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Cinema

Il genio di Karel Thole

Nato il 20 aprile 1914 a Bussum, una cittadina a venti chilometri da Amsterdam, e morto a Cannobio, sul lago Maggiore, il 26 marzo 2000, Karel Thole si è trasferito in Italia tra il 1958 e il 1959 insieme alla moglie Lise e i figli Adrienne, Annemieke, Gertie e Ernst, quest’ultimo diventato un popolare attore comico e deceduto, purtroppo, nel 1988. Per venticinque anni Karel Thole ha disegnato le copertine di “Urania”, un sodalizio così felice da aver ispirato, nel tempo, la letteratura (il racconto di Michele Mari “Le copertine di Urania”, uscito nel volume Mondadori Tu, sanguinosa infanzia) e la saggistica (il volume a cura di Fruttero & Lucentini Manuale dell’ignoto, Mondadori, la più completa raccolta delle sue tavole a colori). Ma la vastissima opera di Thole inizia in Olanda, è bene ricordarlo, vent’anni prima del suo trasferimento in Italia. Discendente da una famiglia olandese e tedesca, Karel Thole si forma alla Scuola statale di Disegno dal vero del Rijksmuseum, ad Amsterdam; i suoi disegni degli anni Quaranta sono precise ricerche nel tempo, bozzetti editoriali e tentativi scenografici in bianco-nero di rara grazia ed eleganza. Thole si indirizza presto verso il mercato editoriale, che gli consente libertà e continuità di lavoro; se non è possibile visualizzare oggettivamente il passato o le scene eroiche dei classici letterari, è però possibile reinventarli, infonder loro nuova vita con il ritmo del tratto, ed è qui che interviene l’artista. La sua vocazione è a una rappresentazione alta, quindi a una poesia; quando, alla fine degli anni Cinquanta, Thole si trasferisce in Italia ed esegue le prime copertine per Rizzoli (illustra Guareschi, Campanile e altri “classici” italiani), i tempi sono maturi per una nuova evoluzione. Il mercato ha nuove esigenze, i processi di stampa in quadricromia si sono diffusi e commercializzati, il colore diventa un elemento preponderante.

Per giustificarlo, Thole inventa uno stile che gli si addica, citando dai maestri dell’astratto a quelli del surrealismo (Dalì, per esempio, uno dei suoi più affidabili referenti; Magritte, Max Ernst) con risultati personalissimi. Il grande disegnatore plastico altera le forme, le rende “molli” e dilatate, unisce la fantasia pittorica a quella puramente grafica; spunta così, in tutta la sua forza, la seconda anima tholiana:il visionario assoluto. Due anime, quella del disegno “vero “e dell’esercizio surreale, nient’affatto in contrasto, ma che si completano a vicenda: alla base di ogni pittore originale, probabilmente, vi è un disegnatore di genio. Date queste premesse, quando nel 1960-61 Anita Klinz, allora direttore artistico della Mondadori, gli affida per esperimento le copertine di “Urania”, sa di rivolgersi a un uomo dal bagaglio visuale ricchissimo e di formazione prettamente europea. Non c’è nulla, in lui, della sensualità da grande magazzino dei maestri illustratori americani né il loro compiacimento realistico, ma neppure l’eccessiva stilizzazione dei manifesti d’inizio secolo. Thole potrà anche lui dipingere manifesti, ma come Toulouse-Lautrec o come Dudovich. Come un successore, cioè, dei grandi pittori (del Novecento prima, poi dei classici) che ne assorbe le conquiste per intregrarle nel suo particolare universo grafico.

Le copertine di “Urania”, che rappresentano il campionario più vasto e anche più vario della sua opera recente (venticinque anni di creazioni, dal 1961 al 1986) si segnalano rispetto all’altro corpus fondamentale — quelle per l’editore di fantascienza Heyne Verlag di Monaco — per una maggiore alternanza di stili e per una più totale libertà rispetto ai testi illustrati. L’alternanza di stili è il vero pregio delle copertine di “Urania” negli anni dal 1960 al 1970, il suo periodo d ’oro, e tuttora lascia stupiti per inventiva e capacità di rinnovamento, nonostante l’urgenza ripetitiva del lavoro (una nuova tavola ogni sette giorni, poi ogni quattordici giorni). Se si guardano le copertine eseguite per un altro editore tedesco degli anni Settanta, Pabel, ci si accorge della necessità — per Thole — di uniformarsi a standard ancora più corrivi: fascicoli dal formato quadernone, venduti a pochi centesimi e con l’intento di offrire al pubblico delle edicole un’immagine feuilleton dell’orrore, con grassi mostri debordanti dalla pagina e ogni sorta di amenità truculente, al confronto delle quali le copertine horror di “Urania”, tutt’altro che infrequenti in quel periodo, sembrano opere d’avanguardia. Ma Thole risolve il problema da par suo: non essendogli possibile abbassarsi, introduce l’elemento dell’esagerazione consapevole, una straordinaria ironia plastica a base di rospi e topi divoratori che costituisce il suo opus orrifico più cospicuo, una specie di Gargantua et Pantagruel del Grand-Guignol che non deve nulla alle mode imperanti del momento, figurative o cinematografiche.

