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Musica

Louis Armstrong: suonare e cantare per il mondo (II)

Lucille, poi altro cinema e “Renaissance”.

Nel maggio del 1940 Louis prende parte ad una seduta di registrazione insieme ai migliori esponenti del jazz tradizionale: molto successo e molte vendite. Ma siamo anche in pieno periodo di guerra, e nel ‘42 si ha un lungo sciopero del settore discografico, per cui il Ministero della Difesa si trasforma in produttore dei famosi “V-Discs”, i dischi per la Vittoria, con tanta musica ad uso esclusivo delle truppe americane. Questi dischi diventeranno degli oggetti da collezione, a guerra finita.

Sempre in quel periodo la rivista “Esquire” organizza un grande concerto di jazz al Metropolitan Opera House di New York, e Armstrong ne è il protagonista principale. È sempre molto impegnato, e fa anche, fra altro, delle registrazioni: una di queste lo vede accanto al quartetto vocale dei famosi Mills Brothers. Poi molti viaggi in Florida, Alabama, Georgia e Canada: successo ovunque.

È anche un periodo felice per la sua vita privata: il 10 ottobre del 1942 la sua convivenza con la bella Lucille Wilson diventa un regolare matrimonio. Lei è una vera compagna per Louis, capace di comprenderlo, essere sempre presente e accettare i sacrifici connessi alla vicinanza di un simile personaggio. Scelgono una residenza a New York, nella zona di Corona, Queens. E non la lasceranno più: un vero approdo sereno per 1’esistenza intensa e vagabonda di Satchmo. Ogni tanto, quando viaggi e tournées lo permettono, lui sosta sereno lungo la scala in mattoni di casa sua, circondato da ragazzini entusiasti di sentire un suo mini — concerto improvvisato per divertirli. Non avrà mai figli, ma quei negretti attorno a lui sulla scala saranno anche un po’ suoi e di Lucille.

Lo spirito di revival che sostiene il jazz di quegli anni non lascia indifferente lo “Show Business” del cinema. E questa volta si tratta di “New Orleans”, un film diretto da Arthur Lubin nel 1946, che giunge in Italia l’anno dopo col titolo “La città del jazz”, e che vorrebbe raccontare in un’ora e mezza la genesi e la storia di quella musica, con la chiusura del quartiere di Storyville nella città del Delta e l’esodo dei musicisti a Chicago. Il tutto su una traccia insignificante d’amore contrastato e vincente, riservata come d’obbligo ai vari interpreti di pelle bianca. Louis è il solito mago della tromba, sempre cordiale e bonario con tutti, e ha con sé la grande Billie Holiday, splendida interprete di blues.

Suona con Kid Ory, Barney Bigard, Zutty Singleton e qualche altra figura leggendaria del loro jazz. Come prevedibile, la Holiday ha la parte di domestica del “divo” protagonista, che non vale la pena di citare… Ma se esiste un Santo protettore del Jazz, ha permesso che Louis possa suonare un “West End Blues” che vale tutto il film e che la splendida Billie canti al pianoforte uno dei suoi blues più toccanti, “Do You know what it means to miss New Orleans?” (Sai cosa vuol dire avere nostalgia di New Orleans?). Un breve e necessario ricordo spetta a questa voce del jazz e alla sua triste vicenda umana: nel 1958 un gruppo di pochi ammiratori aveva potuto ascoltarla al teatrino Gerolamo di Milano (l’unico disponibile!) in un suo concerto esclusivo, un anno prima della sua fine di quarantenne infelice. La chiamavamo affettuosamente “Lady Day”. Questo film, “La città del Jazz”, è la sua unica apparizione sullo schermo: molto indovinata la definizione del giornalista Gian Mario Maletto: “grande jazz in una storia terribilmente fiacca…”.

Ancora cinema nel 1948, col film “A Song is Born” diretto da Howard Hawks, titolo italiano “Venere e il professore”. Si tratta del “remake” in chiave musicale di una pellicola dello stesso Hawks, “Ball of Fire” del 1941 (da noi “Colpo di fulmine”) nel quale uno studioso dei linguaggi, cioè Gary Cooper, conduceva una ricerca sul gergo della malavita: e di tutti i suoi reperti il più interessante risultava una Barbara Stanwyck deliziosamente sboccata. Del tutto scontato l’epilogo.

Nella versione in musica l’oggetto della ricerca scientifica è il jazz. Lo scienziato comicamente impacciato è Danny Kaye, la ragazza è Virginia Mayo. Lo staff sonoro comprende Armstrong, Lionel Hampton, Tommy Dorsey e Benny Goodman (quest’ultimo nel ruolo d’uno degli scienziati del gruppo). Il film è divertente, con tanta musica. Tuttavia sembra che Hawks non abbia mai troppo amato questo suo auto — remake, se in un’intervista dice: “È un film da poco, ne ho ricavato solo una bella sorpresa quando l’ho girato, ed è il fatto che Satchmo e io siamo diventati ottimi amici”.

