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Cinema

Spazio: (pen)ultima frontiera

Lo spazio in SF: ecco un bel tema. Come se la nostra cultura e la nostra sensibilità non si fossero evolute nel tempo, elaborando, fra le altre cose, e comunque più o meno implicitamente, un’idea di spazio sempre in progress. Si pensi ad esempio a che cosa era lo spazio per l’immaginario fantascientifico cinquantesco e a quali cambiamenti quella nozione abbia subito nell’èra della virtualità mezzo secolo dopo.

Ma è proprio dai cambiamenti che una critica seria può e deve trarre spunto per analizzare non solo, fenomenologicamente, lo sviluppo di una cultura, ma anche e soprattutto le ragioni che a quei mutamenti hanno portato, ciò che questi svelano a chi intenda davvero vedere oltre la superficie dello schermo.

Incominciamo dunque rilevando che l’idea di spazio che il cinema americano ha coltivato negli anni eroici della SF cinematografica è di carattere sostanzialmente (o quantomeno potenzialmente) ostile, laddove in anni più recenti tale ostilità ha vieppiù trovato un contrappeso equilibratore in quelli che Gaston Bachelard chiama “espaces louangés” attribuendo loro un “valeur de protection” (caso lampante e addirittura archetipo: Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977, di Steven Spielberg). La storia della guerra fredda come origine ideologica del primo caso è stranota e non staremo a ripeterla. è tuttavia molto interessante ed indicativo che proprio negli anni in cui gli USA si apprestavano a fare i primi passi verso l’esplorazione dello spazio tale impresa venisse presentata filmicamente come un azzardo pieno di incognite e pericoli, e non come un tentativo di ampliare, insieme alle nostre conoscenze scientifiche e tecnologiche, anche quelle umane e morali. A me pare evidente che questo tipo di atteggiamento non possa trovare spiegazione unicamente nella guerra fredda in corso all’epoca e che invece esso affondi le sue radici nel modello storico della colonizzazione del continente nord-americano. Del resto, risale a quasi mezzo secolo fa — e specificamente, ad un saggio di Horace Gregory — l’idea che la SF spaziale ripropone il modello di fondo tipico del western, essendone sostanzialmente una rilettura in chiave futuribile: il pianeta sconosciuto pieno di mortali pericoli non è altro che la wilderness di sette e ottocentesca memoria, l’alieno infido è il pellerossa e lo spazio profondo nel suo insieme è un potenziale Eden dal quale è imperativo eliminare il serpente. Ma, come ci ricorda il classico Il pianeta proibito (1956) di Herbert Wilcox, il serpente in ultima analisi siamo noi, le nostre pulsioni più profonde, oscure, irrazionali.

E’ molto interessante, su questa strada, comparare SF e western. Non si tratta solo della questione ideologica dell’espansionismo colonialistico, ma anche di un problema socioculturale di enorme momento. Specificamente, la questione della Legge.

Il western è stato molto esplicito in questo senso: una pellicola come L’uomo che uccise Liberty Valance (1963) di John Ford è un vero manifesto riassuntivo nel quale l’eroe negativo titolare impersona il Mostro che ossessiona la wilderness e le impedisce di diventare il giardino terrestre che l’immaginario nazionale vorrebbe. Tom Doniphone è un Adamo forte, capace e onesto, ma soltanto l’arrivo dell’avvocato (cioè della Legge) permetterà all’Ovest quel salto di qualità che gli consentirà di entrare nel consorzio sociale, ovverosia lo stato federale.

Abbiamo corrispettivi di tutto questo nel cinema di SF? A parte il vecchio film di Wilcox, sembra proprio di no. O meglio, sì, se includiamo nel quadro una serie tv anomala come Star Trek, che non a caso ci fornisce una, magari discutibile, definizione dello spazio come “ultima frontiera”. Nell’insieme tuttavia il cinema di SF non sembra porre la questione della Legge, probabilmente perché esso presume che lo spazio profondo abbia già, nella potenzialmente infinita varietà delle sue razze, una serie di leggi, spesso ignote, barbare, assurde, ma pur sempre leggi. E dunque il confronto non potrà avvenire che in termini di valori: nei modi spesso pacifici e tolleranti che proprio Star Trek ci ha esemplificato, o in quelli del conflitto fra differenti e addirittura opposte civiltà e tecnologie spesso votate all’assimilazione e/o alla distruzione dell’altro.

