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Cinema

Il lato oscuro del sogno americano (II)

elementi surrealisti nel cinema di Wes Craven

2. Decostruzione dell’istituto familiare

2.1 L’ultima casa a sinistra

“…Alla fine, la scelta cadde su”L’ultima casa
a sinistra”, che a dire il vero con la storia non
c’entra niente. Ma suonava bene per la pubblicità.”

Wes Craven

Il fantastico, il metafisico, l’immaginario, hanno preso il sopravvento sulla realtà ordinaria, in quei momenti della storia umana caratterizzati da profondi stati di paura, incertezza, tensione.

Non è quindi un caso che i grandi cambiamenti nel genere horror si siano verificati in concomitanza di eventi traumatici. L’espressionismo che fondava le sue radici nel primo conflitto mondiale, trovò linfa vitale nella crisi gravissima che divorò la società tedesca del periodo subito successivo. Diede così una forte impronta stilistica alla rappresentazione di antichi e nuovi fantasmi del popolo tedesco, e scosse gli schermi contemporanei con le ombre di Homunculus, del Golem, del dottor Mabuse, di Dracula e del mostro di Dusseldorf. Dietro la maschera di Caligari vi era il volto di Hitler.

La Guerra Fredda negli anni ‘40/50 provocò tutta una serie di film di spavento basata sul tema del mostro e di anticipazione scientifica con mad-doctors e invasioni extraterrestri. Un isterismo collettivo portò a vedere dischi volanti ad ogni angolo del cielo; alimentato nelle “sale oscure” lo sbarco dei Marziani aveva il vantaggio di distogliere l’attenzione da una più crudele attualità.

La guerra del Vietnam e i movimenti giovanili di contestazione, portarono ad una profonda crisi della società americana che ispirò e diede impulso al New American Horror. Momenti d’incubo fittizio che corrispondono a periodi di crisi autentica(1).

Nato come critica e denuncia del reale, portò in primo piano, come una visione al microscopio, tutto ciò che l’Autorità aveva tenuto celato, usando la lente deformata e straniante dell’immaginario, del fantastico, del mistero.

Denuncia portata avanti attraverso strumenti noti per aver caratterizzato il movimento avanguardista del Surrealismo.

I suoi autori furono un ristretto gruppo di registi regionali — fautori di pellicole dirette ad un pubblico più povero, generalmente neri e contadini(2), con una distribuzione limitata sul territorio americano — operanti all’interno di un genere da sempre considerato di secondo piano, periferico, indipendente dalle grandi Major e quindi più soggetto a forme di sperimentazioni tecniche e tematiche.

La scelta dell’horror come campo d’azione, per le sue storie estreme e l’alto grado di irrealtà delle stesse, comportava una sorta di schermo protettivo contro l’establishment costituito dalla censura, dal principio di realtà fondato sulla ragione — definito da Jean Schuster in Il Surrealismo e la libertà (3) come il più compiuto tra i sistemi di oppressione del pensiero — e dalla morale puritana che impediva il trattamento di tematiche forti.

Il genere intraprese un lungo viaggio all’interno dell’insana società contemporanea, ne mise in evidenza i gangli tumorali non risparmiando allo spettatore alcuna sorta di shock visivi seguendo una strategia di derealizzazione del mondo quotidiano attraverso la sorpresa e lo spaesamento.

L’horror degli anni Settanta era soprattutto una questione di vedere: il sangue e il vomito, gli intestini e la carne maciullata, il sangue che inonda le inquadrature, gli schizzi iperrealisti di liquami multicolori(4).

Grazie alla sua collocazione settaria e ad un pubblico smaliziato, l’horror poté da una parte fare affidamento su un linguaggio cinematografico libero dalle convenzioni attraverso un audace uso della soggettiva, un intrepido impiego del montaggio con associazioni degne di certo cinema sperimentale sovietico, effetti speciali estremi e realistici ripresi in seguito dal cinema “alto”; dall’altra portò avanti un discorso di innovazione tecnologica come l’invenzione della steady-cam, la sperimentazione di nuove lenti deformanti e make-up sempre più elaborati.

Si è soliti identificare il capostipite, il fondatore del New American Horror nella persona di George A. Romero che nel 1968 con il suo La notte dei morti viventi ruppe tutti i canoni precostituiti del genere: il potenziale eroe positivo sbaglia in realtà tutta la tattica difensiva; la coppia di giovani che potrebbe fornire l’usuale love story, viene bruciata e sbranata a metà film; i soccorritori, nel celebre finale, abbattono l’unico sopravvissuto; gran parte degli assediati muore più per colpe umane (panico, litigi, affetti) che per l’azione diretta degli zombie. Niente può offrire speranza di salvezza: né la ragione dell’homo faber, né la solidarietà sociale, e nemmeno gli affetti visto che proprio la bambina simbolicamente assistita nel luogo più interno (la cantina/grembo) finirà per uccidere la madre e divorare il padre(5).

Ma si rivelò un film rivoluzionario soprattutto per la carica anarchica di cui si rese portatore. Vi è una prima percezione di una paura molto statunitense, che presto si estese al resto del mondo sviluppato: la morte del Sogno Americano. I suoi miti, le sue priorità riappaiono nel film di Romero come incubi. La famiglia è devastata e le figlie (zombie) divorano le madri; il consumismo appare in tutta la sua disumanità, e orde di morti resuscitati si accalcano in un supermercato per un estremo ricongiungimento con la merce. Dal classico conflitto del Bene contro il Male si è passati allo scontro tra Vivi e Morti. I morti viventi si presentano nell’immaginario contemporaneo come massa, come folla che scoperchia le tombe e cannibalizza gli esseri umani non ancora defunti(6).

Realizzato per gli spettacoli nei drive-in, il film trovò in seguito la sua naturale collocazione negli spettacoli di mezzanotte che proliferavano allora nelle grandi città e nei campus universitari. Tale esempio fu da ispirazione ed incoraggiamento per due giovani registi quali Tobe Hooper e Wes Craven che condivisero inizialmente esperienze (in televisione) e tematiche (le sanguinose vicende del necrofilo Ed Gein) analoghe prima di essere separati dall’industria cinematografica(7).

Nato e cresciuto nell’Ohio (Cleveland, 1939) Craven scoprì tardi il fascino del grande schermo: “Quando ero ragazzo non mi permettevano di vedere dei film: era contrario ai principi della religione, il Battesimo Fondamentale, al quale ero stato educato. Solo durante l’ultimo anno di Università, ma sempre di nascosto, sono riuscito ad entrare in un cinema: e fu per me quasi una rivelazione”(8).

Laureatosi in Letteratura e Filosofia presso la John Hopkins University di Baltimora, insegnò per alcuni anni materie letterarie ed umanistiche presso il Clarkson College di Postdam (New York). Ivi scoprì l’inclinazione a fare cinema: “Un giorno alcuni studenti vennero a trovarmi e mi chiesero se volevo essere il loro consigliere universitario per un film che volevano girare. Dissi di sì e così, per caso, cominciò la mia carriera di regista […] Il film fece più soldi di quello che era costato: gli studenti venivano a frotte e cominciammo a prenderci gusto…”(9).

