teatro in Boulevard Montmartre, dove devono indossare un abito da veri concertisti al posto della loro tenuta da studentelli. È solo, una breve parentesi, poi continuano le esibizioni in provincia, con un pubblico sempre più entusiasta. In settembre incidono il loro ultimo disco: per tre anni hanno vissuto la loro bella esperienza giovanile.

Perché l’ultimo disco? Semplice: Charles, nell’autunno di questo 1936, ha ricevuto la chiamata alle armi e deve presentarsi a Istres come recluta. Il “duo” deve separarsi davanti ad una realtà alla quale non e possibile opporsi: sono mogi e disorientati, un pezzo della gioventù felice di Trenet se ne sta andando via.

“Y a d’la Joie”, malgrado tutto

Istres è una base aerea del Sud, non lontana da Marsiglia, dove Charles ha un ottimo amico, Edmond Bory, il gerente del Grand Hotel. Riesce anche a procurarsi una piccola Renault un po’ malconcia, con la quale può sfruttare tutte le ore di libera uscita sedendosi al pianoforte dell’albergo: non gli va poi tanto male.

Fra le scappate in città e gli inevitabili giorni di reclusione in caserma per i suoi rientri in ritardo, riesce a comporre due belle canzoni piene di ottimismo: la prima è “Fleur bleue”, ma la più gioiosa è la seconda, “Y a d’la Joie”, che dice “Buongiorno alle rondini, c’è della gioia dappertutto…” Questo “Bonjour les hirondelles” farà il giro del mondo per molti anni.

Il sole della Provenza evidentemente gli sostiene il morale. Tuttavia durante l’anno di servizio militare, sente sempre più la mancanza di Parigi: nel frattempo la sua povera Renault si rende inservibile e questo Trenet indisciplinato diventa un soldato modello, al punto di ottenere un trasferimento-premio nei dintorni della capitale.

A Parigi viene subito chiamato dall’editore musicale Raoul Breton, che da qualche tempo osserva i suoi progressi. La sua “Y a d’la joie” viene proposta a Maurice Chevalier che prima fa delle riserve, ma poi è proprio il grande “chansonnier” a ottenere, di sorpresa, un successo clamoroso cantandola in pubblico. Non è che i due abbiano una grande affinità di stile né una spiccata amicizia, ma la bella musica di Trenet è fuori discussione.

Il 1937 trova Charles libero dall’impegno militare. Non si è più esibito in pubblico dopo lo scioglimento di “Charles et Johnny”, ma ora e il suo momento, dovrà cantare ancora, e per di più da solo.

Viene convocato dall’editore Breton per la seconda volta: lui e sua moglie Mireille, detta “La Marquise” per i suoi modi raffinati, hanno fiducia in questo loro protetto, e lo ripropongono al proprietario dell’ABC, il locale di Montmartre dove si era già esibito in “duo” . Viene accettato, ma il programma è già pronto e Charles canterà solo due canzoni. Breton, previdente e fiducioso, gliene fa scrivere otto o nove.

Sarà una specie di trionfo: dopo “Je chante” il pubblico dell’ABC è tutto in piedi, non si stanca di applaudire e continua a chiedere altre canzoni. È il 25 marzo del 1938, e “une nouvelle étoile vient de naître”: è nata una stella. Il giorno dopo, caso raro, i commenti della stampa sono tutti d’accordo con il giudizio del pubblico; fra i più soddisfatti ci sono Jean Cocteau, Max Jacob, Colette, e anche Chevalier, ancora un po’ incredulo…

Cominciano a uscire i dischi, e ogni titolo è un successo sicuro per la Columbia. Vogliamo ricordare almeno, “J’ai ta main dans ma main”, un canto d’amore sereno. E tanti, tanti altri.

Il pubblico si è appropriato dell’immagine del suo “Fou Chantant” che sarà sempre quella per parecchie decine d’anni: cappelluccio, sorriso felice, braccia aperte come per afferrare una rondine.

Trenet vuole amministrare saggiamente questa gloria appena conquistata, ha un grande senso della realtà, sa bene che avrà ancora degli ostacoli da superare. È solamente l’inizio.

Breve ritorno al cinema . Ma poi, la guerra.