In questo senso, come si diceva, la SF cinematografica ha mantenuto una sua aderenza alle radici storiche della nazione. Ma al tempo stesso ha incominciato a considerare lo spazio anche come qualcosa di diverso da un oscuro nido di mostri, bestiacce, serpenti, insettoni e tentacoli (valga per tutti l’ironicissimo e poco capito Starship Troopers,1999, di Paul Verhoeven, critica alquanto intelligente di questo superato modello) . Per far questo essa si è rivolta alla mitologia interrogando — letteralmente — il cielo. Sumeri e babilonesi erano famosi per le loro cabale stellari, e del resto è opinione comune che in cielo risieda l’essere supremo con o senza la corte che qualche religione ha creduto bene di appiccicargli. “Padre nostro che sei nei cieli” recita la più celebre preghiera occidentale: c’è da meravigliarsi se da quegli stessi cieli scendono alieni intelligentissimi e buonissimi sullo sfondo di una musica ieratica? Non saranno Dio, però ci si avvicinano. E comunque più di noi. Resta il problema che il libro più letto e meno verificato del mondo afferma che Dio ha fatto gli uomini (vale a dire, nell’ambito che qui ci compete: i terrestri) a sua immagine e somiglianza, laddove quegli esserini striminziti e anoressici non sembrano avere con Lui nulla a che fare, tranne il fatto di essergli alquanto vicini in bontà, amore, intelligenza.

La doppia natura dello spazio ormai è chiara: come ad ogni ignoto, possiamo attribuirgli i valori che vogliamo: esso esiste ed opera non secondo le leggi della scienza, ma dell’immaginario.

Se togliamo alla “seconda natura” che ho appena indicato la componente irrazionalistica, sacrale, misticheggiante, si vedrà bene come non solo”space lost its connection with achievement and power”, secondo quanto afferma Jodi Dean, ma anche che esso “came to be linked with passivity and the mundane”. In altre parole, se gli anni ’50 e ’60 vissero l’esaltazione dell’avventura e, per dirla con un titolo di Wright Morris che richiama alla mente ancora una volta l’Ovest e la frontiera, del “territory ahead”, gli anni ’90 quello spazio l’hanno rimpicciolito in molti sensi, soprattutto con l’acquisizione di una mitologia del Virtuale.

La domanda, ovviamente, non è tanto come, ma perché.

La dialettica dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo — così ben individuata da Martin Heidegger — che percorre l’intera cultura americana riassumendo ogni sua forma nella figura dell’iperbole si presenta come la radice dell’operazione. Come ci ricorda ancora Jodi Dean, negli anni ’60 “popular and news media used space imagery to symbolize progress and achievement”. Ma col tempo la precisione scientifica, l’enorme progresso tecnologico raggiunto dagli USA in questo campo smorzarono ogni tentazione di immaginario rendendo lo spazio e la sua esplorazione soltanto una questione di tempo, talché le visioni fredde e grandiose del paesaggio lunare o quelle calde e altrettanto grandiose di quello marziano diventarono un po’ come gli elementi mancanti nella tavola di Mendelejev: non ne era stata verificata empiricamente l’esistenza, ma si sapeva bene che da qualche parte erano, che un giorno si sarebbero potuti toccare con mano e che essi erano comunque già perfettamente descrivibili nelle loro caratteristiche. Lo spazio profondo, insomma, era già cosa nota. Persino l’immaginario sembrava avere operato in questo senso esemplificando le sorprese che attendevano i futuri astronauti, ma facendolo, tuttavia, in modo estremamente “economico”, dal momento che la stragrande maggioranza dei film di SF di quel periodo non mostra gli aggressivi e pericolosissimi alieni nel loro habitat, bensì nel nostro: alimentata dalla guerra fredda, la SF d’invasione dominava il campo. L’economia della scelta è evidente: il forte quoziente di sorpresa e paura veniva raddoppiato dal fatto che l’aggressività non si dispiegava nei confronti di un’ardita pattuglia di esploratori sperduta in qualche angolo della galassia, bensì ai danni di un intero pianeta e della sua razza dominante: gli umani. Il quoziente apocalittico del modello è altrettanto evidente ed è anch’esso una costante della cultura americana, come si può leggere negli studi di Ketterer, di May e di tanti altri critici, retaggio di una religiosità vetero-testamentaria notoriamente non poco coltivata dai Padri Fondatori del primo periodo coloniale e trasmessa, in forme opportune e adeguate, all’intero arco della letteratura americana, da Mark Twain a Thomas Pynchon.