Dopo alcuni tentativi come scrittore ed aver lavorato per una compagnia di taxi a New York, fu chiamato a completare un porno-soft, Together, dal regista/produttore Sean Cunningham. Il filmino ebbe un tal riscontro di pubblico (incassò $ 7.000.000) che convinse una piccola casa di produzione, la Vanguard, a finanziargli un film dell’orrore a basso costo. “Ci davano 50 mila dollari… Il problema era il soggetto. Noi volevamo mettere in scena le cose più spaventose, e così inventai quella folle commedia dell’orrore. Si doveva chiamare La notte della vendetta, ma era troppo scontato. Allora interrogammo amici e colleghi e venne fuori — è incredibile — il titolo Il crimine sessuale del secolo. L’idea era che Freud fosse stato il più grande maniaco sessuale del Novecento, perché aveva reso tutto il mondo cosciente dei problemi del sesso. Alla fine, la scelta cadde su L’ultima casa a sinistra…”(10).

Prodotto dal futuro autore della saga di Venerdì 13 (Friday the 13th, 1980), il già citato Cunningham, il soggetto è liberamente ispirato a La fontana della vergine (Jungfrukällan, 1960) di Ingmar Bergman: “Quando vidi La fontana della vergine pensai che fosse una storia incredibile. Era molto onesta e morale. Pensai giusto che sarebbe stato curioso trasformarla in qualcosa di completamente bizzarro”(11).

Immagine articolo Fucine MuteIl cineasta americano opera una serie di aggiornamenti in special modo riferito allo schema dei personaggi. La giovane vergine brutalmente stuprata da un trio di pastori è sostituita da una coppia di teen-ager, la giovanissima Mary e la più matura Phyllis, che in occasione di una gita a New York per un concerto vengono avvicinate, percosse e violentate da un quartetto di criminali evasi.

Bergman realizza una messinscena rigorosa, geometrica, rinunciando quasi completamente ai dialoghi, in un livido bianco e nero. Procede per giustapposizione di quadri viventi dall’andamento ieratico e assorto ove il tempo è vissuto come meditazione, al fine di far emergere l’intento didascalico e il forte misticismo che sottende l’intera opera(12), come nelle sequenze dello stupro e della successiva vendetta, in cui la violenza è perpetuata a freddo secondo una logica inevitabile. Craven sceglie un registro completamente opposto fatto da un continuo susseguirsi di immagini forti, di colori accesi dalle tonalità calde ed avvolgenti — con una decisa prevalenza per il rosso —, di rapidi passaggi dal comico al drammatico, dall’uso straniante della musica. Un film che procede ad altissima velocità così che le medesime sequenze dello stupro e della vendetta già presente in Bergman assumono in quest’ultimo una dimensione iperrealista, con gli eventi che sono generati da un raptus folle ed omicida, attraverso una messinscena irreale, fuori dal tempo, allucinata. Il confine tra buoni e cattivi sparisce del tutto con le vittime che si trasformano in vendicatori, in assassini a loro volta, che si accaniscono sui propri persecutori con una crudeltà e una violenza addirittura superiore a quella che hanno subito(13).

Una delle tematiche ricorrenti nel suo cinema è la descrizione di gruppi antagonisti, di solito famiglie parallele, rappresentanti le forze dell’anarchia distruttiva e della repressione normativa(14). Con gli Anni Settanta la “Famiglia” diviene nel genere il fulcro, la figura unificante di elementi eterogenei quali il Mostro come essere umano psicotico e schizofrenico, il cannibalismo, il satanismo e la possessione diabolica(15). Il film presenta due mondi, due gruppi, due famiglie contrapposte, una interna ed una esterna la società organizzata formalmente.

Immagine articolo Fucine MuteLa famiglia “regolare” è composta dai signori Collingwood, ex sessantottini oramai adeguatisi allo stile di vita borghese della ricca provincia americana e dalla figlia diciassettenne Mary, spirito libero, refrattario alle regole e vogliosa di assaporare le gioie della vita. Vi si oppone una sorta di famiglia “irregolare”, deviante, una banda di criminali composta dalla mente Krug Stillo, crudele assassino, fuggito dal carcere insieme al maniaco sessuale Fred Weasel, Junior Stillo suo figlio demente e la fidanzata cocainomane Sadie.

A livello narrativo, il film porta avanti parallelamente due storie: il rapimento e stupro delle due giovani e la disperazione dei genitori che si rivolgono alle forze di polizia, che solo nel lungo finale si congiungeranno, provocando la contaminazione delle parti e la loro deflagrazione.

Il film è tematicamente molto violento, ma per gran parte della sua durata, la violenza è lasciata fuoricampo, all’immaginazione dello spettatore che può solo viverla attraverso elementi di mediazione che il regista ci propina: suoni, rumori, dettagli visivi, primissimi piani sui volti di chi assiste da testimone a tali accadimenti.

Ispirandosi alla scrittura surrealista, una scrittura complessa, plurisignificante, franta, il cui scopo è straniare introducendo a sorpresa figure, citazioni, suoni, canti, marcette ed invettive ad interrompere atmosfere sostenute, Craven tende a riprodurre in ambito cinematografico lo stesso effetto. A tal fine utilizza il montaggio parallelo fondato sul nesso di analogia e contrasto che applica sia sul piano visivo che su quello sonoro. Sul piano visivo procede attraverso una alternanza insistita di sequenze comico/drammatiche creando spaesamento, irritazione, inquietudine.

Le due ragazze, in cerca di stupefacenti da assumere, vengono adescate e sequestrate da Krug, Junior, Weasel, Sadie e fatte oggetto di pesanti considerazioni. Stacco: soggiorno di casa Collingwood addobbato a festa, i genitori preparano la torta di compleanno con un’allegra marcetta in sottofondo [Contrasto].

Phyllis viene lentamente spogliata, picchiata e violentata da Krug e Weasel sotto gli occhi di un’attonita Mary. Stacco: i signori Collingwood sul divano del salotto si scambiano effusioni, simulando una dolce aggressione. L’analogia di situazione e il contrasto dello svolgimento hanno un effetto spiazzante [Analogia e Contrasto].

A causa della rottura della macchina con cui tentano di fuggire in Canada, i quattro criminali si ritrovano in un bosco nei pressi della casa di Mary. Qui Phyllis è costretta su “invito di Krug” a pisciarsi nei pantaloni, a spogliarsi insieme a Mary ed a fottersi avvicendevolmente. La visione viene sfumata, disturbata dalla presenza di elementi scenografici che si interpongono tra la scena e la macchina da presa quali rami, foglie, piante trasformando lo spettatore in un voyeur. Tale esempio di abiezione è paradossalmente commentato da un tema musicale pietoso e delicato che stride fortemente col piano visivo, ma che paradossalmente costituisce per lo spettatore una sorta di alleviamento della pressione psicologica a cui è sottoposto. Stacco: la coppia di poliziotti incaricati delle ricerche si rivela a poco a poco inetta, inconcludente, incapace.