Lo cercano per il cinema: qualcuno ricorda quel giovane “tuttofare” negli studi della Pathé di Paris-Joinville, 1930-32. Ma stavolta Charles entra per la porta principale, tutti lo conoscono, e un regista di commedie musicali, Pierre Caron, vuole la sua partecipazione come Interprete e cantante. Ne uscirà La route enchantée, la strada incantata, racconto d’un giovane poeta reclutato da un teatrino ambulante che conosce una giovanetta perbene fra ostacoli, avventure e amore che trionfa. Molte le canzoni di Trenet, che è anche il protagonista del film accanto a due attori esperti come Julien Carette e Marguerite Moreno. Due titoli: l’immancabile “Je chante” e “Boum”, fra i tanti. Buono il successo di cassetta, e subito un secondo film diretto da Christian Steingel, con l’immancabile Carette e due attricette dal glorioso avvenire: Corinne Luchaire e Mícheline Presle. Il titolo è semplicemente Je chante, e l’esile trama coinvolge un collegio femminile, un cantante e naturalmente la consueta dose di canzoni gradevoli eseguite dal loro autore.

Primi mesi del 1939: i dischi, naturalmente a 78 giri, di Trenet, superano tutti i record di vendita. Il “Grand Prix du Disque” è assegnato concordemente al suo “Boum!”, canzone sorridente ed esplosiva. Siamo ormai alla vigilia della seconda guerra mondiale, e la sigla scherzosa di questo motivo assume senza volerlo un tono ironico e disperato.

A settembre Charles, come tutti gli altri giovani, risponde all’ordine di mobilitazione generale, ed è inviato in Provenza, dove ritrova molti ufficiali che aveva già conosciuto qualche anno prima, durante il suo servizio militare da recluta.

L’esercito francese è ammassato lungo la linea Maginot e, nell’attesa di combattere, i soldati hanno bisogno di essere distratti dai guai incombenti. Viene costituita un’organizzazione per il sostegno morale delle truppe, e vi aderiscono gli attori più cari al pubblico: Fernandel, Raimu, e cantanti come Tino Rossi, Edith Piaf, Albert Préjean. Charles si sposta con il suo pianista un po’ ovunque ci siano dei concerti, poi viene trasferito a Parigi.

Il 10 maggio del ’40 il fronte cede alle forze tedesche, e Parigi è dichiarata città aperta. Per la Francia ha inizio la tragedia dell’occupazione nemica, mentre Trenet riesce a farsi congedare dall’esercito causa l’impegno dei concerti ai soldati e con una scusa accomodante del Comando francese.

A un certo momento una colossale “bufala” dei giornali lo dà anche per morto, ma la cosa è poco divertente, perché deve superare ben altri guai: i collaborazionisti filo-tedeschi credono di ravvisare nel suo cognome l’anagramma di un “Netter” tipicamente ebraico, e deve faticare a procurarsi quei documenti che smentiscono l’assurda “accusa”. Lo aiuta anche sua madre, molto preoccupata.

Superata l’amarezza per quanto è successo, compone una canzone che è una grande dichiarazione d’amore alla sua Patria oppressa: è “Douce France”, il paese adorato della sua infanzia, “dans la joie et la douleur”. La cantano ancora oggi.

Nel ’41 ha una proposta per il cinema, che accetta volentieri: il film è La romance de Paris diretto da Jean Boyer, dove un bravo giovane vive una doppia vita: operaio di giorno, cantante di Music-hall di notte. Ottimo successo di Trenet interprete e delle sue canzoni. L’anno dopo c’è una seconda pellicola di Boyer, Frédérica, altro film-operetta.

A proposito di cinema, conviene ricordare qui anche la sua ultima partecipazione allo schermo, che è del ’43. Il film è Adieu Léonard, il regista è Pierre Prévert, il soggetto di suo fratello Jacques, la musica di Joseph Kosma, ebreo autentico e sotto falso nome. La lavorazione, dopo un inizio un po’ faticoso per le difficoltà tecniche in piena guerra, si svolge in buon accordo, perché la poesia e l’umorismo avvicinano fra loro i due Prévert e Trenet in un soggetto spiritoso e paradossale.

Ma i tempi non sono idonei a questo tipo di comicità, e il pubblico non dimostra molto entusiasmo, malgrado la presenza, fra gli attori, di Carette e Brasseur, due bei nomi del cinema francese.

