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Scrittura

Palazzeschi ed il teatro

Le tracce di teatro fatto, visto e scritto da Aldo Palazzeschi si ritrovano un po’ come filo conduttore di tutta la sua esistenza: da passione adolescenziale ad elaborazione matura, il mondo teatrale gli appartiene, sia vincolando certe sue scelte poetiche, sia stimolando certi suoi esperimenti letterari.

Dopo anni di intensa frequentazione teatrale, nel giovane Palazzeschi scatta l’esigenza di cimentarsi nella professione di attore. Dopo essersi diplomato ragioniere nel 1902, Palazzeschi inizia a frequentare la Reale Scuola di Recitazione “Tommaso Salvini” in via Laura 68, a Firenze: a dirigerla c’è Luigi Rasi e tra gli allievi troviamo Gabriellino D’Annunzio e Marino Moretti, che diventerà suo grande amico.

Nel 1905, parallelamente alla pubblicazione, a sue spese, della prima raccolta di poesie — I cavalli bianchi — Palazzeschi continua a seguire i corsi di recitazione e si trova ad affrontare anche le prime prove d’attore.

A dir la verità, il suo esordio come attore si era avuto, dopo solo due mesi dall’ammissione alla scuola di recitazione, con una commedia di Goldoni, Il Ventaglio, da cui gli derivò, per aver impersonato il Baron del Cedro, il soprannome Baronetto.

“Ero così imbevuto di palcoscenico e di commedie che salirvi e recitare fu una cosa sola”: è questo il commento a tanti anni di distanza di Palazzeschi, che ebbe l’onore di avere tra gli spettatori, seduto in prima fila, anche Tommaso Salvini, titolare e patrono della scuola. Ma l’esperienza folgorante di quel periodo fu sicuramente la conoscenza della Duse, venuta inaspettatamente a sentir recitare gli allievi del Rasi.

Duse a parte, dopo due anni passati come assiduo spettatore e quasi il doppio come aspirante attore, Palazzeschi lascia aperta la porta a qualche dubbio: come l’amico Moretti si dice convinto che “nascere attori è qualcosa di più che nascere poeti”.

Palazzeschi sembra vedere nel teatro un’esperienza di tramite, di passaggio per “accedere” alla poesia. Certamente, l’assidua partecipazione agli eventi teatrali come spettatore prima, e la possibilità di cimentarsi come attore poi, hanno costituito per lo scrittore un patrimonio importante, che si è integrato con l’esperienza “di strada”.

In età senile, riconoscendo un certo debito con l’esperienza extra scolastica, fatta di giri in città e assiduità teatrale, Palazzeschi dichiarava: “Il teatro fu la mia scuola e tutto quello che ho imparato è dal teatro che l’ho imparato” .

La breve esperienza di teatro rimase sullo sfondo entrando talora nella tessitura della poesia e della narrativa. Basta ricordare l’enorme quantità di dialoghi e di battute di carattere esplicitamente teatrale sparsi nella produzione giovanile e in quella della maturità. Esse formano un tessuto connettivo di tale entità da farci sospettare che una parte almeno del suo spirito sia rimasta legata al giuoco drammatico, al piacere della battuta, tipico delle inclinazioni della prima giovinezza.

La lingua “teatralizzata” di Palazzeschi

Merita soffermarsi sulla “intrinseca teatralità” di certa produzione palazzeschiana, a prescindere dal rapporto di Palazzeschi col teatro.

In molti hanno infatti individuato nelle sue poesie delle caratteristiche che le rendono in qualche modo “teatrali”. All’interno della prima produzione poetica di Palazzeschi si ritrovano sia espedienti formali sia quelli linguistici che rivelano infatti una forte tendenza all’aspetto colloquiale, quasi “fisico” della parola nelle poesie palazzeschiane: un elemento che si lega fortemente alla dinamica teatrale. Non solo la struttura testuale, ma anche il tipo di scelte linguistiche operate da Palazzeschi sembrano suggerire una vocazione teatrale.