Tale rappresentazione parodistica ed impietosa delle forze dell’ordine, le cui disavventure rappresentano un vero e proprio leitmotiv della pellicola, sarà una costante in tutta la produzione del regista di Cleveland. Due poliziotti, uno grasso e calvo, l’altro atletico ma “ritardato” rimandano direttamente alla coppia comica per eccellenza quale Stan Laurel e Oliver Hardy. Inserita in un tale contesto non è però finalizzata all’alleggerimento della tensione come invece accadrà nei lavori più recenti dell’autore, ma provoca l’effetto esattamente opposto. L’autorità così oppressiva e rigorosa con gli elementi “regolari” della società, si rivela invece inerme verso i pericoli che minacciano la comunità.

Lo sberleffo, la parodia dell’autorità è una pratica diffusissima che si può far risalire alle feste carnevalesche del Medioevo, durante le quali il folle, lo scemo del villaggio si mascherava da Sovrano o da altre icone del potere per poterle mettere in ridicolo impunemente.

Ripreso dal Surrealismo con la sua carica anarchica — “Tutto è da fare, tutti i mezzi devono essere utilizzati per demolire le idee di famiglia, di patria, di religione. La posizione surrealista è, su questo punto ben nota; ma è bene che si sappia che essa non comporta accomodamenti. Coloro che si assumono il compito di mantenerla persistono nel riproporre quella negazione, senza fare gran caso a qualsiasi altro criterio di valore”(16) — è diventato un topos del genere horror. Questa visione, chiaramente finalizzata alla giustificazione della “vendetta privata” che si attuerà nel lungo finale, ha portato molta critica a definire il film reazionario nella migliore delle ipotesi, fascista nella peggiore: “Da una parte lo spettatore borghese viene vellicato negli istinti più bassi con un ipersadismo da rivoltare lo stomaco; dall’altra gli si propina il veleno di una propaganda incivile: nella carenza di pubblici poteri, mentre si stringe intorno ai benestanti l’assedio degli esclusi, non resta che tornare alla legge della giungla. è la filosofia eversiva della destra americana, quella delle pellicole razziste di John Wayne. E L’ultima casa a sinistra è cinema da teppisti neri: un altro film destinato a far passare una bella serata all’onorevole Giorgio Almirante e ai suoi amici”(17).

Il tentativo di fuga di Phyllis è stroncato dall’intervento coordinato di Krug, Weasel e Sadie che come cani feroci le si avventano sopra e la trafiggono con numerose pugnalate, violandone in seguito il cadavere.

Con l’omicidio di Phyllis viene violato il tabù del corpo. Il suo fisico viene prima straziato da una serie di pugnalate inferte con ferocia, sadismo e piacere orgastico nel momento in cui appare scoperto il simbolismo fallico del pugnale e della stessa pugnalata come atto sessuale; poi mutilato di un arto; infine sventrato con l’asportazione delle viscere. Per la prima volta l’interno del corpo emerge in superficie, gli organi escono dal loro naturale ed oscuro contenitore per essere, anche se per pochi istanti, portati alla luce del sole, in primissimo piano.

È questo il solo momento in cui la violazione del corpo è mostrata esplicitamente allo spettatore. Stacco: i due poliziotti impegnati nelle attività di ricerca della banda criminale rimangono senza carburante e sono soggetti di burle da parte di giovinastri locali [Contrasto].

Krug incide con il coltello il proprio nome sul petto di Mary prima di violentarla. L’inquadratura indugia sul particolare dei volti ravvicinati di Mary, chiusa in una sofferente rassegnazione, e Krug immerso in un piacere violento, mentre la stessa musica pietosa sentita precedentemente eleva la rappresentazione ad un grado più alto di significato.

A questo punto il film sembra arrestare la sua folle corsa, rallentare il suo ritmo infernale. Ci spiega il regista: “Penso che una delle cose più controverse in L’ultima casa è che dopo aver fatto del loro peggio — e realmente hanno raggiunto il punto più basso, il nadir di crudeltà e violenza possibile per il genere umano —, gli assassini diventano pietosi. Improvvisamente si rendono conto di essere spaventati. Sono inorriditi da ciò che hanno fatto”(18). In quest’atmosfera mistica e trascendentale in cui un sussulto di coscienza riemerge in Krug, Weasel e Sadie, Mary attonita si riveste incamminandosi verso un lago nei cui pressi viene giustiziata con tre colpi di pistola. Stacco: i due poliziotti contrattano un passaggio su un furgoncino carico di polli, guidato da un’anziana signora di colore che non perde occasione di mortificarli ulteriormente.

Si opera un improvviso spiazzamento fatto di perdita di punti di riferimento precedentemente acquisiti (divisione dicotomica tra buoni e cattivi). L’instabilità, la caduta di certezze precostituite, la molteplicità dei punti di vista, sono le peculiarità del cinema di Craven. Lo scopo che si prefigge il regista attraverso l’impiego di questo gioco di montaggio, rispecchia le finalità di Ejzenstejn con il suo montaggio delle attrazioni: “L’attrazione è ogni momento aggressivo del teatro, cioè ogni elemento che sottopone lo spettatore ad una pressione sensoria o psicologica, sperimentalmente verificata e matematicamente calcolata, per ottenere determinate scosse emotive del percipiente…” Tenta di costruire un modello di comunicazione basato fondamentalmente sulle possibilità di imporre allo spettatore una sorta di ripudio traumatico delle sue abitudini percettive, mediante un orientamento emotivo o un coinvolgimento sensoriale(19).

La reiterata proposizione del contrasto tra piano visivo e sonoro — con le musiche composte ed eseguite da David Hess, che interpreta il ruolo di Krug Stillo nel film — riesce ad assestare un numero considerevole di suddette “scosse emotive” allo spettatore.

Un secondo tabù che Craven intende infrangere è quello della dolce morte: “L’ultima casa è una forma di reazione da parte mia verso tutta quella violenza che ci circonda, in special modo la guerra del Vietnam. Ho speso molto tempo nelle strade protestando contro la guerra, e volevo mostrare come la violenza avesse un effetto deleterio sulle persone”(20). Siamo all’inizio di un percorso che ci mostrerà la morte in tutta la sua drammaticità, lontani sia dalla morte coreografica di un Peckinpah che dalla morte asettica, anemica, senza dolore, patriottica di tanto cinema classico hollywoodiano. Due rappresentazioni di morte sono messe in scena in L’ultima casa a sinistra: la prima riguarda quelle di Phyllis e Mary, figure cristologiche, presentate come veri e propri riti sacrificali, forme di espiazione di peccati altrui, sopportate con mistica rassegnazione e coraggio; la seconda è riferita ai componenti della banda, caduta sotto la furia omicida dei Collingwood.