Adieu Léonard, molti anni dopo, sarebbe stato premiato al Festival dei film francesi realizzati sotto l’occupazione, accanto al famoso Le Corbeau di Clouzot.

Resta ancora da segnalare una breve apparizione di Trenet in un film del 43, La cavalcade des heures, dove canta due motivi appena composti.

Uno dei due è “Que reste-t-il de nos amours”, un’altra sua canzone nostalgica e dolcissima: “Cosa rimane dei nostri amori…”. La potremo udire ancora una volta nel 1968, sempre con la voce di Trenet che si accompagna ai titoli di testa, nel bel film di François Truffaut Baci rubati. Il titolo è un verso della canzone stessa, “baisers volés”…

Sempre nel ’43 i tedeschi che occupano Parigi tentano di sfruttare a loro vantaggio la popolarità del cantante per conciliarsi un po’ i cittadini superando la loro silenziosa ribellione. Ma Charles inventa sempre nuove scuse per non collaborare, finché, d’autorità, decidono di inviarlo in Germania con Edith Piaf e Tino Rossi per intrattenere i prigionieri francesi. Lui si guarda bene dal rivelare la sua conoscenza della lingua tedesca, che risale ai tempi in cui viveva con la madre in Austria e Germania, poi partecipa alla tournée dando di malavoglia due soli spettacoli. Lo rispediscono in Francia.

La guerra prosegue, ed è un pessimo momento per i tedeschi: c’è lo sbarco americano in Sicilia e c’è Stalingrado, le cose si mettono male per loro. Infine, nel giugno ’44 c’è lo sbarco degli Alleati in Normandia, e a Parigi si comincia ad attendere con ansia la liberazione.

Proprio in quei giorni Charles viene ferito a una gamba da due sbirri della polizia, inviati alla sua villa per indagare sulle sue presunte attività anti-occupazione: dovrà presentarsi zoppicante ai suoi concerti nella solita sede dell’ABC di Montmartre.

Parigi viene liberata, ma c’è ancora l’ultimo soprassalto dei tedeschi nella battaglia delle Ardenne. Poi è la fine della guerra.

 “La Mer”, storia di una canzone. E poi l’America.

Quasi ogni volta che si deve citare una canzone di Trenet, si finisce per definirla poetica, o suggestiva, o magari originale, e via elogiando “le fou chantant”.

Per una di queste, però, non basta l’aggettivo. Occorre parlarne un po’ più a lungo, e magari spiegare la sua origine.

La ferrovia e la strada costiera che portano da Montpellier a Perpignan sfiorano delle zone lagunari che si chiamano “Etangs”, gli stagni. Uno di questi è il vastissimo Etang de Than, sul quale c’è il porto di Sète, la città nativa di un altro “grande” della canzone francese, il ribelle George Brassens.

Trenet era stato colpito da una coincidenza: attraverso la zona di Sète passa la strada statale, la Route Nationale Sept, alla quale aveva dedicato una canzone. Tanto per cambiare, un omaggio alla sua terra, al suo mare, e a questo accostamento “Sète-Sept” piuttosto singolare, dato che la pronuncia è la stessa. Se ascoltate la canzone “Route Nationale Numéro Sept” fresca e ironica, sentirete la presenza di quello spirito “du Midi”, del Sud, che lui si portava sempre dentro, in ogni occasione della sua vita.

E veniamo a “La Mer”. L’aveva composta in treno, percorrendo proprio quel litorale. Era con alcuni amici, fra i quali il suo pianista accompagnatore, Léo Chauliac.

Dai finestrini del treno in corsa, il mare sembrava saltare fra una insenatura e l’altra, e il motivo gli era uscito fuori di colpo:

La mer, qu’on voit danser
le long des golfes clairs
a des reflets d’argent…

Non volle pubblicarla subito, con quel testo così lirico e l’ampia melodia gli sembrava un po’ banale. Ci penserà il suo editore Raoul Breton, insistendo, a fargliela tirar fuori, e la musica di quei “golfes clairs” risuona ancora oggi, ovunque.

Alla fine del 1945 Trenet si è rimesso del tutto dalla ferita alla gamba e fa alcune tournée trionfali in Belgio, Olanda e Svizzera.