Ma, come si diceva, quello spazio, tutto sommato inesplorato dal cinema cinquantesco, doveva presto divenire abitudine attraverso l’informazione di massa, appendice ai singoli passi compiuti nel tempo dalla tecnologia spaziale, instillando sorpresa e raccapriccio soltanto in occasione dei rari incidenti mortali come quello del Challenger, così ben studiato e interpretato, nella sua aura popolare, dalla Constance Penley di NASA/TREK. E davvero pionieristico in questo senso fu John Fitzgerald Kennedy quando nel 1961 affermò: “We go into space because whatever mankind must undertake, free men must fully share”, rifiutando da un lato la molla della curiosità scientifica che è alla base di ogni ricerca (achievement) e dall’altro le fin troppo ovvie motivazioni di carattere politico che a quel tempo stavano dietro la corsa allo spazio (power).

Gli anni ’60 tuttavia elaborarono un’idea di spazio che li distinse in modo netto dal decennio precedente. I mezzi di massa, infatti, e la televisione in primo luogo, stabilirono un’equazione fra spazio domestico e spazio profondo. Come ricorda Lynn Spigel in un suo illuminante articolo, si tratta di una connessione spesso sostenuta e pubblicizzata dai grandi rotocalchi (soprattutto Life) e dal piccolo schermo, che inondò il paese di quelle che la studiosa chiama fantastic family sit-coms. Secondo questa vera e propria ideologia lo spazio profondo era una sorta di diritto della famiglia media americana, il suo destino in un cronologicamente non meglio precisato futuro. Le immagini delle mogli degli astronauti nel loro habitat quotidiano divennero frequenti quanto e più di quelle dei loro ardimentosi consorti sulle pagine degli ebdomadari. Del resto, era stato nientemeno che Wernher von Braun ad affermare nel 1958 che “missile building is much like interior decorating”. E spiegava poi lo scienziato: “Once you decide to refurnish the living room you go shopping. But when you put it all together you may see in a flash it’s a mistake — the draperies don’t go with the slip covers. The same is true of missiles”. E aggiungeva undici anni dopo l’ingegnere della NASA John C. Houbolt: “A rendez-vous around the moon is like being in a living room”.

Se ricordiamo che a cavallo fra i ’50 e i ’60 il governo americano pubblicizzò non poco la questione dell’armamento spaziale onde distogliere l’attenzione del paese dalle avventure colonialiste armate che sarebbero presto sfociate nel disastro del Vietnam, il quadro dell’idea di spazio vigente in quegli anni che ci si presenta è molto chiaro nella sua pesante ideologizzazione.

D’altra parte, non dimentichiamo che proprio con la fine degli anni ’60 il cinema di SF americano sembra imboccare strade alquanto diverse da quelle “spaziali” tradizionali. Forte di una nascente sensibilità “verde” nell’intera nazione davanti alle catastrofi causate dal sempre più imponente sfruttamento delle più azzardate fonti naturali d’energia, la componente apocalittica della cultura statunitense prenderà infatti il sopravvento portando Hollywood a confezionare storie di ammonimento ecologico fondate sul pericolo dell’energia atomica combinata alle ragioni della politica: da 1975: occhi bianchi sul pianeta terra di Boris Sagal a 2022: i sopravvissuti di Richard Fleischer, il cinema americano degli anni ‘70 sembra avere dimenticato lo spazio profondo a vantaggio di problematiche alquanto concrete strettamente legate alla nostra permanenza su un pianeta ormai contaminato da fonti d’energia che sono sfuggite di mano all’apprendista stregone, oppure connesse a problemi tutt’altro che fantascientifici come quello della realisticamente non lontana carenza di cibo per l’intero pianeta.