La latente “simpatia” che accompagna la banda di criminali emerge una seconda volta in occasione dell’incontro con i genitori di Mary. L’impaccio durante la presentazione e la cena, l’indisposizione sempre più grave di Junior, coscienza manifesta del gruppo, getta una nuova luce sulla vendetta dei signori Collingwood, trasformandoli in esseri ancora più feroci e bestiali dei criminali che hanno davanti.

Il giovane Junior, schiacciato da un incalzante senso di colpa, è facilmente spinto al suicidio dal padre, in un ribaltamento del mito di Edipo, nel momento in cui tenta un improbabile riscatto; Krug intraprende una feroce lotta con Mr. Collingwood per finire sventrato sotto i colpi di una motosega; Sadie nel tentativo di fuga si imbatte in Mrs. Collingwood finendo sgozzata sul bordo della piscina; Weasel subisce invece la dura legge del contrappasso, castrato e lasciato a morire dissanguato nel luogo in cui la giovane Mary era stata uccisa.

Tale morti, seppur terribili, sono lasciate solo parzialmente visibili, mentre i loro effetti sono illuminati da una luce nichilista che lascia intravedere nessuna soddisfazione nelle azioni intraprese e speranze per il futuro. L’arrivo affannoso dei due poliziotti ad eventi già conclusi, non fa altro che accentuare quel senso di vuoto e frustrazione che le immagini trasmettono.

2.2 Le colline hanno gli occhi

“Non vi è luogo al riparo dal male”

Anonimo

Il tema della famiglia minacciata, della reazione alla violenza con una violenza ancora maggiore, della condotta cieca e bestiale, ritornano nel successivo Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, 1977), inserito in quel filone definito come “massacre movie” il cui esempio più significativo rimane il Non aprite quello porta di Tobe Hooper. Suo punto di forza è la tematica del “cannibalismo” che trae origine dal caso sensazionale del serial killer Ed Gein, un distinto signore che negli anni Cinquanta seminò il terrore a Plainfield (Wisconsin) uccidendo, decapitando, scuoiando un numero imprecisato di donne. Collane di capezzoli, vagine sotto spirito, mobilio di ossa umane furono rinvenute nella sua casa(21). I resoconti delle sue imprese furono oggetto di ispirazione per numerosi film che vanno da Psyco (Psycho, 1960) sino al recente Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, 1991).

Il motivo del cannibalismo è sfruttato secondo due filoni ben distinti. In qualche caso i membri di una famiglia si divorano l’un l’altro (La notte dei morti viventi, mentre la signora Bates di Psyco è una cannibale in senso metaforico, divora la psiche del figlio). Più frequentemente il cannibalismo è il modo in cui la famiglia conserva e nutre se stessa (Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi)(22). La tematica del cannibalismo ha una forte valenza simbolica e politica. In una società capitalista fortemente basata sulla fisicità, sulla materialità, sulla nozione di possesso, questo rappresenta la forma estrema di possessività e dunque lo sbocco logico dei rapporti umani in regime capitalistico. Inserito all’interno dell’involucro, del corpo costituito dall’entità “famiglia” sta per la preponderanza del passato sul presente ed il futuro: la famiglia è cattiva, il mostro è all’interno di noi stessi, le figure parentali distruggono i bambini.

Questo modello viene elaborato in modo più complesso in Le colline hanno gli occhi, con la famiglia normale (verso la quale lo spettatore non riesce mai completamente ad immedesimarsi) in difficoltà, assediata dalla sua cupa immagine speculare, la terribile famiglia dell’ombra che abita sulle colline. L’intento di quest’ultima è uccidere gli uomini (l’autorità), violentare le donne (la liberazione della sessualità nel film horror è sempre presentata come perversa, mostruosa, dal momento che la perversione, come l’eccesso, sono le logiche conseguenze della repressione; qui la sessualità è totalmente pervertita dalle sue funzioni, in forma di violenza e cannibalismo), divorare il bambino (la nuova generazione)(23). Il film fa perno sull’eterno conflitto dicotomico bene e male, normalità e devianza, che portarono al successo generi classici hollywoodiani quali il western, il poliziesco, la fantascienza. Craven rispetto al passato fa un passo in avanti e in un mondo deformato e claustrofobico le due parti, una volta venute a contatto, s’infettano l’una con l’altra sino a rendersi distinguibili. è l’inesorabile processo regressivo nella violenza, che finisce per abbattere ogni barriera e pervadere tutto, ad interessare il cineasta americano(24): “Disposi di avere due famiglie in Le colline hanno gli occhi che fossero le immagini speculari l’una dell’altra, così da poter esplorare tutti gli aspetti della personalità umana […] Volevo qualcosa di più sofisticato che L’ultima casa a sinistra”(25).

Avvalendosi di un budget di $ 230.000, un gruppo di attori sconosciuti, una troupe snella, uno spirito indipendente e pionieristico, il film si ispira a una celebre episodio della storia scozzese del 17° secolo: Sawney Bean, patriarca incestuoso e cannibale, con la sua “famiglia” uccise e divorò centinaia di viaggiatori, prima di finire orrendamente giustiziato insieme ai suoi.

Ambientato nel deserto californiano, in una zona adibita dall’esercito americano per esperimenti nucleari (una spada di Damocle che pende invisibile sul destino di tutti i personaggi ed incubo ricorrente di fine secolo), protagonista una classica famiglia della middle-class americana in viaggio verso l’Ovest sulle orme dei pionieri di un secolo prima alla ricerca di una fantomatica miniera d’oro, il film assume le fattezze di un western post-moderno.

L’automobile con la roulotte al seguito che attraversa il deserto californiano rimanda alla diligenza di John Ford in Ombre rosse (The Stagecoach, 1939) che attraversava la Monument Valley pressata da un pericolo incombente. Così come un senso di disturbo, un terribile presentimento di morte ed orrore aleggia sul microcosmo rappresentato dalla famiglia Carter: un avvertimento rimasto inascoltato, un incidente provocato dalla troppa sicurezza dei protagonisti; un paesaggio sempre più ostile, illuminato da una fotografia rosso sangue che rende inquietanti anche i dettagli più insignificanti.

Il film sin dalle sue prime inquadrature ci presenta uno scenario definito dall’assenza: assenza di alberi, di vegetazione, di case, di segni di civiltà, ma soprattutto dall’assenza d’acqua e di ombra. è l’immagine di un deserto, di quelli che Anthony Mann e John Ford ci hanno reso familiari con le loro opere. Un luogo che sottopone l’uomo a circostanze feroci e difficili, lontano dagli orpelli della civiltà, in cui si rivela la sua reale natura di essere civile o selvaggio travestito. Ma il deserto se da una parte richiama il momento della creazione della terra, tabula rasa su cui ciascuno può scrivere la storia che vuole vivere, il “vacuum domicilium” che i Puritani avevano immaginato per l’America ansioso di essere popolato, è anche e soprattutto paesaggio di morte. è un luogo nemico dell’uomo in cui si è esposti a tutto; il sole picchia sodo e non ci sono posti dove nascondersi(26).