Subito dopo parte in aereo per l’America, dove ha ancora da sistemare dei contratti rimasti in sospeso prima della guerra. È accolto con vero entusiasmo, e lui contraccambia con la versione inglese di “La Mer”,che è “Beyond the Sea”. Il pubblico americano ne farà un grande “standard” della canzone.

In California conosce moltissimi attori. Una sera, un signore piccoletto dai capelli grigi lo invita al suo tavolo, gli offre dello champagne e si mette a canticchiare “Le soleil a rendez-vous avec la lune”, una delle sue recenti allegre composizioni. È Charles Chaplin, resteranno sempre amici.

A San Francisco compone un’ altra canzone-dedica, “Formidable le port de San Francisco”, e sono altri successi. È come stregato da questa America tante volte fantasticata, la patria del jazz, delle musiche di Gershwin e di tutti quegli autori dei quali aveva quasi consumato i dischi. Scrive agli amici in Francia: “Qui si ha sempre l’impressione di non perdere mai tempo,  neanche passeggiando”. Poi raggiunge anche il Brasile e ha grandi successi, mescolando lavoro e turismo.

Quando rientra a Parigi, la sua prolungata assenza gli fa scoprire molte cose nuove: esistenzialismo, “caves” di St. Germain-des-Prés tante nuove canzoni, Yves Montand e la Gréco… Anche gli “anziani” sono ancora in pieno servizio: Tino Rossi e Chevalier con tanti altri.

Poi riparte per l’America, e questa volta va in Canada. Nel Québec scopre una sua seconda patria: gli piacciono questi “francesi” che parlano una bella lingua, con le loro abitudini piuttosto all’antica e insieme parecchio progressive. Tutto gli sembra nuovo, canta con entusiasmo le sue canzoni e ne compone delle nuove: “Voyage au Canada” e “Dans les Pharmacies”, quei negozi tipicamente americani dove si vende di tutto, anche i gelati, e non solo pillole per il mal di pancia.

La permanenza canadese si prolunga, e fa ancora delle tournée in giro per l’America. I primi anni 50 lo trovano di ritorno a Parigi al famoso teatro di L’Etoile: la critica lo copre di elogi. Gira per la Francia, sempre cercando di alternare i vecchi motivi di successo con delle piacevoli novità. Gli è compagna in molti spettacoli una giovane cantante canadese, Guylaine Guy, che avrà poi una bella carriera in patria.

Gli anni scorrono, è sempre molto impegnato. Nel 1955 Jean Cocteau gli consegna il “Disque d’Or” come riconoscimento della sua fama di grande “Vedette” della canzone, e anche per l’enorme quantità di suoi dischi venduti nel mondo.

“Moi, j’aime le Music-Hall”

In America Trenet ha incontrato quasi tutti i grandi della musica jazz, da Armstrong a Ellington, Benny Goodman e Count Basie, mentre l’eco del Grande Scomparso, George Gershwin, non si spegne mai.

Si è anche reso conto della svolta che dagli anni 60 in poi ha segnato l’avvento della musica rock che a lui non piace troppo: la chiama “figlia bastarda del jazz e dei blues”, anche se riconosce la capacità di certi suoi esecutori.

In uno dei suoi temporanei ritorni a Parigi, dichiara in un’intervista “La parola démodé ha un significato speciale soprattutto per noi francesi. Io ho sempre avuto più paura di essere alla moda che di essere fuori moda. Non voglio essere alla moda, ma neppure voglio essere soltanto il cantante di ‘La Mer’, le Chanteur de papà, che la gente viene a vedere con devozione. Nel 1938 si veniva a vedere le fou chantant, ma oggi si ascoltano le mie canzoni”.

È sempre impegnato. Per molti anni ancora riesce a sostenere dei récital di due o tre ore senza annoiare e senza dimostrarsi stanco. E tutti i colleghi lo ammirano: per Trenet non ci può essere invidia, ma solamente ammirazione.

Continua a recare le sue canzoni in giro per il mondo, altre tournée lo riportano in America e poi in Russia, dove si accorge con meraviglia che molta gente sa a memoria le sue musiche, soprattutto le meno recenti.