Mentre è impegnato a Hollywood, Louis viene raggiunto da Joe Glaser, il manager fidato e fervido di progetti. È convinto che l’epoca delle grandi orchestre di jazz stia declinando: sono formazioni molto costose e non attirano più il pubblico, salvo poche eccezioni. Vanno meglio i piccoli gruppi, più facili nelle trasferte e con molte prospettive di tournées anche verso l’Europa, dove i jazzmen che si potevano solo ascoltare sui dischi vengono ormai applauditi di persona. È in vista una rinascita mondiale di tutto il Jazz e Armstrong ne sarà un suo attivo protagonista.


“Louis Armstrong All Stars”

Dopo il 1947 e per oltre un decennio, l’attività di Louis si fa ancora più intensa, con tanti viaggi per il mondo avendo la sua musica come passaporto, e molti eccellenti solisti che si alternano nei suoi complessi. Joe Glaser ha subito preparato una selezione di musicisti idonei a suonare in una piccola formazione, e come al solito Armstrong ha la più completa fiducia nell’iniziativa. Nell’intervallo fra la lavorazione dei due film “con jazz” di cui abbiamo già detto, si può allestire un concerto alla Town Hall di New York con il nuovo gruppo. Sono tutti personaggi di primo piano: il trombonista bianco Jack Teagarden, il clarinettista Barney Bigard, il bassista Arwell Shaw, il pianista Dick Cary che sarà poi sostituito da Earl Hines.

Poco tempo dopo si aggiungerà una cantante, Velma Middleton, piuttosto invadente come personalità e come corporatura, con una sua tendenza a esibizioni buffe durante i concerti. Malgrado ciò, il sodalizio fra Louis e alcuni dei suoi solisti si fa molto stretto, soprattutto con Jack Teagarden che oltre a suonare magistralmente il trombone, si esibisce in memorabili duetti vocali e strumentali con lo stesso Armstrong.

La formazione ha un nome che è tutto un programma, “The Louis Armstrong All Stars”.

La fama di “Satchmo” è in continuo aumento, e questo suo complesso formatosi nel ’47 raccoglie consensi ovunque. Non si creda, però, che il gruppo messo insieme da Glaser abbia una particolare stabilità nel suo organico: l’elenco degli arrivi e partenze è piuttosto affollato. Vi sono tuttavia delle regole fisse, secondo una logica alla quale Louis si attiene con tutta la precisione possibile. Ogni brano viene presentato secondo il classico stile di New Orleans, ma modernizzato e quasi rigenerato al momento dell’esecuzione. C’è sempre, tuttavia, la tradizionale apertura con i tre “fiati” (tromba, clarinetto, trombone) che espongono il motivo — base alternandosi con scioltezza: è la tradizionale “front line”. E il pianoforte (prezioso l’apporto di Earl Hines), sostenuto dai ritmi della batteria e del contrabbasso costruisce lo sfondo e i raccordi.

Secondo questo schema qualunque motivo, da quelli storici di New Orleans fino ad altri più moderni, assume una freschezza e un’originalità veramente di grande portata. “Non è il pezzo ciò che conta, è la maniera di suonarlo”, questa la grande regola.

Purtroppo la permanenza del grande Hines al pianoforte delle “All Stars” durerà solo qualche anno. Altri impegni e una certa discordanza di opinioni con Joe Glaser determineranno il suo addio al gruppo. Earl Hines sarà sempre un insostituibile, e il suo “trumpet style” dei tempi d’oro resterà solo un bel ricordo. Gli succederanno altri pianisti di decorosa routine.

Anche Jack Teagarden lascia successivamente il complesso, e gli succede Trummy Young, un trombonista valido ma un po’ troppo estroverso. E Louis, lo sappiamo, gli permette ogni tanto qualche stacco da entertainer, come tributo esclusivo agli spettatori di gusto facile.

Nel 1948 gli All Stars vengono per la prima volta in Europa. L’accoglienza è entusiastica: in Svezia, a un loro concerto, sono presenti migliaia di persone. Nello stesso anno c’è a Nizza il primo Festival del Jazz, e il sestetto è presente in una delle sue migliori edizioni. è un nuovo successo: forse per la prima volta si crea fra gli esecutori e gli spettatori un rapporto di reciproco entusiasmo, come Armstrong aveva sempre sognato.

Il puntualissimo Glaser ha preso nota di questo eccellente esito, e si affretta ad organizzare finita la tournée europea, una breve trasferta del suo amministrato nella città natale. Il sindaco di New Orleans in persona, dopo una trionfale sfilata per quelle strade piene di ricordi, gli consegna una speciale onorificenza riservata ai concittadini neri di grande fama. Siamo nel marzo 1949, e lo storico “Mardi Gras” del Carnevale è tutto per l’ex ragazzino che chiamavano Dippermouth, bocca a mestolo…


A Milano e a Roma.