Strane ombre vi si aggirano ed osservano i movimenti dei Carter: soggettive di cui non si conosce l’origine, inquietanti voci fuori campo, sospiri affannosi e grugniti che hanno poco di umano, dettagli di corpi deformati. In questo modo il regista, nella prima metà del film, costruisce una suspense a volte insopportabile. Lo stesso spettatore rimane all’oscuro, è messo in una situazione di profonda frustrazione. Da una parte è conscio del pericolo imminente, dall’altra non riesce a focalizzarlo, a dargli forma, sembianza. Siamo più nel campo del terrore che in quello dell’orrore. Il primo indica sensazioni impalpabili connesse ad atmosfere più che a visioni, a suggestioni più che a concretezza di esperienza, il secondo sentimenti di disgusto, schifo, insopportabilità fisica(27).

Craven si avvale di campi lunghi e lunghissimi tanto da far assumere al paesaggio un vero e proprio status di Personaggio protagonista. S’inserisce all’interno di una tradizione tutta americana del paesaggio nell’arte in cui le figure umane non dominano lo spazio che occupano, ma stanno in relazione precaria con esso, senza illusioni di dominarlo. è la consapevolezza della fragilità della civiltà americana, del suo collocarsi su un confine incerto tra natura e legge. Tra le rocce si nasconde il pericolo, gli immensi spazi immergono i Carter in una dimensione di solitudine che improvvisamente si riempie di mostri.

Una croce di fuoco fende l’oscurità della notte e grida strazianti irrompono nel silenzio ovattato del deserto. Il pericolo finalmente si manifesta. L’orrore si spalanca. Seguendo un piano di strategia militare entra in scena il diverso, “l’altro”, l’indiano, la minaccia alla civiltà dei bianchi colonizzatori, esseri umani che vivono sospesi tra cultura e natura; una natura malata, in stato di decomposizione, infettata dal progresso della civiltà.

La presenza della nostalgia nella cultura americana è una costante non facilmente trascurabile. Al suo ruolo centrale concorrono fattori che affondano le loro radici nelle origini stesse della nazione americana. L’origine europea dei primi coloni puritani, le istanze fortissime di una riconquista del perduto — storicamente la civiltà che ci si è lasciati alle spalle, metaforicamente parlando un’Eden oscurata e allontanata dalla Caduta — sono uno dei primi fondamenti della psicologia nazionale americana. Storia e metafisica si fondono, in pretto stile calvinista, a formare un unico atteggiamento, un’unica aspirazione. A ciò va aggiunta una situazione archetipa, unica nel corso storico del mondo occidentale, di regressione dal culturale al naturale, o meglio di scontro reale dei termini oppositivi natura/cultura, che soltanto l’anomalia che costituisce la nascita dell’America bianca poteva attuare (nostalgia della cultura ad est, della natura ad ovest).

La nostalgia spesso assume i contorni dell’ossessione: il passato che ritorna, le colpe degli antenati, la costante presenza simbolica del peccato commesso, l’ansia di passato e di giovinezza come follia. La nostalgia viene a prendere il posto che non vi ha mai occupato, per ovvie ragioni, la tradizione. La nostalgia è la tradizione della cultura americana(28).

La famiglia dei devianti, sorta di ribellione della natura verso la civiltà imperante, in cerca di carne fresca da cucinare è composta dal capofamiglia Giove (Dio, secondo la tradizione mitologica romana, della Luce, colui che arresta la sconfitta e conduce alla vittoria, colui che unisce la comunità), i figli Plutone (Dio degli Inferi, conosciuto anche come Ade), Marte (Dio della Guerra) e il minorato Mercurio (Divinità protettrice dei mercanti e commercianti nella religione romana ma mai considerato particolarmente importante). La Donna, usualmente vista come elemento di umanizzazione e incivilimento è degradata allo stato bestiale (la moglie guardiana del focolaio domestico), privando la famiglia del suo significato e valore sociale(29). In un tale panorama un piccolo segnale di speranza è dato dalla figura della giovane figlia ribelle, deviante tra i devianti, che ritrovando dentro di sé quell’umanità che distingue l’uomo dalla bestia, finisce per emergere rispetto entrambi i gruppi familiari in lotta. Il disfacimento della famiglia Carter con la crocifissione del capofamiglia, la morte della madre, lo stupro della figlia più giovane e il rapimento della nipotina ancora in fasce, scatena nei componenti sopravvissuti al massacro una follia omicida e una vendetta cieca che annulla ogni confine tra le creature mostruose e i normali civilizzati: esiste solo una violenza esasperata e crudele(30). Isolata dal proprio mondo, troverà dentro di sé, all’interno del suo lato oscuro, tenuto sopito dall’opera di acculturazione portata avanti dalla società civile, la brutalità necessaria per fronteggiare i suoi nemici e per sopravvivere.

Si entra in una dimensione ove la dura legge della sopravvivenza è l’unica riconosciuta, ove le morti sempre più bestiali, sempre più efferate sono lasciate fuoricampo, all’immaginazione dello spettatore. Si evita così a quest’ultimo di scaricare l’orrore psicologico e la rabbia accumulata precedentemente, lasciandogli un senso di incompiutezza nel momento in cui il film si chiude sulla soggettiva del corpo di Giove massacrato a colpi di pugnale con lo schermo che si tinge lentamente di rosso sangue.

L’incubo non finisce con il ricongiungimento alla civiltà, ma con lo sprofondamento definitivo nell’orrore e nella violenza primitiva.

2.3 La Casa Nera

“Le favole servono ad aiutare i bambini
a comprendere gli orrori e la complessità
della vita, senza per questo obbligarli a capire
fino in fondo il mondo intorno a loro.”

Tim Burton

Il cinema americano, in special modo nei generi da esso generato quali il western, la fantascienza, il road-movie, ha sempre sfruttato le immensità dei suoi spazi, si è sempre “aperto” verso un fuori, in perenne ricerca dell’ultima frontiera, sempre più mitica, sempre in continua espansione, espressione del carattere coloniale che caratterizza la cultura e l’identità americana. L’horror che descrive un mondo alternativo a quello normale, avvalendosi del fallimento delle utopie di David Thoreau con la sua wilderness e di Frank Lloyd Wright con il suo tentativo di sintesi tra natura e civiltà, sceglie di ambientare dagli anni Settanta in poi le proprie storie in spazi sempre più chiusi e claustrofobici.