Quali le ragioni di tale oscuramento della tematica spaziale? Certo quelle di cui si diceva più sopra, corroborate in quel periodo da un importante evidenza: quella dell’accertata superiorità americana rispetto alla ricerca sovietica. Un film particolarmente eloquente del profondo mutamento avvenuto in quest’ambito è Capricorn One (1978) di Peter Hyams, ovvero la storia della simulazione di una conquista spaziale. Simulazione che se da un lato poteva intendersi quale estremo espediente americano per rassicurare l’opinione pubblica in merito alla superiorità spaziale statunitense, dall’altro testimoniava bene del grado di secondarietà raggiunto dagli originari obiettivi del progetto NASA.

Non è un caso che proprio in quegli anni l’America, e con essa il mondo, assista all’endemica esplosione della scienza elettronica attraverso la diffusione del computer, primo passo verso una diversa nozione dominante di spazio che da tempo definiamo virtuale.

Ma prima di arrivarvi un ulteriore stadio attendeva lo sviluppo di questo genere cinematografico. Fu un po’ come se la SF spaziale desse un colpo di coda prima di lasciare il passo a forme nuove di immaginario. Anzi, all’epoca sembrò addirittura che il cinema di SF riprendesse il posto a suo tempo occupato e poi perduto, e lo riprendesse con tutti i crismi: non più modellini sciagurati e simulazioni dilettantesche, ma una tecnologia che permise un effetto di realtà mai visto sullo schermo sino ad allora. In Guerre stellari (1976) George Lucas fu il primo ad utilizzare la tecnologia digitale per rilanciare un genere — quello della SF spaziale — che sembrava ormai obsoleto, e così facendo pose le basi per la retorica iconografica e aurale della SF che ne sarebbe seguita. Sarà Lucas, tanto per dirne una, ad infrangere fantasiosamente una inoppugnabile verità scientifica, quella secondo cui nello spazio profondo il suono non si propaga. E sarà Lucas a stabilire la tacita convenzione per cui un’astronave è tanto più spettacolare quanto più “trapassa” lo schermo in direzione normale ad esso (cioè perpendicolarmente o, quantomeno obliquamente). Lo spazio degli anni ’50 era asettico e minacciosamente cupo; quello degli anni di Lucas non è soltanto, come vuole Paul Nathanson, “an open, empty, trackless desert waiting to be explored and colonized” (l’equazione fra Old West e Outer Space, dopotutto, funzionava anche nella SF degli anni ’50), ma assomiglia anche a un’autostrada senza limiti laterali nella quale gli stuntmen dell’universo si producono in prodezze da ritiro della patente. In altre parole lo spazio profondo stava diventando alquanto stretto, alla stessa stregua di quello che stava succedendo al corpo nel cinema fantastico e dell’orrore.

Non è affatto un caso che in anni recentissimi lo spazio profondo sia divenuto, nel cinema, teatro di esercitazioni invasive che sfiorano il grottesco e che certamente battono il versante dell’ironia. Film come Men in Black (1999) e Evolution (2001) di Ivan Reitman volgono in commedia l’originaria tragedia fantascientifica, ripetendo certosinamente il modello dell’invasione, ma, appunto, facendone poco più di una barzelletta. In fondo lo stesso si può dire di Mars Attacks! (1999) di Tim Burton, con la differenza che l’intelligenza del regista riesce a fare della pellicola una critica radicale a istituzioni politiche e agli stessi modelli tradizionali della SF d’invasione rilanciati poco prima dall’inutile Independence Day (1999) di Roland Emmerich.

Qualcosa doveva cambiare nel gigantesco vicolo cieco in cui il cinema (e con esso la nostra intera cultura) si era infilato, e fu allora che spazio e corpo divennero virtuali. Il che significa: si ricominciò daccapo un percorso di conoscenza nei confronti di un oggetto ignoto.