Dopo la visita — lampo del 1935 a Torino, fatta durante un suo soggiorno a Parigi, Armstrong non era più tornato in Italia. Ma questo 1949 è un anno di viaggi: subito dopo la sua consacrazione a cittadino eminente di New Orleans è già di ritorno in Europa, pieno di impegni. Uno di questi impegni ci riguarda particolarmente e lo descrive con tanta simpatia un giornalista milanese, Arrigo Polillo, in “Stasera Jazz”, uno dei molti suoi scritti dedicati a questa musica prediletta e ai suoi esponenti.

Polillo è stato il fondatore, con Giancarlo Testoni, del primo circolo di Jazz a Milano (ed era il 1936, in tempi poco raccomandabili), e ha pure diretto per molti anni una insostituibile rivista,”Musica Jazz”. È scomparso da poco, rimpianto da chiunque amasse quella musica e quella rivista.

Ma torniamo ad Armstrong e al suo arrivo all’aeroporto della Malpensa il 21 ottobre del 1949. Lo accoglie un gruppo di giovani osannanti ed entusiasti, e la stessa cosa accade a Roma poco tempo dopo: qui viene addirittura creata per l’occasione una “Roman New Orleans Jazz Band” con la benedizione del Mito calato dal cielo a Ciampino. E regala loro per buona misura, un assolo di tromba nello stesso aeroporto.

A Milano si ricordano i suoi concerti di quei giorni al teatro Odeon. Polillo e Testoni vanno a intervistarlo una sera nella sua abituale tenuta di riposo dopo l’esibizione, mutande e canottiera con un gran fazzoletto attorno alla testa sudata. Lo trovano molto preciso nelle risposte: dichiara perentoriamente per esempio, che i requisiti d’un buon jazzman devono essere “A good time, imagination, and sense of rhythm ..”

È anche esigente e severo con i suoi suonatori: Polillo coglie, sorpreso, un discorso di rimprovero a Earl Hines e Barney Bigard (due colossi fra le sue All Stars) per qualche battuta a suo parere appena fuori tempo.

Armstrong tornerà ancora altre volte, tre in tutto, e sarà ogni volta accolto con entusiasmo. Ne riparleremo.

Una breve appendice “italiana” di poca importanza, ma utile per dimostrare la popolarità di Louis anche fra la gente del nostro cinema: nel 1960 esce un film, decisamente minore, di Mario Soldati dal titolo “Botta e risposta” che è la sigla di una popolare trasmissione televisiva di quegli anni. Si tratta d’una commediola vivacizzata da una moltitudine di attori dello spettacolo leggero: Rascel, Taranto, la Osiris, Dapporto, e anche Fernandel con tanti altri. Naturalmente non mancano i numeri musicali, e due di questi, cosa rarissima da noi, sono affidati a grandi personalità “nere” del jazz: Armstrong ed Ella Fitzgerald. A quanto ci risulta, è un caso unico nel nostro cinema, ancora più unico se pensiamo che ci viene offerto dal regista di “Piccolo mondo antico”…

“Ambassador Satch”

Louis torna in America con un felice ricordo dei suoi giovani amici italiani e delle loro accoglienze. Ne parla nelle interviste, e in una occasione dichiara che quei ragazzi della improvvisata “Band” romana lo hanno fatto ringiovanire di parecchi anni.

Prosegue subito la sua attività. Una casa discografica pubblica una raccolta dei suoi concerti europei sotto un titolo che gli sarà sempre molto gradito: “Ambassador Satch”, e intanto si impegna in continui viaggi negli States, e poi ancora in Europa e in Oriente. Nel ‘54 realizza in Giappone una tournée di grande successo, ma il suo ricordo più intenso, dopo le giornate italiane, è legato a un suo concerto al Royal Festival Hall di Londra, dove Laurence Olivier gli rende omaggio in pubblico e dove suonano con lui dei solisti di musica classica. L’anno precedente, del resto, si è già esibito a Chicago nell’esecuzione di un “St. Louis Blues” piuttosto elaborato, sotto la direzione di Leonard Bernstein, un musicista sempre favorevole ad accogliere anche il linguaggio del jazz.

In Europa torna ancora più volte, specialmente in Francia, sollecitato dal suo amico Hugues Panassi‚ uno dei più convinti sostenitori del jazz tradizionale. In Italia è accolto con il massimo entusiasmo da una “Milan Jazz College Society” e da una “Original Lambro Jazz Band”, ovviamente milanesi: sono due complessi giovanili sulle orme di quello romano. I suoi gruppi di suonatori, gli “All Stars” vengono frequentemente rimaneggiati, come abbiamo già visto, ma il successo non viene mai meno.

Va detto, in realtà, che nelle sue esecuzioni Armstrong ha cominciato a concedere spazio a qualche trovata da “entertainer”, sua o di qualche compagno compresa l’ineffabile Velma Middleton, più pittoresca che brava.