Marie-Louise Trenet

Nel 1965 pubblica un nuovo romanzo, “Un Noir éblouissant” (Un negro abbagliante). Alcuni anni prima aveva anche scritto “La bonne Planète”: sono romanzi interessanti e di piacevole lettura. L’ultimo sarebbe stato “Mes jeunes années”, una specie di autobiografia, del 1978. Alterna sovente il lavoro a dei prolungati soggiorni nella sua villa di La Varenne, sulla Marna presso Parigi. Vi risiede anche sua madre, in una confortevole “dépendance”: è vedova del suo secondo marito. Attiva e pratica come sempre, Marie-Louise si prende cura degli interessi di suo figlio, celebre ma tenacemente scapolo. A questa sua casa-rifugio Charles dedicherà una canzone lieta e paradossale: “Le jardin extraordinaire”: “Per quelli che vogliono sapere dove si trova il mio giardino, è, lo vedete, au coeur de ma chanson…”. Ha anche delle altre case: a Narbonne, a Aix-en-Provence, a Parigi e nel Québec, il suo paese prediletto subito dopo la Francia. Ormai è ricco, i suoi concerti e i suoi diritti d’autore gli rendono dei capitali. E non ha mai abbandonato la pittura, alla quale si dedica nei periodi di riposo.

Se Trenet proprio non invecchia, è piuttosto il suo fedele pubblico che comincia a sentire il peso degli anni. E lui, sempre al lavoro, compone dei motivi più “giovani” senza alcuna fatica, senza mai accettare quelle musiche a ritmo scandito che in Francia chiamano “Yé-Yé” e di cui prevede la breve durata.

Anche il suo look si adegua. In alcune occasioni adotta ancora la tenuta da cantante folle, ma di solito indossa un abito più serio, nel quale però è facile scoprire il Trenet-ragazzo di sempre, che aveva detto in un’intervista: “Sono entrato nella mia infanzia a diciannove anni e non ne sono più uscito. Prima, ero troppo serio per la mia età”. E proprio a diciannove anni aveva scritto il tema per l’ammissione alla Società degli autori di musica: lo avevano subito promosso. Magari un po’ perplessi…

Charles et Charles

Gli anni ’60 non gli risparmiano qualche amarezza, che soltanto il suo ottimismo inattaccabile gli fa superare senza conseguenze. Una sua canzone dal tono satirico, “L’asino e il gendarme”, viene presa male da un alto funzionario della Polizia, e soltanto l’intervento del primo ministro Debré aggiusta la faccenda. Lo stesso Generale De Gaulle, dal palazzo dell’Elysée gli vuole dimostrare la sua simpatia con una citazione della sua canzone “l’anima dei poeti” trasformandola, con ironia, in “l’anima dei politici”. Simpatie fra due diversi Charles?

Qualche tempo dopo ha un breve e indiretto contrasto con l’amico Chaplin (altro Charles), che però non ha conseguenze: si è scoperto che nella colonna sonora de La Contessa di Hong Kong ci sono parecchi passaggi presi dalla sua canzone “La roman de Paris”. I tecnici provvedono subito a cancellare l’inconveniente.

Nel ’68 Trenet vede farsi avanti una generazione di giovani idealisti esuberanti che gli dimostrano una certa simpatia anche quando le pietre del selciato parigino cominciano a volare per aria nel Quartier Latin durante le loro accese manifestazioni. Gli eredi di Gandhi e Kerouac non disdegnano questo cantore romantico ed innocuo.

Gli anni 70 cominciano per Charles con un contratto nuovo e invitante propostogli dalla casa discografica Barclay. I molti viaggi all’estero hanno rallentato la sua produzione su disco, sempre molto richiesta, e ha molte novità pronte per la registrazione. Quanto alle esibizioni in pubblico, ricomincerà con il cabaret, dato che i piccoli locali gli servono, dice lui, “da laboratorio per le nuove canzoni”. L’evento di quei giorni è però una scrittura al teatro Olympia davanti ad una folla del “tout Paris”. Del vecchio abito conserva l’immancabile garofano rosso all’occhiello, e nel repertorio dà la precedenza a molte nuove canzoni. Fra queste, una nostalgica melodia secondo il suo stile migliore, che è come un impegno: “Fidèle”:

Je suis resté fidèle a des choses sans importance pour vous: un soir d’été, le vol d’une hirondelle, un rendez-vous …

Lo spettacolo senza fine

Trenet sapeva parlare da sempre al cuore della gente. Quella sera all’Olympia, sono applausi continui: prima le novità appena composte, poi tutti i successi dei suoi ultimi vent’anni. La gente non se ne vuole andare neanche all’una di notte, e Charles è come trasognato, lo hanno riparato in una specie di accappatoio che lo fa sembrare un pugile dopo il combattimento. Serata storica, e all’indomani gli osanna della stampa.