Osserviamo un qualunque film incentrato su questo tipo di spazio, da Tron (1982) di Steven Lisberger a Strage Days (1999) di Kathryn Bigelow: le linee formali hanno la sostanza del disegno, ogni materialità scompare, e quand’anche luci e colori contribuiscano a rendere ai luoghi una qualche concretezza la sensazione del percipiente bordeggia i confini dell’onirico. Ma, più importante ancora, è soprattutto l’organizzazione dello spazio che mostra enormi differenze rispetto al modello usuale. Il visitatore (ché sempre lo spazio virtuale esiste in quanto potenziale luogo di esplorazione) lo percorre e lo osserva come farebbe con i volumi di un relitto in fondo al mare: esso non è violato — o comunque occupato — come tante volte abbiamo visto in una magione da horror film. Vale a dire, lo spazio virtuale di norma non nasconde trappole mortali, orrori sorprendenti che attendono il visitatore: dietro quella porta non si cela un mostro, girato quell’angolo nessun fantasma è pronto a spaventare l’incauto avventuroso. E tuttavia, l’atmosfera che si respira (o meglio, che respira lo spettatore) è altamente tesa, la suspense molto forte. Perché mai? Se nulla è là in serbo per il protagonista — e per noi — tale da spaventarci, impressionarci, minacciarci, perché tanta tensione? Viene in mente Aristotele, che nella sua Poetica identifica la tragedia con la trepidazione che si prova nell’imminenza di una catastrofe (ma anche, bisogna aggiungere, con la “pietà”, che non può andare disgiunta da essa, nei confronti del protagonista tragico). Se il luogo non nasconde nulla che possa sorprenderci, da dove nasce dunque quella strana e forte sensazione di incertezza?

Credo che la risposta sia nelle immagini stesse, nel modo in cui il film — qualunque film — costruisce per noi lo spazio virtuale. Normalmente in soggettiva, il protagonista si muove in questo spazio altro, non troppo lento e non troppo veloce, stanza dopo stanza, parete dopo parete nell’evanescenza delle loro linee di contorno; ad ogni svolta un nuovo non-spazio, nuove organizzazione geometriche dello spazio da percorrere. è a quel punto che la mente dello spettatore si chiede in un lampo: qual è la planimetria dello spazio già percorso? In effetti l’evanescenza dei luoghi virtuali non può che lasciare nella memoria solo una debolissima traccia del percorso, comunque molto più debole di quella che riteniamo in mente nel visitare un luogo reale. In altre parole, l’esperienza dello spazio virtuale esiste unicamente nel momento in cui la facciamo, è un presente assoluto che nella nostra mente non ha un prima né un poi.

E allora domandiamoci: quale altro luogo partecipa di questa caratteristica? La risposta è una sola: il labirinto. Dunque, lo spazio virtuale è labirintico. E le conseguenze di questa sua natura sono alla base della nostra risposta emotiva ad esso.

In effetti, se teniamo a mente il valore simbolico del labirinto, tale risposta emotiva è del tutto comprensibile: il labirinto, ci dice Karoly Kerény sulla scorta del Kristensen, è il mondo degli inferi. E “la difficoltà del ritorno è una caratteristica del mondo dei morti”. Questo spiegherebbe bene perché, come dicevo, mano a mano che il protagonista si addentra nello spazio virtuale, cresce in noi una sensazione di trepidazione e timore indipendentemente dal fatto che noi sappiamo egli non vi incontrerà nulla di pauroso o di pericoloso (con l’eccezione del mito archetipo del labirinto cretese, il minotauro). La paura e il pericolo, infatti, non sono attributi di qualcosa che può essere nello spazio labirintico: essi lo sono dello spazio stesso in quanto simbolo del più grande oggetto di timore possibile, la morte.

Il simbolismo religioso di questa lettura non deve meravigliare. Come riferisce Nathanson, J. B. Jackson sostiene che “to the extent that anything associated with infinity is sacred, the frontier was sacred space”. E che cosa è più “associated with infinity” dello spazio profondo, il quale, come sappiamo bene, è a sua volta, molto trekkianamente, “the final frontier”?

Labirintico o meno, l’entrata in scena dello spazio virtuale comporta un’ulteriore riflessione, relativa alla ragione per cui, proprio alla vigilia della conquista dello spazio profondo la nostra cultura si è introflessa al punto da creare uno spazio fittizio e alternativo con cui foraggiare l’immaginario cinematografico (ed anche letterario). Lo spazio stava diventando troppo stretto, dicevo più sopra. Certo, ma solo perché, ancora una volta abbiamo preso l’immaginario per realtà. Come dice la Spigel, è vero che le nostre conoscenze dello spazio furono (e sono) unicamente affidate alla volgarizzazione televisiva; è vero, cioè, che in realtà dello spazio e di quanto si sta facendo per la sua conquista noi non sappiamo nulla e non siamo in grado di saperne nulla. Ma è altresì vero che, davanti a questa impossibilità, la carta dello spazio virtuale ci permette di eludere il problema creandone uno falso che assorbe pressoché l’intera attività del nostro immaginario fantascientifico. Soprattutto se la virtualità opera in modi ben noti ai modelli magici che presiedettero ad una gnoseologia prescientifica. In altre parole, è ben difficile sopprimere il fascino di credenze ancestrali che la nostra scienza ha reso obsolete, ma che per tanto tempo hanno fondato la nostra fantasia e i nostri stessi modi di conoscenza.