Lo si può constatare nelle sue successive tournée italiane del 1955 e ’59 che però continuano a esercitare un clamoroso e costante richiamo di pubblico.

È sufficiente che Louis si presenti sul palcoscenico davanti ai suoi solisti con il tradizionale saluto “Good evening everybody!”, la tromba nella mano destra, il fazzolettone bianco nella sinistra dando inizio ad un motivo qualsiasi, e piovono gli applausi.

Il cinema non può ignorare a lungo un simile personaggio di grande richiamo per il pubblico, ed ecco Louis impegnato in altre produzioni di Hollywood. Il primo film di questa serie è del l954, “The Glenn Miller Story” del regista Anthony Mann, noto confezionatone di “Western”. Qui siamo invece nel settore della biografia romantico — musicale dedicata per l’occasione a Glenn Miller, specialista del trombone e conduttore d’una formazione “Swing” molto originale, interpretato da James Stewart alle prese con questo particolare strumento dalla lunga “coulisse” scorrevole.

Miller era morto tragicamente in un volo di guerra tra Parigi e Londra: da ciò l’inevitabile sfondo patetico del film, sull’ aria dei suoi delicati e famosi motivi: chi non ricorda “In the Mood” e “Moonlight Serenade”. Armstrong è presente con una delle solite apparizioni “in persona” a fianco di Gene Krupa, un innovativo suonatore di batteria.

Il secondo film, del ‘56, è “High Society” di Charles Walters. Il soggetto deriva da un’altra pellicola, “Philadelphia Story”, una bella commedia con un trio di attori che si chiamano Hepburn, Stewart e Grant, girata da Cukor nel ‘40. Questo “remake” con la sua “Alta società” in chiave di musica impegna un altro bel trio: Grace Kelly, Bing Crosby e Sinatra, al quale si aggiunge Armstrong, sempre “Guest Star” ma con un particolare impegno anche da parte dei suoi solisti. Commedia brillante, ambiente di quattrini e ville, con Satchmo che suona alcuni motivi, fra cui quello del titolo, durante un festoso arrivo di tutta la sua “band” in automobile, a invadere i saloni dei miliardari.

A questi due film è opportuno aggiungere due interessanti documentari nella filmografia di Armstrong. “Satchmo the Great” è un film — verità di circa un’ora che illustra una sua tournée in Africa, Europa e America, mentre l’altro, “Jazz on a Summer Day” è una ripresa del Jazz Festival di Newport 1958, con Louis in primo piano. Altri documentari lo hanno ripreso nell’ultimo decennio della sua attività soprattutto in televisione, ma è impossibile ricordarli tutti.


Un libro, una nascita doppia, e ancora film.

Un altro importante successo di Armstrong negli anni 50 non riguarda i concerti e neppure il cinema: è un evento editoriale, un volume dal titolo “Satchmo, my Life in New Orleans”. Si tratta di una sua deliziosa autobiografia nella quale, con un linguaggio semplice ma vivace ci parla dei suoi anni verdi nella città natale dal 1900 fino al 1922, epoca del suo trasferimento a Chicago su richiamo del maestro King Oliver. Il libro ha un esito enorme e si susseguono le edizioni, compresa quella italiana da Garzanti del ‘56.

A proposito della nascita di Louis è indispensabile una precisazione: la sua autobiografia si apre esattamente con la frase: “When I was born in 1900…”. Perciò risulta nato nel primo anno del secolo, precisamente il 4 di luglio, giorno della festa nazionale. E tutte le altre biografie dei vari autori gli fanno seguito con questa data fino alla metà degli anni ‘80, quando un certo prof. Tad Jones riesce a scoprire che nella chiesa del Sacro Cuore di New Orleans esiste un certificato di battesimo sicuramente autentico dal quale risulta che Louis Armstrong è nato il 4 agosto del 1901, quasi un anno dopo. Ne deriva una decisione quasi salomonica per i recenti festeggiamenti del centenario, che si potranno prolungare dal luglio 2000 all’agosto 2001, una specie di “Festa Mobile” alla Hemingway.

In ogni caso, il 4 agosto 2001, giorno della nascita garantita, è stato celebrato a New Orleans con amichevole solennità, come sarebbe di certo piaciuto a lui. Banchetto e discorsi al Palm Court Jazz Club, apertura d’un settore dedicato ad Armstrong nel Museo Statale della Louisiana, e l’aeroporto di New Orleans ribattezzato, il 4 agosto stesso, come “L. Armstrong New Orleans International Airport”. A tutto ciò fanno seguito conferenze, testimonianze e rievocazioni che si prolungano ancora.