Il film horror si interroga sulla positività o meno del processo di civilizzazione americano, immerso nel dubbio se il trionfo della tecnologia abbia o meno distrutto per sempre la visione dell’America come un Eden agreste e idilliaco. Dagli spazi aperti delle praterie e dei deserti si è passati così agli spazi asfittici della frantumazione abitativa(31). L’essenza dell’abitare americano contemporaneo si fonda sul principio della chiusura architettonica. L’alienazione dovuta al fatto di vivere in una scatola è una delle fonti ispiratrici dell’horror americano moderno. Già Hitchcock in Psyco aveva gettato una luce inquieta sulla “casa” (senza trascurare il motel, sempre più teatro di qualsiasi forma di violenza e perversione) che da semplice immobile asettico si è trasformato in creatura pulsante, estensione e oggettivazione delle personalità dei suoi abitanti. La casa infestata o maledetta vive, respira, uccide. Numerosi sono gli esempi nella storia del cinema, quali la “Hill House” de Gli invasati (The Haunting, 1963) di Robert Wise, edificio privo di qualsiasi logica nel progetto costruttivo, le cui strutture si modificano a seconda del punto di vista adottato, una casa che vive e succhia la linfa vitale dei suoi abitanti; “l’Overlook Hotel” di Shining (The Shining, 1980) di Stanley Kubrick, che lentamente fa affiorare la propria anima malvagia e che vampirescamente assorbe il sangue e il cervello delle persone per nutrirsi e rimanere viva(32).

Il regista di Cleveland nel suo The People Under the Stairs (1991), tradotto impropriamente nella versione italiana con La casa nera, ce ne dà un ulteriore esempio ispirandosi e rendendo omaggio alla Casa dell’omonimo film di Sam Raimi (dopo che quest’ultimo aveva omaggiato, nella suddetta pellicola proprio Craven esibendo il poster de L’ultima casa a sinistra). Vero caposaldo sull’argomento per i giovani cineasti e fruitori contemporanei per l’arditezza della messinscena con l’utilizzo claustrofobico degli spazi, la rapidità nella successione degli avvenimenti a discapito della verosimiglianza, la giustapposizione di sequenze sempre più paradossali, demenziali, spiazzanti e vertiginose.

Come accaduto per Nightmare — dal profondo della notte, il regista prese ispirazione da un articolo apparso nel 1978 sul “Santa Monica Evening Outlook” che narrava di una coppia apparentemente normale che teneva segregati in casa i propri figli. L’idea che sotto la superficie di apparente normalità si potessero celare aberrazioni del comportamento, ispirò la prolifica immaginazione del cineasta americano tanto da dichiarare di aver sognato l’intera sceneggiatura del film e di aver poi riportato fedelmente sullo schermo il contenuto delle sue visioni.

La casa a cui fa riferimento il titolo italiano è una villetta decadente, testimone silenziosa dei macabri e terrificanti avvenimenti che vi accadono internamente. Così ricorda il regista le dure fasi della lavorazione: “Dovevamo girare in luoghi stretti: cunicoli, camini e ripostigli. La pratica di filmare queste aree limitate era necessario per l’approccio psicologico che volevamo tenere”(33). Esteriormente la casa appare come una delle tante villette confortevoli ed iperprotette di tanti ricchi sobborghi americani reseci familiari da numerose pellicole di genere ed in particolare da un film capostipite quale Halloween (id., 1978), che le vedeva teatro delle delittuose imprese di Michael Myers. Ricorda il regista del film, John Carpenter: “Ognuno di noi desidera vivere in un luogo sicuro. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, normalità era la parola più ricorrente. Se l’orrore riesce ad arrivare in un luogo tranquillo, ritenuto sicuro, allora può arrivare ovunque… Inquadrature con grandangolari, carrellate lente con metodo, trasmettono inquietudine allo spettatore, un clima di imminente pericolo”(34). Ripresa in totale, all’interno di un sottile processo di antropomorfismo, la facciata della casa appare come una maschera scheletrica pronta a trasfigurarsi nell’icona di Jack O’Lantern, la zucca scolpita e illuminata internamente da candele, simbolo di Halloween, che domina i titoli di testa dell’omonimo film.

Tanto più ci si avvicina, tanto più la si osserva nei particolari apparentemente insignificanti, tanto più rivela il suo carattere demoniaco: finestre con grate chiuse da lucchetti “esterni”, porte blindate e feroci cani da guardia che la rendono una prigione inaccessibile e un ostacolo invalicabile contro agenti esterni quali poveri e negri.

Craven rende omaggio ad un filone del genere horror che vide Roger Corman e le sue trasposizioni cinematografiche dei racconti di Edgar Allan Poe (La caduta della casa Usher), un maestro inarrivabile.

La casa prende vita. Qualcosa in essa si muove, dietro le mura, sotto i pavimenti, sopra i controsoffitti. Respira. Geme. Immenso ventre materno che nutre e si nutre dei propri figli, che protegge e punisce i suoi ospiti. Il suo interno non è più frutto di un progetto architettonico riconoscibile ma spazio metafisico, mentale, che annulla la geometria e cerca di riprodurre “l’ondulazione” dei sogni/incubi, come il Castello di bretoniana memoria, luogo di un “meraviglioso” ove un vero e proprio spazio scenografico d’elezione, una zona di sospensione del reale, si apre su una serie indefinita di fantasmi. Territorio estraneo alla storia, alla cronologia, da integrare piuttosto a una storia e a una geografia dell’immaginario(35). Come la città surrealista denuncia la perdita di un centro come ordine riconoscibile a favore di possibili ordini alternativi(36), parafrasando Calvino potremmo descrivere la casa come fatta solo di eccezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze, controsensi(37).

L’interno lo scopriamo lentamente e furtivamente insieme a Grullo, il giovane protagonista della vicenda, e ad un suo complice adulto che vi si introducono alla ricerca di un “leggendario” tesoro che sarebbe ivi custodito. Tale deambulazione diviene una sorta di ricognizione dello spazio, mappa mentale di una struttura che si organizza secondo l’opposizione tra luoghi di repulsione e luoghi d’attrazione.

Tra i primi una cantina dotata di recinzioni in legno, trabocchetti sulle scale d’accesso, botole nascoste con cadaveri in putrefazione, ganci da macellaio appesi a travi e macchiati di sangue, in una libera rielaborazione dell’Inferno di dantesca memoria; tra i secondi appare la soffitta, unico spazio aperto verso l’esterno, privo di sbarre, di impedimenti alla fuga se fatta eccezione l’improponibile altezza. Tra di questi si articolano labirintici corridoi tappezzati di porte che si aprono su stanze vuote, strutture pensili con doppio fondo che nascondono cunicoli, sorta di catacombe che corrono lungo le intercapedini della casa. Su questi tre livelli si muovono tutti i personaggi. Secondo un moto ascensionale quelli appartenenti al mondo dei fanciulli in un continuo tentativo di messa a distanza, evitamento dei luoghi di pericolo. Un moto di opposizione e di trascinamento verso il basso (sia dal punto di vista fisico che morale) caratterizza invece il mondo degli adulti. La linea di demarcazione tra la casa e il mattatoio, fra tempo libero e lavoro, scompare. Il mattatoio invade la casa e l’umanità comincia letteralmente a “divorare se stessa, simile ai mostri degli abissi”(38).