Nel ’75 si sente stanco e annuncia il suo ritiro dalle scene. François Truffaut scrive un articolo: “Visto che ha deciso di andarsene, noi andremo sovente in teatro a dargli l’addio…”. In altre parole, non crede alla decisione dell’amico Charles.

Infatti: un grande concerto all’aperto per il Festival della Primavera a Bourges, poi i bagagli e la partenza per un vero e proprio giro del mondo, che durerà un paio d’anni. Truffaut aveva proprio ragione.

Nel 1979 muore sua madre: aveva ottantotto anni. Colpito nel più grande affetto della sua vita, si ritira (questa volta veramente) per parecchio tempo. Ricompare alle Feste della Canzone di Antibes nel 1981, poi all’inaugurazione d’un grande locale a Parigi, presente Mitterrand. Nell’84 viene decorato con la “Legion d’Honneur”, il famoso bottone rosso all’occhiello dei Grandi di Francia, al posto del garofano abituale. Sembra pure che ci tenesse molto.

Lascia la casa di La Varenne troppo legata al ricordo di sua madre, e si trasferisce in una proprietà al Sud, il suo Midi prediletto. Ma arriva un altro richiamo: un suo amico canadese, Gilbert Rozon, lo viene a tirar fuori dal volontario letargo. Lui rifiuta, poi esita, poi accetta, e va a Montreal per un “Gala” in suo onore.

A settantasei anni ha un concerto al Palais des Congrés di Parigi: è in ottima forma, e per tre settimane canta il suo immenso repertorio con un semplice trio di musicisti che lo accompagnano. Ancora un successo incredibile: sembra che la Francia non possa fare a meno di lui.

Tutta la sua produzione esce in CD, un bagaglio di capolavori. E non mancano le videocassette dei suoi concerti.

Una strada di Narbonne diventa “Rue Charles Trenet”: discorsi ed emozioni nella luce del Sud. Un anno dopo c’è una serata televisiva dal titolo “Trenet a rendez-vous avec la ‘Une’, parafrasando una sua canzone famosa.

Nel 1993 compie ottant’anni. Ed è un seguito di tributi e manifestazioni in onore di questo monumento nazionale che canta ancora. A Narbonne, la sua casa natale è divenuta un museo aperto tutto l’anno, con folle di visitatori.

Nel ’96 il Festival del Jazz di Montreux lo vuole come ospite d’onore: e in quei ritmi piuttosto spigolosi si fa avanti, con “La Mer” e “Y a d’la Joie”, un piccolo respiro.

Nel 97 il presidente Chirac gli consegna la, medaglia di “Commandant de la Legion d’Honneur”: grande commozione. Nel 99 il ministro Jack Lang gli chiede una canzone per inaugurare “Le Printemps des Poètes”. Trenet provvede subito, con un impegno giovanile incredibile, e la canzone è “Les Poètes descendent dans la rue”.

Poi continua ancora il cammino: da quando aveva annunciato di voler smettere non si è fermato più. Non tante tournée affannose, ma una quantità di puntuali appuntamenti col suo pubblico.

C’è anche da segnalare una sua esibizione italiana, anni fa, al noto “Club Luigi Tenco” di Sanremo. Chi ha potuto vederlo riferisce d’un suo inverosimile “completo” candido, mentre canta commosso, appoggiato all’asta del microfono.

Il suo ultimo concerto è del novembre 99, alla Salle Pleyel di Parigi. Inizialmente un po’ affaticato, riferisce il cronista. Ma alle ultime canzoni saltellava sul palco… E aveva ottantasei anni.

La sua scomparsa nel febbraio scorso è stata ricordata da tutta la stampa, con rievocazioni d’ogni genere. Particolarmente toccanti gli articoli americani dal “suo” Québec. Non mi sembra che la nostra TV gli abbia dedicato qualcosa di speciale, ma forse mi sbaglio, e ne sarei felice.