L’esempio più evidente e probante è nel Holodeck inaugurato dalla seconda serie televisiva di Star Trek, un luogo dove è possibile ricreare virtualmente gli ambienti e i personaggi più diversi ed anche veri e propri modelli narrativi con i quali interagire. Insomma, un gigantesco e pressoché illimitato ipertesto le cui potenzialità, spaziali e non, sono incalcolabili. Particolarmente interessante, in questo senso, è la qualità masturbatoria dell’invenzione: sul ponte ologrammi i singoli membri dell’equipaggio si recano per rilassarsi e distrarsi, soprattutto in momenti di particolare stress o turbolenza emotiva. In alcuni casi tale qualità masturbatoria cessa di essere simbolica e diventa pressoché letterale, come nel caso dell’ingegnere capo della sala macchine, Geordie, che sul ponte ologrammi ricrea un’immagine di un ingegnere donna, al momento in visita sull’Enterprise, molto più adeguata ai suoi appassionati sentimenti verso di lei, che fino a quel momento si è rivelata polemica e scostante.

Mi sembra alquanto interessante che le estreme propaggini della scienza e della tecnologia (tanto estreme da acquisire il proclitico FANTA) ci riconducano ai modelli magici e sostanzialmente mitologici di un’epistemologia arcaica. Non è la prima volta, come sappiamo e come da anni leggiamo, tanto per fare un nome, in Fritjof Capra. In fondo anche in una pellicola come Matrix (2000) dei fratelli Wachowsky, il cui spazio, a rigore, non coincide con quello della virtualità, la caduta delle barriere fra spazio e tempo grazie ancora una volta alla tecnologia elettronica, e che ricordano non poco le conclusioni dell’ipotesi einsteiniana, sono leggibili come una variante delle meraviglie spazio-temporali tramandateci da una ricchissima tradizione mitologica. Che lo spazio della fantascienza, viene da chiedersi, non sia altro che una vecchia storia (o una vecchia percezione) raccontata (o descritta) in forme nuove? Questo, fra l’altro, inficierebbe la tesi di Mark Poster e di altri, secondo cui il cyberspazio gioca un ruolo fondamentale nella costruzione di nuove narrazioni. Come che sia, mi sembra evidente la componente di marca calvinista sottesa a questa visione nella stretta relazione che essa instaura fra l’estremamente grande e l’estremamente piccolo (quei due formidabili poli ricordati da Heidegger entro i quali si muove da sempre la cultura americana), un “universo domestico”, per dirla con Claudio Gorlier, che riflette l’immensità dell’incommensurabile in un microchip entrando nel quale, dopotutto, gli unici a doversi considerare alieni siamo noi.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI


G. Bachelard, La poétique de l’espace, Paris, P.U.F., 1974.


H. Gregory, “Guns of the Roaring West”, in Avon Book of Modern Writing No. 2, New York, Avon, 1954.


J. Dean, Aliens in America. Conspiracy Cultures from Outerspace to Cyberspace, Ithaca-London, Cornell UP, 1998.


C. Penley, NASA/Trek: Popular Science and Sex in America, London, Verso, 1997.


L. Spigel, “From Domestic Space to Outer Space: The 1960s Fantastic Family Sit-Com”, in C. Penley, E. Lyon, L. Spigel and J. Bergstrom (eds.), Close Encounters. Film, Feminism and Science Fiction, Minneapolis-Oxford, University of Minnesota Press, 1991.


P. Nathanson, Over the Rainbow. “The Wizard of Oz” as a Secular Myth of America, Albany, State University of New York Press, 1991.


K. Kerény, Nel labirinto, Torino, Boringhieri, 1983.


M. Poster, “Postmodern Virtualities”, in A. Asa Berger, The Postmodern Presence. Readings on Postmodernism in American Culture and Society, Walnut Creek-London-New Dehli, AltaMira Press, 1998.

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