Per “Urania”, gli stili che si alternano sono diversi. C’è horror anche lì, cupo e con forti dominanti nere dovute alla carta di quel colore su cui Thole gratta con la tecnica dello scratch-board (ma è un horror più cerebrale, addirittura intellettuale, con le sue geometrie non-euclidee e i grappoli di occhi imbanditi su sfondi alieni); c’è la space opera, che a sua volta conta diversi sottogeneri visuali; c’è il bizzarro puro, in genere risolto con la citazione di un capolavoro pittorico del passato; c’è il dramma dell’ignoto, una specie di urlo senza voce di cui Thole è maestro; e c’è la comedy, sofisticata naturalmente, con elementi presi un po’ dalla pop-art e un po’ da Mary Quant, ma riassorbiti alla poetica dello “strano” che è la chiave di Thole. Cos’è strano?
L’atto di cogliere, senza stupore, qualcosa che è preciso e familiare, civilizzato e gentile, ma che sottintende l’ignoto. Con il termine di Freud, potremmo dire che il mondo di Thole sia Unheimlich: perturbante. Le figure femminili di Thole, sexy ma algide, si adeguano a questa poetica: sono una variante moderna della “belle dame sans merci”. Non dark ladies, quella parte negata e perciò espulsa dal cuore maschile, ma figlie dell’inquietudine, Anime da cui è impossibile prendere le distanze.
Thole non è molto interessato alla rappresentazione della tecnologia, neppure nelle copertine di fantascienza, ma ne sente il fascino: è l ’ambiente che lo interessa, la natura degli spazi finiti ma illimitati in cui la macchina predomina sull’uomo. Lo scenografo che è in Thole riprende il sopravvento: caverne d ’acciaio, precipizi di metallo, saloni a perdita d ’occhio in cui un elemento trascurabile, a volte quasi banale, ricorda paradossalmente un’altra vita, un altro tempo e rappresentano un contrasto culturale con l’ambiente. Fuori dei grandi uteri freddi, lo spazio.

A volte dipinto realisticamente in nero, più spesso virato in azzurro e addirittura in verde, è spaventosamente deserto o gravido di pianeti geometrici, pesanti. In Thole, lo spazio è una dimensione plastica ma astratta in cui si affrontano masse e forme minerali (mondi, asteroidi, sfere) e metalliche (astronavi, strutture, oggetti volanti).
Per reagire al senso di claustrofobia che viene dal metallo e dal cemento (terrestre o alieno poco importa), di tanto in tanto Thole si sbizzarrisce in lussureggianti, contorti, esotici paesaggi alieni. In alcuni non è possibile distinguere l’artifatto dal panorama, in altri il panorama è così agghiacciante che sarebbe meglio non averlo distinto affatto. In altri ancora l’habitat è umano, il luogo dev’essere la terra perché si distinguono particolari di ville georgiane e magioni gotiche americane, ma l ’Altrove si è mescolato inestricabilmente a quelle architetture, trasportando i misteri dei pianeti esterni in mezzo a noi. Gli abitanti di questi paesaggi cosmici (ambienti mai bucolici e incontaminati, ma sempre espressione di una cultura, e spesso di una cultura perversa), non sono semplici mostri come quelli che occhieggiavano dalle copertine Pabel.
Possono essere mostruosi, incidentalmente: ma è un ’altra cosa. Si tratta di nostri dissimili, come recitava il titolo di un vecchio numero di “Urania”: gente il cui corpo e la cui mente non sono soltanto una caricatura di quelli umani, ma un allontanamento da essi, una branca laterale e inaudita rispetto a ciò che siamo abituati a considerare norma. Chitinosi e mucillaginosi, con le antenne o le scaglie, ameboidi o peduncolati, hanno tutti in comune un tratto distintivo: la consapevolezza, l ’intelligenza e una cultura.

Gli extraterrestri di Thole non sono semplicemente mostri ma creatures , inumani nel senso in cui noi, a nostra volta, dobbiamo sembrarlo loro. Assolutamente non-antropomorfe, queste creature sono portatrici di loro pensieri, loro visioni del mondo e persino loro arti e religioni. C ’è da impazzire, a guardarle…Con un simile bagaglio creativo, c’è da chiedersi come abbia potuto Thole conciliare le proprie esigenze espressive con quelle di un’industria pressante e spesso poco discriminante com’è quella editoriale. Il fatto che ci sia indubbiamente riuscito è un’altra prova della sua arte: infatti il genio non è chi si diletta quando ne ha il ghiribizzo, ma chi si inserisce nella vena produttiva del suo tempo e, malgrado problemi e restrizioni, impone il proprio stile a quello della macchina organizzativa, riuscendo trionfalmente a farglielo accettare.

Questo testo proviene da Science+Fiction zerouno, catalogo del Festival Internazionale della Fantascienza 2001. E’ possibile ordinarne una copia facendo click qui.


 

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