PlayPlay

Nella grande tradizione della canzone francese, di cui tanto è stato detto e tanto si può ancora dire, è possibile tracciare una specie di confine più o meno arbitrario tra il genere “allegro” e quello “triste”.
Non che questa distinzione sia esclusiva dei francesi, ma ci sembra che per loro sia molto più definibile, pur con le doverose riserve. E facciamo qualche esempio.
Abbiamo una Edith Piaf che ci canta con “Je ne regrette rien” (Non ho niente da rimpiangere) o con “Hymne à l’amour” tutta la sua ribellione alle brutture e al grigiore della vita: ma ecco, subito pronto, Maurice Chevalier che inneggia ad una goffa e comica “Valentine” o che glorifica il suo personale e specialissimo pomo d’Adamo in “Ma Pomme”.
E poi c’è Jacques Brel che implora angosciato la sua bella di non abbandonarlo in “Ne me quitte pas”, oppure Jean Sablon che, desolato, accusa la sua donna di passargli accanto senza neppure vederlo, in “Vous qui passez sans me voir”. E un po’ più in là, ecco Yves Montand che, dopo aver pianto sulle sue “Feuilles mortes”, si riprende di colpo ammiccando alla sua diletta “Paris Canaille”…
Si potrebbe proseguire sull’argomento senza limiti, annoiando i lettori. E veniamo perciò al “dunque”.
Al di là delle Alpi c’è stata una voce un po’ speciale, che si è quasi costantemente dimenticata di tristezze, angosce, disperazioni e amori infelici: è la voce solare di Charles Trenet.
Il quale, in una delle sue più belle canzoni, ci fa sapere imperiosamente che “Y a d’la joie”, c’è della gioia in giro per il mondo. E’ il suo inno.
Un’altra sua canzone aveva un titolo grottesco, “Boum!”, ed era il battito del suo cuore al cospetto dell’amore “qui s’éveille”, che si risveglia. Lo scorso febbraio, quel cuore ha fatto “Boum” per l’ultima volta.

Addio, Charles Trenet, poeta della serenità e della gioia.

Bibliografia e iconografia

Noel Balem, Charles Trenet, le Fou Chantant, Éditeurs du Rocher, Monaco, 2001

Richard Cannavo, Charles Trenet, Hidalgo Éditeur, 1989

Véronique Montaigne, Le siècle de Charles Trenet, Le Monde, 19-02-2001

Olivier Schmitt, L’hommage unanime à Charles Trenet, Le Monde, 20-02-01

Olivier Schmitt, L’adieu du Québec à un artiste extraordinaire, Le Monde, 20-02-01

Ulderico Munzi, L’addio della Francia a Trenet, Corr. Sera, 20-02-2001

Mario Luzzato-Fegiz, “La Mer” come la Marsigliese, Corr. Sera, 20-02-2001

Laura Putti, Addio Charles Trenet, La Repubblica, 20-02-2001

Michele Serra, Cantò la difficile arte della felicità di vivere, La Repubblica, 20-02-2001

Registrazioni:

Su disco: Les Industr. Musicales Pathé-Marconi – Paris

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Commenti

2 commenti a “Charles Trenet, la gioia di vivere cantando”

  1. Interessante biografia. In Italia ho appena visto in rete you tube una registrazione di un intervento di Trenet ospite di Mario Riva a Roma (primi anni 60..forse “Il Musichiere”) Alcuni cantanti italiani dell’epoca, (finte comparse tra il pubblico) simulano di far sapere che il pubblico italiano conosce la canzone francese. In realtà
    qualche cosa arrivava anche dalla Francia ma era già in essere l’invasione della canzone anglo americana

    Di umberto gatti | 8 Aprile 2017, 09:27
  2. Grazie per il suo articolo. Ho adorato LaMer fino da bambina, ma solo da poco ho scoperto/sto scoprendo tante sfumature dell’uomo oltreché del musicista e cantante Trenet. A dispetto della gioia di vivere e l’ottimismo, si sente sempre nelle sue canzoni un soffio di malinconia nostalgica o nostalgia malinconica, tipica di chi ha avuto in regalo (…) dalla natura una sensibilità superiore alla media: non facile da portare avanti. Non lo avevo mai visto, mi ha colpito il sguardo azzurro da bambino vecchio.

    Di Patrizia Augusta Verduchi | 23 Febbraio 2020, 21:09

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