Chiudiamo la parentesi anagrafica, e continuiamo con il cinema: altri due film, rispettivamente del ‘59 e ‘61. Nel 1959 il regista Melville Shavelson dirige una delle consuete biografie musical — romanzate tanto in voga a quel tempo: “The Five Pennies” (I cinque Penny) con Danny Kaye, ancora lui, nella parte di Ted Nichols, un trombettista bianco realmente esistito che aveva cominciato con Paul Whiteman per suonare poi in molte orchestre del genere “Swing” : solita storia famigliare patetica, ma anche una bella carrellata di jazzisti famosi, come Bob Crosby, un capo — orchestra fratello del cantante Bing, e poi il violinista Joe Venuti e tanti altri insieme a Louis, che non solo è presente in persona ma, naturalmente, suona. Però il suono della tromba di Red Nichols — Danny Kaye non è suo, ma è “doppiato” su motivi dello stesso Nichols, esecutore.

Nel 1961 c’è “Paris Blues”, film di Martin Ritt. Ancora cose sentimentali, è logico, ma in tutt’altro ambiente e con attori più validi e impegnati. Due giovani jazzisti, uno bianco (Paul Newman) e uno nero (Sidney Poitier) nella Parigi degli anni folli, “Caves” e St. Germain compresi, vivono una storia d’amore con due turiste loro connazionali americane (una bianca e una nera, come d’obbligo). Il soggetto è convenzionale ma con interpreti eccellenti, e soprattutto c’è un lungo “break” tutto affidato a Satchmo, che improvvisa una “Jam Session”, cioè una vertiginosa sequenza musicale con tanti suonatori d’ogni strumento che insieme a lui creano un memorabile pezzo da antologia del jazz.

In un intervallo nella lavorazione dei due film c’è una parentesi in Italia: Louis è invitato da Giancarlo Menotti al Festival di Spoleto. Vi giunge alquanto affaticato, e la sera stessa del suo arrivo ha un collasso.

Lo portano in una clinica di Roma, dove viene messa in evidenza una broncopolmonite con enfisema polmonare, e supera bene la malattia, riuscendo anche a scherzare con Menotti che è venuto a trovarlo. Poi torna subito in America con l’indicazione di due mesi di riposo, ma appena ristabilito riprende cinema, viaggi e concerti, ancora instancabile.

Fra il 1960 e il ’63 partecipa all’annuale Festival di Newport: altri successi. E nel settore discografico, merita ricordare la sua unica collaborazione con Duke Ellington in ben dieci selezioni registrate in studio. Questi due grandi del jazz resteranno sempre legati da una salda amicizia, pur rappresentando nel mondo della musica due punti di vista molto differenti. Il ricordo di questo loro rapporto è tutto in una frase che Ellington dirà dieci anni dopo, con la scomparsa dell’amico: “Se mai qualcuno sarà degno di essere chiamato “Mister Jazz”, questo è Louis Armstrong”.

Un’esperienza negativa. Ma poi c’è “Hello Dolly”.

Ormai gli impegni di Satchmo si devono seguire con l’aiuto d’un mappamondo, anche se lui ha promesso a Lucille di fermarsi un poco di più nella loro casa di New York. Il 1963 è uno degli anni più movimentati: Nuova Zelanda, Corea, Giappone, Hawaii… E non ha molto riposo neppure l’anno seguente: si porta dietro un motivo — sigla, “Hello Dolly” da una commedia musicale di Broadway che darà poi il titolo al suo ultimo e più famoso film. In un successivo viaggio di ritorno a New Orleans dopo sedici anni di assenza, gli consegnano le chiavi della città e riceve tante manifestazioni di affetto.

L’organico dei suoi “All Stars” richiede frequenti modifiche, parecchi elementi muoiono o si ritirano, come il prezioso Jack Teagarden, e la resa artistica del gruppo non è più quella di una volta. Ma il successo non viene meno. Nel ‘67, al Festival francese di Juan-les-Pins è affaticato, ma continua il suo impegno, e non di rado è con lui il suo medico personale.

Gli viene imposto un periodo di riposo di quasi un anno al quale, come sempre, si adatta controvoglia. Durante un breve ricovero per controlli, viene a trovarlo l’ex moglie Lil Hardin, e lui le dice, con affettuosa ironia: “Il vecchio Joe Oliver mi vuole con sé in Cielo, ma dovrà ancora aspettare”.

Il riposo, le cure e le attenzioni della brava Lucille gli permettono comunque una buona ripresa, e può ancora compiere altri viaggi.

Nel 1968 c’è un altro episodio italiano, forse il più penoso fra le sue tante belle esibizioni. È invitato a Sanremo per il Festival della Canzone, il meno compatibile col suo stile e la sua musica, senza che gli venga spiegato di cosa mai si tratta. Canta un motivo piuttosto brutto, in un italiano approssimativo di cui non capisce il senso, e viene poi allontanato riluttante, perché crede che il suo numero preveda anche un bis. Una desolazione. Alla redazione della nostra “Musica Jazz” di Polillo, giungono messaggi accorati per lui: “Caro vecchio Satchmo, non lo dovevi fare! “.

