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Fumetto

Alessandro Di Nocera

I supereroi dopo l’11 settembre

Fabio Bonetti (FB): Siamo con Alessandro Di Nocera e Sergio Brancato a Romics. Si è concluso da poco l’incontro “I supereroi dopo l’11 settembre”. Chiediamo subito all’autore di Supereroi e superpoteri, libro uscito per Castelvecchi nel settembre 2000: come cambieranno i supereroi, come è stata percepita la catastrofe, e quali previsioni si possono ipotizzare per il futuro?

Alessandro Di Nocera (ADN): Certamente è ancora presto per fare una valutazione perché la tragedia delle torri è avvenuta l’11 settembre e adesso siamo alla fine di novembre. Quindi, dal punto di vista produttivo, non è ancora possibile un riscontro se si eccettuano delle storie come quella speciale dell’Uomo Ragno scritta dall’attuale sceneggiatore Michael Straczynski e di un albo commemorativo sempre prodotto dalla Marvel, Heroes, dedicato ai veri eroi delle torri come vengono percepiti dagli Americani, vale a dire i pompieri, i poliziotti, i dottori e gli infermieri che sono intervenuti per portare soccorso ai feriti e alle vittime.

Come cambieranno i supereroi? Ci sono vari scenari possibili: certamente il contesto è differente rispetto agli anni ’40 e agli anni ’50, dove c’era un nemico ben definibile. Era un mondo separato dai muri, era un mondo diviso in blocchi; c’erano i Russi, c’erano i Giapponesi, c’erano i Tedeschi negli anni ’40, quindi c’era un nemico percepibile, un nemico qualificabile. Adesso non c’è un nemico definito, e oltretutto viviamo in un mondo multietnico, multirazziale, per cui non è possibile indicare una razza, un popolo, un gruppo umano come responsabile di qualcosa. Per cui l’evoluzione del genere supereoistico dovrà tenere conto di questo cambiamento, di questa realtà diversa dalla realtà a blocchi dei decenni scorsi. Ci sarà a mio modo di vedere un rifiorire, rispetto a quello che sta già avvenendo oggi, del genere fantasy. Non per niente, se parliamo di cinema, eventi come Il signore degli anelli o Harry Potter capitano quasi “a fagiolo”, la gente ci si proietterà ancora di più a vederli. Il contesto fantasy avrà un suo sviluppo. In effetti, se pensiamo all’Uomo Ragno, il supereroe più newyorchese in assoluto, le storie sono dei veri e propri racconti fantasy. L’elemento realistico rientra nella vita privata dell’Uomo Ragno, però per quanto riguarda le battaglie, lo scontro fra il bene e il male, si entra in un contesto che non investe direttamente la realtà, quindi non vedo particolari difficoltà. Certamente il problema della definizione di cosa potrà avvenire a livello narrativo è non investe solo il genere supereroistico ma investe tutti i generi, perché in effetti qualsiasi genere e sceneggiatura si trova oggi in difficoltà nel dire cosa raccontare. Soprattutto per quanto riguarda l’action. Si vedrà.

FB: Professor Brancato, le rivolgo più o meno la stessa domanda anche alla luce di ciò che lei ha detto nel corso dell’incontro, relativamente al fatto che questa tragedia dell’11 settembre abbia portato al superamento di uno scarto semantico tra realtà ed immaginario: come cambia quindi il mondo dei supereroi ma anche come cambia l’immaginario in genere della cultura occidentale.

Sergio Brancato (SB): Io credo che questo evento sul piano simbolico sancisca il passaggio ad un nuovo ordine della realtà. Ci sarà cioè un nuovo modo della società contemporanea — delle società contemporanee — di rappresentare se stesse. Poiché, come ogni forma dell’immaginario, anche il dispositivo del supereroe è un modo attraverso cui le comunità e le società si autorappresentano, è evidente che anche questa forma comunicativa affronterà un processo di trasformazione anche probabilmente piuttosto profondo. Ha ragione Di Nocera: è troppo presto per dire che forma prenderanno queste rappresentazioni. Io posso azzardare l’ipotesi che probabilmente già nei prossimi mesi, dopo una fase di tipo reattivo — cioè la reazione e l’individuazione del nemico e dell’altro — il nostro modo di raccontare storie a fumetti di supereroi diventerà più riflettente della complessità della situazione che stiamo vivendo, perché appunto il mondo è cambiato. Il mondo cambierà ancora di più dopo l’evento dell’11 settembre soprattutto sul piano della produzione dei simboli, e probabilmente avremo storie in cui sarà difficilmente riproponibile l’immaginario del “cattivo”, l’immaginario del “totalmente altro”. Faremo invece i conti con quello che la cronaca ci sta proponendo oggi. Se noi pensiamo che oggi in America da un lato c’è questo immaginario della lotta contro il “supernemico”, Bin Laden, dall’altro c’è invece il problema del bioterrorismo, che sempre di più si identifica come la variabile impazzita ma interna al sistema americano, ci rendiamo conto di come anche sul piano della cronaca, e quindi poi anche sul piano della fiction, tutto questo proponga una realtà irriducibile all’idea che esista la luce e il buio, il buono e il cattivo, e sempre di più probabilmente i racconti della cultura di massa dovranno rappresentare una realtà in cui invece tutto ha contorni più sfumati, in cui tutto è compresente.

