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Scrittura

Giuseppe Pino Trani

La parola come mattone e insieme archetipo

Luciano Dobrilovic (LD): Lo scrivere poesia è come una costruzione architettonica… anche per il linguaggio?

Pino Trani (PT): Sì, anche per il linguaggio: chi scrive deve misurare e cesellare, costruire un qualche cosa che sia chiaro e definibile, comprensibile, anche se i piani di lettura possono essere poi diversi. Dieci persone considerano diversamente una persona sottoposta al loro sguardo; se abbiamo un modello, chi si occupa di disegno e di pittura lo vede in tante maniere, ognuno lo vede in modo proprio: e quando si scrive si dice una cosa soltanto, ma questa ha dei riverberi, altrimenti non è viva: è morta. Come un palazzo che nella sua unicità è tanti palazzi, ha tante sfaccettature e tanti punti di riferimento, tanti punti luce che lo rendono bello o brutto, e lo fanno un tutto. Una donna che sul momento ti può sembrare brutta, guardandola meglio diventa bella o viceversa. Il mondo è uno, ma ha tanti riverberi. Per raggiungere questa unicità e farla capire, cioè trasmetterla agli altri, bisogna accompagnarla anche con questi riverberi.

LD: Lei ha detto che costruisce coi mattoni di un palazzo distrutto: si riferisce alle rime e ai procedimenti stilistici usati un tempo?

PT: Sì, mi riferivo al fatto che per esigenze del pensiero, dell’immagine, dell’intuizione, della visione… per darla nella sua forma univoca e unica ma accompagnata dai tanti riverberi che ha, uso questo andamento del pensiero in me naturale che sfrutta anche modi di dire arcaici, del passato, per raggiungere un certo momento d’ironia, e anche per sdrammatizzare: quando sono serio, rido di me stesso. Dire “le belle concave navi uguali d’ambo i lati” — come diceva Omero -, lo si dovrebbe fare anche oggi se si coglie il momento della nave vista nella sua interezza, cioè, come la vedeva Omero guardandola, bella e concava in maniera uguale d’ambo i lati; questo ridondare che non è un ridondare — qualcuno direbbe che è lapalissiano: “il tondo cerco”; è chiaro che il cerchio è tondo, ma per raggiungere questo momento di meraviglia… Il poeta è uno che deve meravigliarsi sempre come il filosofo di fronte a quello che vede. Prima di me, Wittgenstein diceva che la cosa più ardua è dimostrare l’ovvietà: dimostrare che uno più uno fa due sembra facile, ma cogliere l’essenza, vedere l’architettura in questa ovvietà… per esempio, l’Uomo della Croce diceva “nella carne e nel sangue erediteranno il Regno dei Cieli”: sembra una cosa banale, ma cosa intendeva in questo modo? “Devi morire per andare dall’altra parte, non puoi pretendere di essere Eterno nella tua finità, nella tua temporalità, nella tua storicità. Anche la storia per raggiungere la Metastoria deve esaurire il proprio essere finito.

LD: La parola per il poeta è come il marmo per lo scultore…

PT: Sì, è materiale col quale costruire la parola stessa. Le parole come i numeri hanno due aspetti: uno intelligente e uno stupido. Chi vuole usare le parole per costruire qualche cosa cerca sempre di intivare (1) l’aspetto intelligente della parola. La donna al mercato fa anche di conto, però non è una matematica: tutti parliamo, però non tutti sono dei poeti. La parola per diventare poesia, mattone di una certa costruzione, deve darsi fino un certo aspetto, e io ritengo che sia quello intelligente; c’è l’atro stupido e banale: tutti diciamo che usiamo la parola “caso” nel comune conversare, ma se andiamo ad approfondire, il “caso” vuole dire qualche cosa di diverso, qualche cosa di inesistente per certi pensatori. La parola è per lo meno ambivalente.

LD: Nelle Sue poesie vi sono alle volte iterazioni di parole che danno effetti particolari; per esempio, la ripetizione di amo in Mirando una bella donna