Fortunatamente, Sanremo è presto dimenticata. Le sue tournée proseguono in pieno successo, ce n’è una nell’Europa dell’Est molto applaudita, e tutto va per il meglio. Ora Louis introduce nelle sue esibizioni molto più canto, il suo canto inconfondibile e unico di sempre, con meno assoli allo strumento. E alcuni motivi si collocano direttamente nel suo libro d’oro: in America è in testa alle vendite dei dischi una canzone che farà il giro del mondo: “What a Wonderful World”. La gente la conosce ancora ai nostri giorni.

In questo 1968 pieno di eventi viene anche iniziata la lavorazione di “Hello, Dolly” , un musical nel quale Armstrong avrà una presenza particolarmente simpatica. Il film esce nel 1969 e ha un regista il cui nome vuol già dire “Musical”: Gene Kelly, che qui è per la quinta volta nella sua carriera in funzione di regista, dietro e non davanti alla macchina da presa. Il soggetto deriva dalla commedia musicale presentata a Broadway nel ‘64 e ha per interpreti Barbra Streisand e Walter Matthau.

Louis ha al solito la sua parte gioviale e musicale di sempre, ed è veramente singolare l’accostamento della sua voce a quella squillante della Streisand nel presentare il famoso motivo — base del titolo, in una ricchissima coreografia affollata di camerieri in frac, belle donne, colore e musica.

“Hello Dolly, well, Hello Dolly, it’s so nice to have you back where you belong”. Il congedo di Armstrong dal cinema non poteva essere migliore di così.

Nel settembre ‘68 è ricoverato per altri controlli al Beth Israel Hospital di New York: ancora precise indicazioni di riposo da parte dei medici. Non lascerà più gli Stati Uniti: il suo rifugio è sempre la casa di Corona, Queens, accanto a Lucille. Passa molte ore ad ascoltare tutte le sue vecchie registrazioni, ripassando soprattutto quelle dei tempi d’oro degli “Hot Seven”. Tutta la storia della sua vita è concentrata nei motivi che gli vengono da quei dischi e quei nastri.


Verso la conclusione.

Nel giugno del 1969 muore improvvisamente il suo manager Joe Glaser: e un altro punto di riferimento che se ne va per sempre. Intanto lui si è rimesso discretamente, ed è molto richiesto dalla televisione, dove appare ancora in piena forma: le sue risate, la sua gioia di vivere, i suoi fazzolettoni bianchi danno un senso di sicurezza a un pubblico americano scosso dalla disastrosa guerra del Vietnam. Le sue esibizioni sono ormai quasi tutte televisive: sulla scena appare di rado, e tanto meno con la tromba, fortemente osteggiata dai medici.

In compenso può cantare senza impedimenti il suo “It’s a Wonderful World” e talvolta anche “We Shall Overcome”, inno dei giovani contestatori, o ancora qualcuno degli splendidi motivi che aveva registrato molti anni prima con l’insuperabile Ella Fitzgerald, uno dei più felici duetti mai sentiti. Poi c’è anche una specie di autobiografia musicale, “Boy from New Orleans” e infine il suo ultimo disco, interamente cantato, “Louis & His Friends”. La morte di Joe Glaser e quella di parecchi grandi nomi del jazz come Coleman Hawkins lo colpiscono nel morale. Ma non si sottrae alle sollecitazioni che gli giungono da ogni parte per il suo settantesimo compleanno: un concerto organizzato per lui allo Shrine Auditorium di Los Angeles, e una settimana dopo, un “Salute to Satch” al festival annuale di Newport, al quale parteciperà per l’ultima volta. Poi c’è Ellington, che compone un ritratto in musica di Louis includendolo nella sua “New Orleans Suite”. E non può mancare una commovente apparizione in televisione col vecchio amico Bing Crosby.

La scrupolosa moglie Lucille è costretta a dire al dott. Zucker, il medico personale di Louis che lo tallona costantemente: “Dottore, quest’uomo non ha mai imparato a riposarsi”. In marzo è al Waldorf Astoria di New York con l’ultima formazione dei suoi “All Stars”, tutta di solisti poco conosciuti. Partecipa al concerto molto limitatamente, e solo con la voce. È la sua ultima prestazione nel mondo del jazz.

Il 6 luglio 1971, Louis Armstrong detto Satchmo, esce di scena per sempre. Si spegne nel sonno, alle cinque del riattino, per un aggravamento della situazione cardiorespiratoria.

Al funerale c’erano proprio tutti: Duke Ellington, Benny Goodman, Dizzy Gillespie, le cantanti Ella Fitzgerald e Peggy Lee. E l’elenco può continuare senza fine. La bara venne portata al Flushing Cemetery di NewYork, nella sua zona di Corona. Sulla pietra tombale, Lucille vuole una semplice scritta: “Louis Armstrong, Satchmo”.