FB: Però in questo senso il fumetto ha dimostrato un’autoriflessività e una capacità di pensare ai propri schemi e ai propri luoghi in maniera piuttosto profonda, con quello che poi è stato in Italia si è configurato in una scuola, in una serie di approfondimenti già all’inizio degli anni ’90.

SB: Il fumetto è un medium che ha una serie di svantaggi rispetto ad altri: è più povero, è meno spettacolare. Ma ha anche una serie di vantaggi: è più flessibile, è più veloce, può mettere in scena tutto. C’è una battuta di un fumetto fondamentale degli anni ’80 che è Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons in cui un personaggio, Ozymandias, dice: “Il nostro tempo ha bisogno di un eroismo meno plateale”. Io direi che questo assioma fin dagli anni ’80 è stato coltivato dal fumetto non solo americano, e che oggi ci si riproponga come un buon punto di ripartenza per le strategie comunicative del medium.

Immagine articolo Fucine Mute

FB: Torniamo ad Alessandro. Io ricordo una parte del tuo libro in cui avevi approfondito la questione dei supereoi e della presenza delle minoranze sul territorio americano. Parlavi, se non sbaglio, di tentativi non sempre di successo, di difficile assimilazione. Come si è evoluta questa questione e come, alla luce della risposta precedente, le minoranze, le persone di colore, l’altro da sé rispetto al comune uomo americano si andrà a produrre?

ADN: Il problema dell’integrazione razziale nel fumetto americano è connesso all’epoca stessa in cui nasce il fumetto superoistico. Era ovvio che negli anni in cui nasceva il fumetto supereroistico, cioè la fine degli anni ‘30/inizio anni ‘40, il supereroe fosse un WASP, cioè un “White Anglo-Saxon Protestant”. Il problema dell’integrazione razziale, cioè di supereroi che avessero le loro radici in altri gruppi etnici, sorge negli anni ’60, e nemmeno avvertita in maniera critica da parte degli autori stessi. In effetti è semplicemente una mancanza che viene percepita adgli autori e che non avrà effetti fino agli anni ’70. Negli anni ’70 l’integrazione di supereroi di altre razze, se si eccettua Pantera Nera che è un discorso a sé, non avviene all’interno del fumetto. Cioè non sono gli autori del fumetto che si pongono il problema immediatamente. Il fumetto coglie delle manifestazioni che provengono da altri media. Per esempio, un personaggio come Luke Cage nasce dopo l’esplosione del fenomeno della cosiddetta blackxploitation. Il personaggio di Shang-Shi nasce dopo l’esplosione dei film di kung fu e quindi del divismo di Bruce Lee. Verso la fine degli anni ’70/inizio anni ’80 c’è il tentativo di creare la formazione degli X-Men che io definisco extraamericana, ovvero con soggetti provenienti da altre nazioni, in un tentativo che però non è diretto a manifestare un vero e proprio desiderio di integrazione, quanto piuttosto di aprirsi ad altri mercati, extrastatunitensi. Negli anni ’80 nemmeno ci sono state delle particolari innovazioni in tal senso. Addirittura abbiamo assistito, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, alla fondazione in seno alla DC Comics di una sottomarca, la Milestone, in cui c’erano solamente supereroi di colore. Un gruppo di testate prodotte da autori di colore dirette ad un pubblico non meglio definito di minoranze. Tentativo fortunatamente fallito, perché percepito dai lettori stessi come ridicolo.