Suoi inquilini nonché proprietari, una coppia di pericolosi squilibrati, Mami e Papi (The Man e The Woman nella versione originale), in realtà fratello e sorella appartenenti ad un’antica famiglia che costruì il proprio patrimonio con un’impresa funebre, adoperando bare di scarsa qualità per passare in seguito alla speculazione edilizia con l’esplicito obiettivo di trasformare gli edifici di loro proprietà nel ghetto nero di una grande città americana, in condomini residenziali. Simboli di un capitalismo arrembante e di una fetta della popolazione americana wasp detentori del potere economico, intollerante e razzista, paranoica e moralista (il sesso visto come una cosa sporca e quindi da punire), dalle convinzioni fortemente conservatrici. Craven usò il genere horror per attaccare il compiacimento tipico dell’era Reagan/Bush identificato senza alcuna vergogna con i dimenticati, i vagabondi, i senza-diritto-di-voto(39). Spiega il regista: “La casa nera, con i due sfruttatori bianchi assediati dalla gente di colore (come nell’apocalittico finale [NdA]) è anche una metafora politica, sociale, familiare(40). Il nostro modo di vedere le altre persone o di pensare a noi stessi dipende molto da ciò che ci hanno trasmesso i nostri genitori. Il film tratta di una famiglia molto particolare e, per logica estensione, finisce col parlare di quella parte della società americana più conservatrice che teme e sospetta non potendo accettare le differenze culturali, i giovani, le minoranze, le differenze di razza”(41). Questa critica politica passò per lo più ignorata, fatta eccezione per un vignetta apparsa durante una campagna elettorale presidenziale con l’allora candidato George Bush che percorreva traballanti scale, con il logo del film, sotto le quali si nascondevano tutti i poveri e i senza voto. Una didascalia diceva: “Il terrore sulla via delle Elezioni!”(42).

Craven scrisse il film come una favola moderna, una sorta di versione “dark” della fiaba di Hansel e Gretel ove crudeltà, astuzia, coraggio, bontà innata sono sue virtù caratteristiche: “I film dell’orrore generano la nostra moderna mitologia. Freddy Krueger è come il Minotauro. Queste moderne figure mitologiche (The Man e The Woman) stanno per stati psicologici della mente, così come inespresse paure, che non trovano forma nella cultura moderna. Se pensati in questa maniera i film dell’orrore sono molto validi…”(43).

A distanza di quattordici anni da Le colline hanno gli occhi torna a darci una rappresentazione dell’istituto famigliare che lascia poca speranza per il futuro. Questa volta la violenza non è il frutto o la reazione ad eventi traumatici esterni, ma è insita, congenita la coppia di genitori. Non è diretta verso l’esterno, azione di difesa verso una minaccia all’unità o alla sopravvivenza del nucleo domestico, ma rivolta contro i suoi stessi componenti, i più deboli ed indifesi.

Il personaggio di Mami/The Woman (interpretato da Wendy Robie, protagonista del serial Twin Peaks) è una donna manipolatrice ma intelligente, la cui acutezza è il frutto della propria malattia mentale. Papi/The Man (interpretato da Everett McGill, anch’egli presente in Twin Peaks) è una creatura più bestiale, una persona astuta e brutale. Il comportamento schizofrenico della coppia porta ad assumere un’efficace maschera di normalità per i rapporti con il mondo esterno la casa (esemplare a questo proposito lo “spuntino” preparato al corpo di polizia durante una perquisizione della stessa a causa di una denuncia per maltrattamenti a minori) e una serie di comportamenti violenti, paranoici, sadici verso gli abitanti della casa che li immergono in una dimensione demoniaca.

“Questo mio lavoro si inserisce nel filone dei precedenti L’ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi. è una situazione autentica e primitiva che non è simile ad un sogno e non fa affidamento su circuiti elettrici. Lo vedo come un qualcosa di simbolico. I ragazzi che affrontano Papi e Mami sono rappresentativi di una minoranza che resiste alla maggioranza. La casa, con tutti i suoi spazi claustrofobici e luoghi celati, sta per la furiosa corsa alla civilizzazione, luogo in cui si mettono a confronto i due opposti di normalità e deformità, mostrando come siano in qualche modo collegati”(44).

Frutto dell’opera di disfacimento della famiglia, i due psicopatici sono alla ricerca del figlio perfetto, ubbidiente, supinamente piegato alla volontà degli adulti, che “non veda troppo, non parli male, non senta troppo”. Chi trasgredisce a queste tre regole, baluardo del mondo degli adulti nei confronti dei bambini, custodi di una visione ancora libera da censure e pregiudizi, capaci con disarmante innocenza di gridare “il re è nudo”, viene privato dell’organo colpevole (occhi, lingua, orecchie). Sordi, muti, ciechi di fronte agli orrori del mondo adulto, chiusi nella buia cantina con l’unico accesso verso il mondo esterno costituito da un televisore perennemente acceso sulle immagini di una bombardata Baghdad durante la Guerra del Golfo.

Questo reiterato conflitto tra bene e male, normalità e follia è stato sapientemente sottolineato dallo scrittore horror Stephen King che evidenzia come la struttura del romanzo e di conseguenza del film dell’orrore sia basato sul conflitto apollineo/dionisiaco “ognuno ha a che fare con uno psicotico dionisiaco imprigionato dietro la facciata apollinea della normalità […] da cui gradualmente, paurosamente emerge”(45). Tale conflitto ebbe origine all’inizio del Novecento con la contrapposizione tra Apollo, Dio dell’unità estetica, sinonimo di un estetismo neutro, poco appassionato, poco sofferente ed umano, e Dioniso, Dio della molteplicità. Rappresentante di un vitalismo, di una sensualità, di un’arte sfrenata, irruente, selvaggia, erotica che trovò la sua prima e più completa manifestazione nella danza rivoluzionaria del duo Stravinskij/Nijinskij che infiammò Parigi nel 1913 e che vide il movimento surrealista come il suo più fiero ed agguerrito sostenitore(46).

Il film è costruito secondo la netta contrapposizione tra mondo degli adulti e quello dei fanciulli. Già Breton aveva affermato come ciò che più si avvicina alla vera vita, libera dalle costrizioni dell’Autorità, fosse l’infanzia e come in essa poteva rivivere con esaltazione lo spirito più sincero del Surrealismo(47). L’infanzia vista più come una struttura mentale che non un semplice stato fisico, come rottura col vecchio mondo dei padri, come interruzione di un rapporto dipendente dalla cultura genitrice ed autoritaria, per riattingere invece alla cultura originaria più antica, fatta di desideri, libertà nei gesti, nei comportamenti e nelle parole(48). Nella rappresentazione di tale conflitto messo in scena dal regista americano, sono tre i protagonisti del mondo giovanile che si oppongono con più decisione agli adulti; tre fanciulli ispirati a figure tipiche della letteratura infantile.