All’atto della sepoltura, Peggy Lee canta “When the Saints Go Marchin’ In”, quella che lui aveva suonato tante volte con la banda per accompagnare i morti della sua New Orleans.

Nell’estate di questo 2001 si è celebrato ovunque il centenario della nascita e anche in Italia gli sono stati dedicati rievocazioni e concerti.

Merita segnalare a fine luglio, quello di Sanremo, che è stato anche una involontaria ammenda alla sua infelice esibizione del 1968. Ha suonato una “Jazz Ambassador Big Band” con Dave Brubeck, e ha cantato la nostra brava Rossana Casale, per ricordarci le “regine” del passato che si erano esibite con Louis. C’era anche Paolo Conte.

Armstrong, cinema e canzoni.

Qualche appunto per finire. Nei tanti film ai quali ha preso parte, Armstrong si è quasi sempre presentato “as himself”, di persona, assieme al suo gruppo di suonatori oppure come ameno trombettista di jazz da inserire in qualche modo nelle sceneggiature. In “New Orleans”, film del 1947 che vorrebbe introdurre una specie di breve storia del jazz in una qualsiasi vicenda sentimentale che risulta del tutto estranea, Armstrong dirige il suo complesso chiamandosi “Sambo”, un nomignolo che sembra quello di un negro da operetta.

Questo suo impiego esiguo e riduttivo ha irritato i critici e gli ammiratori sinceri. Al  cinema, Louis ha sempre svolto il suo ruolo con impegno e buon gusto: si può allora pensare che la sua personalità solare abbia messo in imbarazzo molti possibili registi e produttori che non si sono mai sentiti di dargli la parte che forse meritava. Non tutti sanno, ad esempio, che nel 1940 una casa di produzione aveva rifiutato a Orson Welles un progetto per un film su e con Armstrong.

Louis ha anche avuto qualche buon regista, ma il suo modo di fare musica e di cantare, assieme al suo spiccato senso del comico, finivano sempre per frenarlo o inquadrarlo nei ranghi del divertimento facile.

E cosi si è consolidata la figura di un Satchmo “entertainer” come lo abbiamo visto quasi sempre al cinema secondo uno schema fisso: un pezzo cantato, poi un incisivo assolo di tromba (con sudore e fazzolettone inclusi) e la conclusione con un sonoro “Oh Yes!” rituale.

Ho avuto la sorte di vedere, a suo tempo a Milano, qualche sua personale esibizione, e posso assicurare che questo suo schema fisso era costantemente la motivazione per battimani senza fine e per i classici fischi all’americana, da parte di un pubblico in adorazione.

Qualche studioso ha voluto analizzare a fondo il suo modo di cantare, e anche le scelte musicali che ha fatto nel corso della sua carriera. Non dimentichiamoci che aveva cominciato ad avere una specie di pubblico all’età di otto anni, cantando prima in chiesa e poi agli angoli delle strade di New Orleans con i suoi coetanei, nel povero ma spiritoso quartetto dei “Singing Fools”, e che aveva imparato poi le basi della musica da ospite d’una casa di correzione per adolescenti. Quando a ventitré anni era entrato nell’orchestra di “King” Joe Oliver a Chicago aveva cominciato a far sentire la sua voce, previa autorizzazione del Maestro, al quale era piaciuto molto quel tono come di ghiaia, inconfondibile. Il bravo Joe Oliver gli aveva insegnato non solo a fare un uso quasi strumentale della voce, ma anche ad alternarla sapientemente con il suono della tromba. E anche in seguito, a New York, superata la perplessità del direttore d’orchestra Fletcher Henderson, aveva reso famosa la canzone “Everybody-Loves My baby” con quella sua immancabile caduta di ghiaia…

E il periodo, vedi caso, era proprio quello in cui nelle orchestre trionfavano i “crooners”, cioè i cantanti dalla voce morbida e suadente, primo fra tutti l’insuperabile Bing Crosby: avrebbero anche cantato insieme tanti anni dopo.

Col passare del tempo la voce di Louis si fa un po’ più “soft” anche lei. è presente in quasi tutte le sue esecuzioni, fin dal momento degli “Hot Five”, e poi al cinema e nei concerti, insuperabile nel creare un appoggio a tutti i suoi grandi strumentisti, e ancora più valida con quelli magari un po’ meno eccellenti.

Ho già accennato alla splendida serie discografica di “Ella & Louis” dove lui e la Fitzgerald ci consegnano tutti i brani più belli dei famosi compositori americani, con l’esecuzione vocale e, naturalmente, l’assolo finale della tromba.