Immagine articolo Fucine Mute

Per quanto riguarda per esempio le supereroine, passando invece al discorso sessuale, è molto raro trovarne di spessore. Fatte le dovute eccezioni, negli anni ’90 c’è stato il fenomeno delle “Batgirls”, che non ha fatto altro che sublimare le pulsioni sessuali degli adolescenti, ma non ha prodotto niente di concreto. Quindi da questo punto di vista a mio giudizio il fumetto supereroistico americano è ancora in una fase arretrata, fatte ovviamente le debite eccezioni con i debiti autori. Determinate tematiche non sono state affrontate in maniera adeguata, anche se certi personaggi, parliamo di Pantera Nera ad esempio, che ha una testata autonoma nell’ambito della linea Marvel Knights, hanno mostrato motivo di interesse. È una testata molto stimolante, molto interessante, però evidentemente o gli Americani danno per scontata l’integrazione — quindi non sentono il bisogno di approfondirla ulteriormente, oppure è un tema troppo delicato che va a toccare troppo il politicamente corretto per poter intervenire. Bisogna dire una cosa: gli Americani, poiché sono una società multietnica, tendono a settorializzare molto. Cioè i rapporti tra i vari gruppi umani che compongono la società americana sono basati molto sulla schematizzazione. Gli Italiani sono fatti così, gli uomini di colore sono fatti così, gli Ispano-americani sono fatti così, il Cinese è fatto così, il Giapponese è fatto così. Questo schematismo ricade anche nel fumetto. Non so se Sergio è d’accordo.

SB: Io concordo con questo tipo di osservazioni. Soprattutto sono d’accordo su un punto: noi tendiamo a guardare l’universo dei supereoi come ad un unicum, mentre invece è un universo assolutamente segmentato, sia sul piano spaziale che sul piano temporale. Ci sono state profonde trasformazioni nel corso degli anni, nel corso delle epoche, di questo dispositivo del racconto popolare, e quindi l’osservazione che noi possiamo fare su questi cambiamenti ci può dire molto. Ci può dire molto non solo da un punto di vista autoreferenziale, cioè interno al dispositivo del racconto popolare, ma addirittura in termini di comprensione della realtà sociale, che mi sembra una cosa molto interessante, e soprattutto l’uso più utile che possiamo fare di questa figura del supereroe.

FB: Lei prima ha citato Watchmen e la frase di Ozymandias. Nell’86 è uscito anche il Cavaliere Oscuro di Miller, in cui appunto è presente un episodio abbastanza emblematico visto a posteriori: l’abbattimento delle Torri Gemelle di Gotham City da parte di Harvey Dent con l’elicottero e le bombe. Altri episodi analoghi credo si possano ritrovare nel fumetto; uno di quelli poi riproposto durante la conferenza è quello di Authority, ovviamente più recente. Ma in generale il fumetto — che probabilmente sarebbe banale dire profetico — gioca con simboli alti, simboli forti, simboli di una società che probabilmente viene fortemente criticata.

SB: Infatti il racconto popolare è esattamente il luogo dove la società critica anche se stessa. Non è un caso che il primo genere forte della cultura popolare, che è il poliziesco, nasca in Inghilterra nel ‘700 attraverso la diffusione dei bollettini giudiziari, e dopo assume una forma letteraria; ma all’inizio si definisce proprio come consumo del crimine, consumo del delitto, consumo della contraddizione interna al contratto sociale. E quindi questa è una cosa che ci fa riflettere. Tra l’altro quando è avvenuta la catastrofe delle torri tutti hanno più o meno fatto collegamenti a film recenti o fumetti recenti. A me il primo collegamento che è venuto in mente è invece un film del 1933, King Kong, nella scena in cui alla fine del film King Kong scala l’Empire State Building, che allora era ancora il grattacielo più alto del mondo — adesso è tornato ad esserlo, purtroppo -; e quella secondo me è una scena dal valore simbolico straordinario perché intorno a questo simbolo della metropoli, della cultura contemporanea, del nuovo modello di organizzazione del lavoro e del capitale, intorno a questa struttura verticale del grattacielo noi abbiamo la scalata, e quindi la messa in pericolo di questa struttura, di questo simbolo, da parte di ciò che noi non riusciamo, attraverso il progetto del moderno, a controllare. Cioè l’istinto primigenio, l’incontrollabilità degli eventi, il caos… tutto ciò che esorbita dal progetto moderno dell’ordine sociale. È quello che è successo. È vero, Bin Laden può essere un’altra faccia del capitale, perché in effetti è così, però è anche vero che le sue strategie politiche — le sue o quelle di chi è realmente responsabile di questa cosa, perché su questo non abbiamo sicurezze — si fondano esattamente sulla negazione del progetto del moderno. E questo è un altro aspetto interessante che ci suggeriscono i supereroi, perché i supereroi sono sempre stati questo: la compresenza del futuribile e dell’attualissimo, dell’hic et nunc, e al contempo la deriva di narrazioni ancestrali, di ciò che è primitivo, di ciò che è incontrollabile, della bestia. Non è un caso che la maggior parte dei supereroi a fumetti abbia una matrice animistica e aderisca ad un codice zoomorfo. Pensiamo a Batman: è totemico, l’uomo-pipistrello, così come l’uomo-falco… Questa commistione che ha un sapore ancestrale, originario, del tutto premoderno, ci fornisce alcune indicazioni utili, di istruzioni per l’uso dei supereroi.