PT: Per dare l’immagine, la visione nel suo aspetto più originale, per far vedere l’archetipo, bisogna saper costruire con le parole… quindi, usare anche delle parole che un certo momento devono frenare la corsa dell’immagine e della visione, perché in quel momento lo scrittore sente dover farsi capire in un’altra maniera; evitare l’ovvio… il mondo comunemente ama l’ovvio… leggendo una poesia dove c’è la ripetizione di una parola, qualcuno chiede: “perché hai usato questa parola tante volte? Non mi piace…”: chi scrive invece pesa le parole col bilanciere dell’alchimista, dell’orafo, secondo me… non è che le butti lì per voler dire qualche cosa che si lasci intuire, ma quando si vuole materializzare l’intuizione le parole assumono un’altra valenza; anche per dare una certa musicalità e un certo ritmo, per creare l’immagine plastica che ha in testa, chi scrive si sente di dover usare le parole in una certa maniera, anche ripetendole, proprio per far vedere che non voleva dire ciò che il lettore intuisce immediatamente, ma voleva dire una cosa propriamente sua; le leggi non vengono prima dello scrivere, è lo scrivere che determina le leggi. L’autore, l’artista, colui che crea in genere è un demiurgo, senza la pretesa di voler esaltare eccessivamente chi è creativo: egli crea mondi nuovi con regole che è lui a stabilire. Non si può dire che se uno non scrive in endecasillabi, non è poeta… chi l’ha detto? Anzi, le regole strette a volte rovinano quella che è l’intuizione immediata dello scrittore, rendere schiava la parola di regole precostituite mi sembra non vivere quella grandissima e assoluta libertà che è l’intuizione, la visione, il momento angoscioso del creare… perché creare è anche mettersi continuamente in discussione.

LD: Altri Suoi procedimenti linguistici particolari e personali?

PT: Non sono a priori, nascono per esigenze immediate del flusso di pensiero, del mostrarsi dell’immagine che voglio trasmettere, del concetto e della visione. L’unica cosa che sta a priori è che cerco l’epicità del dire. Il passato, per esempio, è tutto epico, è tutto bello sempre, ah grandioso! Ma il nostro passato è fatto di guerre, che sono tutt’altro che belle… quando studiavo la Grecia antica, Roma e le altre civiltà antiche, le studiavo attraverso guerre, soprattutto, che oggi viviamo però come se fossero proiettate su uno schermo cinematografico. La tragedia è una cosa bella se recitata su un palcoscenico, ma quando è recitata sul palcoscenico della vita è tutt’altro che bella. Allora l’arte è sublimazione della vita, è rendersi conto di quello che può essere la vita e, a volte, anche lo è.

LD: Le funzioni e le necessità più profonde del linguaggio nella poesia?

PT: Sono quelle, secondo me, di trasmettere in una maniera quanto più immediata possibile l’idea centrale del poeta, dello scrittore, dell’artista, la sua immagine. La parola è strumento ma nel contempo anche fonte generatrice di qualche cosa. La parola è mattone ma anche archetipo, archetipo dell’insieme che questo mattone va a costruire e a mostrare agli altri. Io potrei non scrivere niente, tenerlo per me, ma mi sembrerebbe un furto, un sopruso: perché non comunicare questa, che io sento come bellezza, anche agli altri? L’artista deve essere una persona generosa, oppure un malato che è medico di se stesso, che cerca di guarire e lo può fare solo buttando fuori quello che ha dentro.

Oggi, per esempio, ci sono persone che mettono duecento parole nel computer, dando loro una formuletta, e il computer mette insieme queste parole… è un po’ l’operazione che hanno fatto quei ragazzacci a Livorno che hanno riprodotto le teste di Modigliani con la sega elettrica, ingannando anche i critici, perché il critico è unartista fallito, il critico si costruisce i suoi parametri e cerca di vedere tutto il mondo attraverso questi parametri.

Invece, il vero critico deve rendersi conto che quando ha davanti a sé una determinata creazione è soltanto l’intelligenza che deve usare, un’intelligenza che deve emergere dalla creazione come armonia e conseguenza logica della creazione, un ordine che deve essere palpabile e visibile ma emergere dall’opera stessa, e in base a questo deve costruire i parametri e le leggi dello scrivere, dello scolpire, del dipingere; in base a questo e non a leggi emerse da altre precedenti creazioni: altrimenti, dovremmo scrivere tutti come scriveva Omero o come scriveva Dante

Ci sono state non dico delle evoluzioni, ma dei modi di dire, di fare, di scolpire e dipingere diversi nel corso del tempo; è chiaro che c’è un sole di fondo unico che illumina e dal quale si trae la forza dell’arte — ma allora: contempliamo quel sole e basta… finiamo di parlare, di scolpire, di dipingere, non comunichiamo niente… dovremmo diventare dei telepatici, degli essere superiori, o forse inferiori… Per me il dono della parola è un bellissimo dono, che può costruire tante cose e regalarle anche agli altri, far godere anche gli altri di quello che riesce a costruire nell’artista e far godere in lui.

Chi crea arte, cosa fa? Inventa anche situazioni, le plasma nello spazio e nel tempo, crea mondi, come ho già detto, è un demiurgo, che però deve tenere ben presente di essere polvere e nient’altro che polvere, almeno nella dimensione della storia, del temporale, del finito… prendere piena coscienza della propria finità è raggiungere l’Infinito, scendere nella nientità, nella piena, totale coscienza del proprio esser niente. È lì che si scopre la scintilla che ha dato origine all’Universo, all’Anima, è lì che si scopre l’Infinito vero.