Infine, quando le condizioni respiratorie gli vietano ormai l’uso dello strumento, lui continuerà ancora a cantare. Ed era sempre un piacere incomparabile sentire questa sua voce più lieve, meno incisiva, ma sempre tanto cara: la voce di Satchmo Armstrong, quello con la bocca a mestolo…

Immagine articolo Fucine Mute

Negli anni ormai lontani in cui la nostra vita di liceali aveva come sfondo musicale le brutte canzoni del Regime, qualche modesto sollievo ci veniva anche dall’EIAR, la radio di- stato, con le orchestre di Angelini e Barzizza.
Insieme alle inevitabili sdolcinature d’epoca ci giungeva, specialmente di sera, qualche lontana eco di musiche “diverse”, per esempio con le tre sorelle Lescano che erano, e non lo sapevamo, una specie di clonazione delle Andrew Sisters americane. Oppure, a sorpresa, e anche questo non lo sapevamo, qualche accenno di jazz, che l’Ente radiofonico presentava come “musica da ballo”: e talvolta affioravano delle orchestrazioni abbastanza originali, ispirate alle grandi “Band” d’oltreoceano, quelle di Tommy Dorsey o di Benny Goodman.
Un’altra fonte di consolazione erano i nostri compagni di scuola più danarosi, quelli “che avevano i dischi”, cose pregiate d’importazione, magari clandestine, con le voci di Bing Crosby e di Dinah Shore (Sinatra e Doris Day sarebbero arrivati dopo).
Poi altre orchestre e altri complessi: ci incantava la straordinaria bravura, per esempio, del quintetto dell'”Hot Club de France” dal quale imparavamo che si poteva fare di una chitarra uno strumento del Jazz: bastava che la suonasse Django Reinhardt, il gitano.
Il Jazz: non ne sapevamo gran che, di questa musica viva e così affascinante, finché non cominciammo a sentire dai dischi una tromba, suonata con incredibile destrezza: e il motivo veniva ripreso, dopo l’assolo dello strumento, da una voce rauca, in un perfetto accordo con il piccolo complesso di suonatori. Era Louis Armstrong con i suoi strumentisti, gli “Hot five” e poi gli “Hot Seven”. Era jazz d’alta classe, una rivelazione per noi.
Eravamo anche riusciti a mettere insieme un concerto, non proprio di jazz, è ovvio, in un liceo della città, con l’aiuto del caro amico Rinaldo, che non c’è più. E un nostro compagno, ottimo pianista, aveva suonato “Rhapsody in blue” di Gershwin: un miracolo di bravura per lui, e di rischiosa trasparenza filo-americana per noi organizzatori: tempi eroici…
La tromba e la voce di Armstrong ci fecero compagnia per decenni, fino al 1971 della sua scomparsa. Poi il cinema e la televisione ce lo riportarono sovente, e cantava “What a Wonderful World” per il suo mondo meraviglioso di artista indimenticabile.


Bibliografia


I titoli contrassegnati dal simbolo contengono anche fonti iconografiche


Jean-Marie Leduc & Christine Mulard, Louis Armstrong, Ed. du Seuil, Paris novembre 1994


Louis Armstrong, Satchmo, My Life in New Orleans, The Harborough Publishing, London 1957

 Arrigo Polillo, Jazz, Ed. Mondadori, Milano 1975

Arrigo Polillo, Stasera Jazz, Ed. Mondadori, Milano 1978

Albert McCarthy, Kings of Jazz, Louis Armstrong, Ed. Ricordi, Milano 1961

Vittorio Franchini, L’era dello Swing, Piccola Biblioteca Ricordi, Milano 1960

Walter Mauro, Louis Armstrong, il re del Jazz, Ed. Rusconi, Milano 1979

Walter Mauro, Jazz e universo negro, Milano 1972

Joachim Ernst Berendt, Il nuovo libro del Jazz, Ed. Sansoni, Firenze 1960


Hugues Panassié, Louis Armstrong, Nouvelles Editions Latines, Paris 1970



Articoli su quotidiani e periodici:


Vittorio Franchini, E’ morto Armstrong, re del Jazz, le tappe del suo successo, Corriere della Sera, 7 luglio 1971

Franco Occhiuzzi, L’America piange Armstrong, Corriere della Sera, 7 luglio 1971

Carlo Laurenzi, Musica nella notte, Corriere della Sera, 7 luglio 1971

Paolo Benzi e Paolo Di Gennaro (a cura di), Jazz Film Festival, Milano 1977

Gian Mario Maletto, Il jazz nel cinema, una lunga conquista, in Jazz Film Festival, Milano 1977

Gino Castaldo, Satchmo, la rivoluzione ha le guance gonfie, Repubblica, 5 luglio 2001

Riccardo Romani, Armstrong, il centenario, Corriere della Sera, 30 luglio ’01

Vittorio Franchini, Il ricordo, Corriere della Sera, 30 luglio 2001

Marco Fiocchi, Da New York a New Orleans sulle tracce di Armstrong, La Stampa, 4 agosto 2001

Mario Priolo, La mia banda suona il Jazz, La Stampa, 23 giugno 2001

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