FB: Sei d’accordo o vuoi aggiungere qualcosa?

ADN: Devo dire che è un’analisi precisa e accorta. È una cosa che ho tentato di mettere in evidenza in Supereroi e superpoteri, nel capitolo dedicato al fumetto americano di supereroi negli anni ’60. La cosa interessante che metteva in evidenza Sergio è questa commistione tra una sedimentazione nell’immaginario proveniente anche da un passato ancestrale e questa proiezione dei supereroi verso il futuro, verso l’oltre. Questa è una cosa da tenere in considerazione peri futuri sviluppi del mondo dei supereroi e del mercato supereroistico.

Lessi un articolo, alcuni anni fa, sul supereroe e la “sindrome della casalinga”: il supereroe tende a ricreare l’ordine, e puntualmente viene sopraffatto dal caos. Un caos che lui riporta all’ordine e che subito viene riportato al caos. E questa tematica alla base della narrativa supereroistica ben si riallaccia alla dinamica ordine-caos che si è venuta a creare nella realtà con gli ultimi fatti di cronaca.

FB: Il fumetto e l’Accademia in Italia. Immagino ci sarebbe tantissimo da dire ed è infatti difficile formulare una domanda in questo senso. Da un certo punto di vista ci sono personalità che si muovono intorno a quest’ambito, che curano pubblicazioni, che proseguono lungo un certo filone di studi. Ma si può parlare di scuola, si può parlare di convergenze, o si tratta di spunti isolati che di volta in volta vengono recepiti in qualche modo?

SB: Si può parlare di più scuole espresse all’interno di diversi ambiti disciplinari che vanno dalla semiotica alla sociologia dei processi culturali fino alla storia dell’arte e alla stessa pedagogia, per esempio con Antonio Faeti, che è un pedagogo curiosamente illuminato, stando invece alla tendenza complessiva del campo pedagogico sui temi della comunicazione di massa.

Qualche anno fa mi è capitato di curare, per l’Istituto Italiano di Cultura a Parigi, una mostra sugli studi italiani di fumetto, e i Francesi, che pure hanno una produzione e un bacino di utenza molto più ampio del nostro, sono rimasti sorpresi dalla quantità, dall’articolazione e dalla ricchezza degli studi italiani sul medium disegnato. Questa è una curiosa contraddizione in realtà, perché invece in Italia abbiamo una cultura ufficiale e accademica estremamente ingessata che penalizza molto le forme della cultura popolare e della cultura di massa, e soprattutto della cultura ad alto gradiente tecnologico, come può essere il cinema, che soltanto di recente, e con gradi riserve, è stato integrato nel novero dei saperi, delle conoscenze, delle arti. Per non parlare del fumetto, che ancora oggi trova enormi difficoltà.