Alice, il cui nome è ripreso dal personaggio creato dalla fantasia dello scrittore Lewis Carroll, è una bambina bianca segregata nella propria camera, immersa in un personalissimo “paese delle meraviglie” popolato di bambole da lei cucite al fine di salvare le anime dei fratelli chiusi in cantina e ridotti ad uno stato di zombie, di morti-viventi, incapaci di qualsiasi forma di comunicazione con l’esterno. La giovane sopravvive oscurando le proprie facoltà percettive, difesa passiva contro la follia dei suoi “presunti genitori” (solo in seguito scopriremo, infatti, che i bambini sono stati tutti inconsapevolmente rapiti ai loro legittimi genitori). Stilisticamente questa opposizione tra innocenza e perversione è presentata attraverso una fotografia che mette in risalto la giustapposizione di tonalità chiare (dal bianco al color crema) che caratterizzano il mondo adolescenziale, e tonalità scure (dal nero del cane guardiano, del costume sadomaso di Papi, della fuliggine del camino, al rosso sangue dell’emoglubinico finale) in cui è immerso gran parte del film.

L’unica forma d’interazione intrapresa da Alice è con una creatura, muta e deforme, che risponde al nome di Rauco e che pare ricalcato sulla figura di Peter Pan, ennesimo esempio di fanciullo che si oppone al mondo degli adulti negando la propria volontà di crescere. Riuscito a fuggire dalla prigione della cantina, vive tra le intercapedini della casa in un mondo parallelo, una sorta di “isola che non c’è” preclusa agli adulti. All’interno di una lotta dai contorni sempre più cartoonistici e nello stesso tempo orrorifici si confronta con il suo personalissimo Capitano Uncino/Papi finendo però vittima della furia omicida, dell’insensata violenza, della folle persecuzione dell’autorità paterna. Chiude il terzetto Grullo, un giovane di colore. Rappresentante della dimensione infantile, pre-culturale, che associa l’uomo all’animale (per via dell’istinto) e gli ridona spontaneità e disinteresse. L’infanzia con i corollari del gioco, del sogno, dello humour, diviene un’onda continua di rivoluzione e il mondo psichico infantile un luogo di non produzione in una società assolutamente produttiva. L’infanzia non produce niente, lo stato infantile è quanto di più libero, disinteressato, non ordinato, non razionale, non finalizzato si possa trovare(49). “Grullo” è in realtà il soprannome che la sorella appassionata di tarocchi ha affibbiato al fratello più giovane: “Il Grullo è […] il ragazzo dai riccioli dorati pronto ad affrontare la grande avventura della vita. Non è un Grullo stupido, ma ignorante perché all’inizio della carriera! Vedi! Qui ha già un problema, un altro passo ed è giù nel precipizio […] Il cane è il compagno del Grullo, gli abbaia “Vedi -dice- non camminare, sei sul ciglio della rupe! Scegli la via migliore, la via giusta…” Si volterà ed andrà dall’altra parte, verso il sole fiammeggiante; solo il suo lato fanciullesco verrà bruciato, lui uscirà dall’altra parte del sole e sarà un uomo e nessuno lo chiamerà più Grullo.”

Questo racconto che fa da colonna sonora ai titoli di testa, trasla l’intera vicenda su un piano metaforico. Siamo nel campo di ciò che gli studiosi di antropologia definiscono come riti di passaggio. Caratteristici delle società primitive, costituiti in forma cerimoniale, segnavano attraverso il superamento di prove fisiche e caratteriali l’entrata del soggetto in una nuova fase della propria vita che comportava un cambiamento di status personale, ad esempio l’appartenenza al mondo degli adulti. Tali riti sopravvivono ancora oggi, sebbene abbiano perso il carattere “sacrale” che li contraddistingueva nel passato, e si manifestano soprattutto nell’ambito delle religioni.

La vicenda, l’incubo della Casa, assume i toni di un’iniziazione all’età adulta, ad un’altra dimensione fatta di paura ed incubi, che prevede lo scontro e l’uccisione dei “padri” come un rito cerimoniale(50). L’infanzia lotta per entrare nel mondo adulto, ma la lotta è indotta, non rappresenta il desiderio dell’infante; è il pedaggio da pagare per diventare adulto, per essere ammesso nella società(51).

La coppia Grullo/Alice novelli Hansel e Gretel affrontano così la loro “strega”. Alice si scontra con la Madre Cattiva che finirà divorata dalla furia dei figli ribelli (con il ritorno dell’immagine di una società antropofaga che finisce per divorare se stessa); Grullo fronteggia il Padre Malvagio attuando la stessa strategia del piccolo protagonista della fiaba dei fratelli Grimm. Lo attira nella cantina/ripostiglio, si impossessa del tesoro ivi celato, quindi lo uccide incendiando la casa e sperdendo per il ghetto il guadagno accumulato in anni di sopraffazioni e strozzinaggio(52).

Il film si chiude con le immagini della casa ormai violata e in fiamme, con la rivincita dei neri sui bianchi, dei poveri sui ricchi, del caos che “riordina” la realtà imposta ed ordinata con prepotenza dall’Autorità; con le forze dionisiache liberate dal recinto della cantina che prendono il sopravvento su ogni altro elemento costrittorio come la casa medesima ed i suoi perfidi abitanti, divorati dalla furia dei figli ribelli, icona profetica degli scontri sociali accaduti a Los Angeles nell’aprile del 1994.

(fine seconda parte)

Wes Craven è nato a Cleveland nel 1939. Dopo una difficile infanzia (Wes è cresciuto in una famiglia anabattista), lasciò Cleveland per studiare aeronautica al Wheaton College, nell’Illinois. Dopo una grave malattia lasciò il college per ritornarvi un anno dopo, ma in una facoltà differente: psicologia. Nel 1964 si laureò in lettere e filosofia alla J. Hopkins University. Si sposò con Bonnie Broecker, madre dei suoi due figli, che però lo lasciò dopo alcuni anni, lasciandolo solo con i figli. Fu allora che lasciò il suo lavoro da insegnante universitario e, dopo un impiego temporaneo come tassista, entrò nel mondo del cinema come montatore del suono in una compagnia di postproduzione di New York. E dopo una prima coregia (Together, con Sean S. Cunningham), Wes realizzò il più violento horror degli anni ’70: L’ultima casa sulla sinistra (The last house on the left, 1972). Il film fu un grande successo, proprio come la sua seconda pellicola, Le colline hanno gli occhi (The hills have eyes, 1978), che vinse il Premio della Critica al Sitges Film Festival. Durante la sua carriera, Wes Craven ha vinto molti premi, tra cui quello per il Miglior Film per Nightmare (1984) al Festival di Avoriaz. E ora, dopo 29 anni di horror, ha voglia di lasciare il mondo degli “scary movie” per confrontarsi con un altro tipo di cinema; e il primo passo l’ha già compiuto: nel 1999 è uscito La musica del cuore (Music of the heart).

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