Non certo camminando su impalcature che sono le convenienze, le carte geografiche e topografiche del mondo, le bussole che aiutano l’individuo a barcamenarsi in questo mondo… È proprio il distruggere qualsiasi punto di riferimento e trasformare se stesso in punto di riferimento, senza la presunzione di esserlo, quindi negare se stesso con piena coscienza, arrivare all’annullamento totale di qualche cosa di precostituito, è lì che si scopre la Luce del Creato: non a posteriori, ma a priori, bisogna scendere in questo buio enorme e se si ha la forza.

La Luce uno la intravede; ma se non è capace di mettere costantemente in discussione se stesso, porre il dubbio — che sto facendo? che sto dicendo? sto dicendo davvero qualche cosa o sto farneticando? 

Stare sempre all’Origine, un po’ come Socrate: il suo punto fermo era la piena e totale coscienza di non sapere esattamente le cose… che poi in effetti era un saperle, perché alla fin fine aveva sempre ragione lui, ma non con la presunzione di poter proporre le proprie sintesi che uno fa magari camminando per strada avvolto dai suoi pensieri come sintesi universali, ma di porle in discussione, in dibattito, in (dia)logos e vedere se reggono o non reggono o per lo meno vedere fin dove e fin quando reggono: è questa la bellezza.

Non è un relativismo, perché i relativismi sono negativi e anche pericolosi, non è neanche un voler a tutti i costi pretendere di aver raggiunto l’Assoluto e di esserne l’unico possessore o l’unico chiaroveggente — colui che lo vede chiaramente — è appunto sentire un qualche cosa che sembra essere all’Origine del tutto, che poi sia una fiammata o una vampata di un enorme sole, questo nessuno lo mette in discussione, non è che io sono Dio e basta: possono essere tutti dei, però c’è un Dio che è la cupola sotto e oltre la quale avvengono tutte le cose nel loro significato; la spazio-temporalità dell’evento è una cosa, la sua Verità, Anima, Essenza è un qualche cosa che bisogna cercare e trovare.

Se uno si soddisfa di vedere la casa come una costruzione di mattoni, va bene anche così se è contento lui, ma al di là di questo ci sta anche dell’altro, ci sta sempre qualche cosa di altro al di là di tutto, fino a quando si raggiunge la piena coscienza della propria nullità e in questa nullità l’universalità del tutto, parifica tutto questo momento di fronte al tutto: per cui anche la polvere sui mobili ha la sua Bellezza, il pulviscolo ha la sua Grandezza, così come i grandi palazzi, i grandi templi, le grandi idee, tutto ciò che consideriamo grande.

Il granello di sabbia non è meno Grande della grande piramide di Cheope; quando si capisce questa cosa o si crede di aver capito o si crede in questo come a un sistema geometrico valido, allora forse si può dire di aver veramente capito qualche cosa: io la penso così.

E alla fin fine tutto si traduce in un gioco, e un giorno anche la Divina Commedia altro non sarà che polvere, almeno stando alle conoscenze ed esperienze che abbiamo avuto finora di questa vita… Se poi sarà qualcosa di sublime nell’aldilà, tanto meglio: ma la morte è l’ultima tappa d’esistenza del mondo fisico e quindi d’un universo che è destinato a morire, per quanto se ne possa dire o credere. Tutto ciò che nasce deve anche finire, se non altro finisce già mentre inizia, perché non c’era prima, e questo prima è legittimo. Non si può dire che il tempo e lo spazio siano nati con il Big Bang; se il Big Bang è avvenuto in un certo momento, né un attimo prima né un attimo dopo… se noi sosteniamo questa cosa ci contraddiciamo dicendo che con il big bang sono nati lo spazio ed il tempo: e prima? Questa è una domanda legittima: non si può imporre l’idea che il prima chiesto a tale proposito non abbia senso.

Per noi occidentali è la commedia che scivola verso la tragedia finale, l’Apocalisse, verso la distruzione del fisico che dovrebbe coincidere con il momento della sua resurrezione, del grande ritorno nella Casa del Padre e della manifestazione della cosa in Sé: Verità e realtà saranno un tutt’uno. Mentre nella nostra vita di ogni giorno, Verità è una cosa e realtà un’altra; se perdiamo di vista un certo valore interiore, bere un bicchiere d’acqua o accoltellare una persona, come atto fisico, hanno un valore fisico e basta; se perdiamo di vista questo valore che chiamiamo morale, avremo perso di vista tutto.

Ecco perché alla fine ci sarà la polvere, ma come momento di resurrezione e di grande ritorno all’Essenza del tutto e all’Evidenza del tutto; sarà fantasia, sarà poesia, ma per me è bello pensare anche così, non sarà Verità non sarà realtà — chi lo sa? Non è una questione di fede per me, ma un’esigenza di pensiero logico. Non posso immaginare che una cosa sia iniziata e non finirà mai: anche l’Infinito non finisce se non alle spalle dell’Inizio.

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