Perché succede questo? Perché in Italia purtroppo c’è un retaggio culturale, i residui ostili e ostici a scomparire di un certo idealismo crociano, e la stessa cultura di sinistra italiana ha aderito molto di più a Croce che a Gramsci per quanto riguarda i temi della cultura popolare. Il che è una enorme contraddizione, però è lo stato della nostra cultura. Negli ultimi anni direi che qualcosa sta cambiando, intorno ad alcune figure di studiosi innovativi ed interessanti: da Umberto Eco negli anni ’60, ad Alberto Abruzzese negli anni ’70 e a seguire, a tutta una serie di figure di allievi di questi maestri. Un allievo di Umberto Eco che ha una grande rilevanza negli studi italiani sul fumetto è Daniele Barbieri, sul versante della sociologia dei processi culturali un allievo importante di Alberto Abruzzese è Gino Frezza… C’è un insieme di nomi, di figure, che stanno rinnovando profondamente il rapporto tra il sapere istituzionale e queste forme della comunicazione. Io trovo che probabilmente che questo sia un processo destinato a continuare e che in futuro avremo contributi sempre più ricchi e sempre più laici, e spero che presto eviteremo invece di avere professori universitari come Vera Slepoj che consigliano ai genitori di non far guardare Sailor Moon ai loro figli perché altrimenti, stando la proposta di un forte modello femminile, i loro figli maschi potrebbero venire fuori omosessuali. Detto questo dall’allora presidente dell’Associazione Italiana degli Psicologi, un’affermazione di questo tipo si commenta da sé; è di una rozzezza culturale inammissibile e purtroppo è una delle opinioni prevalenti in questo Paese. Speriamo che al più presto sia possibile spostare l’ordine del dibattito su un piano più elevato.

FB: Per quanto riguarda i tuoi progetti di ricerca hai qualcosa in cantiere o stai proseguendo sulla strada del libro pubblicato per Castelvecchi?

ADN: Il campo della ricerca dei supereroi è vastissimo. L’unica cosa che mi piacerebbe fare sarebbe ampliare il discorso sugli anni’90, anche se il panorama non è vitale come quello dei decenni precedenti. Al momento attuale sono impegnato con la narrativa. Ho pubblicato un primo romanzo che ha avuto un ottimo riscontro critico, e proseguirò su quella linea pur mantenendo comunque un orizzonte di ricerca aperto sul fumetto. Per quanto riguarda il discorso accademico, bisogna dire che comunque, nonostante le arretratezze, un’apertura grazie anche a persone come Sergio c’è, e che dal punto di vista dell’analisi del fumetto e delle tematiche ad esso collegate passi avanti sono stati fatti. L’unica cosa che è ancora troppo presente è un eccessivo fanzinarismo nella critica fumettistica italiana e una scarsa preparazione dal punto di vista critico proprio degli addetti ai lavori. Nel momento in cui chi si trova all’interno si renderò conto che bisogna avere uno spessore culturale più ampio, come dimostra per esempio Alan Moore nelle sue interviste — che sono assolutamente staordinarie, ricche, complesse: non ho mai visto nessuno sceneggiatore italiano fare un’intervista di tale complessità — forse in quel momento la critica subirà un’evoluzione, farà un passo in avanti, e così il fumetto.

FB: Forse anche ricominciando, come sembra essere questa l’occasione, a restituire le fiere al fumetto.

ADN: Le fiere del fumetto sicuramente richiamano visitatori. I dati sono confortanti anche se mi sembrano lontani dai livelli di fine anni ’80 inizio anni ’90 quando perla prima volta partecipai alle mostre. Bisogna amalgamare di più le cose, rendendo ad esempio le conferenze più accessibili al pubblico. Un limite per esempio delle conferenze di Romics, sicuramente interessantissime, è il fatto che la Sala Conferenze fosse troppo slegata dagli stand e dalla parte più vissuta dell’intero contesto. Forse in questo modo, se si riuscirà ad integrare il momento del dibattito a quello della vendita, si assisterà ad una evoluzione della percezione del fumetto in genere.

FB: Professore, le giro le ultime riflessioni di Alessandro sui limiti della critica in Italia e sull’incapacità di professionalizzazione da parte degli operatori del fumetto.

SB: Io raccolgo l’istanza di Alessandro Di Nocera, anche se va detto che il problema della critica sul fumetto è un po’ in assoluto il problema della critica sui linguaggi della comunicazione e dell’arte in Italia. Molto spesso, se pensiamo alla critica cinematografica, sia sulla stampa quotidiana che in televisione, noi ci rendiamo conto che non esiste più una critica; esiste in qualche modo una promozione più o meno sotterranea di certi prodotti ai danni di altri, per esempio il prodotto italiano che viene molto protetto e sponsorizzato nel campo del cinema, spesso in maniera ingiustificata, perché si parla bene di film che sono veramente orrendi, in uno spirito — come definirlo? — patrio, di parte, di interesse. Bisognerebbe invece recuperare una attitudine più laica al confronto e al dibattito sulle cose. Bisognerebbe studiare di più, però sono molto spesso i critici — aveva ragione Alessandro — che istituzionalizzano l’ignoranza. E questo è un dato sicuramente pericoloso e negativo.

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