Ma quali sono gli elementi che rendono possibile definire in qualche modo “teatrale” questa prima produzione poetica di Palazzeschi? È possibile trovare delle componenti stilistiche, linguistiche, tecnico formali che la caratterizzano in questo senso?

Palazzeschi, in molte delle sue poesie, opera un montaggio di due spazi: la parte dell’io scrittore e la parte “degli altri”. Questi due spazi si oppongono come l’ “io” e il “tu” ed esistono solo nella relazione con l’altro.

In molte poesie Palazzeschi vuole “allestire” una scena in cui il gioco avviene tra il poeta stesso — in prima persona — e ancora lo stesso, nascosto dietro una forma di terza persona.

E spesso l’incalzante ritmo dialettico suggerisce la presenza di un vero e proprio personaggio teatrale in azione.

Accanto a questo gioco di persone, si possono individuare degli elementi scenici della prospettiva palazzeschiana: nella profondità e nell’altezza, coordinate che inquadrano geometricamente il paesaggio rappresentato.

Accanto a profondità e altezza, da una rapida rassegna agli incipit dei componimenti palazzeschiani, possiamo senz’altro notare che è frequente una certa tendenza alla precisazione spaziale resa anche attraverso altre coordinate. L’elemento circolare ricorre infatti più volte. L’attenzione rivolta ad una precisa definizione spaziale mira a definire il contorno in cui poi andrà a svilupparsi l’azione, in cui si inseriranno i personaggi. L’indicazione spaziale che crea i presupposti per una messinscena — o che comunque offre degli spunti per una forte visualizzazione — è presente in numerosi componimenti palazzeschiani, anche nei più noti e storicamente famosi.

Il dialogo si ritrova in tanta parte della poesia di Palazzeschi: non solo come opposizione io/tu o io/egli, ma anche nella forma di dialogo circolare, inteso come più voci di una folla indeterminata, in cui il poeta sparisce come primo attore linguistico.

In alcuni casi sembra che Palazzeschi raccolga frammenti di discorso, usandoli come pezzi preformati di linguaggio. Questa sorta di espediente offre la possibilità di far parlare più voci del popolo, indefinite e quasi casuali: un plurilinguismo che chiama in causa anche uno spazio visivo in cui queste voci si sovrappongono, si espandono, si confrontano. E ancora, la semplice ripresa delle battute della gente, che si risolve in una serie di botta risposta, gli permette una sintetica e rapida rappresentazione corale.

Quando nelle poesie a parlare non interviene direttamente il poeta — o il suo alter ego — sulla scena compaiono dei personaggi, che in quanto tali vengono a ricoprire un ruolo. Il modo in cui vengono messi su un fondale già predisposto ha però la particolarità di non prevederne un’introduzione e una personalizzazione che vada oltre una semplice caratterizzazione.

Non bisogna dimenticare che questi sono gli anni delle avanguardie, delle teorie teatrali legate al nuovo ruolo del regista e dell’attore, della Supermarionetta di Gordon Craig e della Biomeccanica di Mejerchòl’d. La letteratura e il teatro sono fortemente coinvolti in dibattiti teorici: viene messo in discussione il rapporto tra testo scritto e opera rappresentata.

Inoltre si discute molto sull’importanza dell’attore, che secondo le teorie russe non è più il personaggio nell’accezione psicologica, ma è anche un “codice” della scena, che con il suo corpo e la sua voce fa parte di un insieme di codici. Un attore “multiuso”, quindi, che incarna un personaggio, fa da scenografia, costruisce col suo corpo lo spazio scenico. Tutto questo fa da preludio al costruttivismo e alla Biomeccanica: qui l’attore non deve immedesimarsi con la figura incarnata, deve anzi tenerla a distanza, indicandone il divario, insistendo sulla non coincidenza tra interprete e immagine scenica secondo quel modo di recitare che Brecht chiamerà più tardi “straniamento”.

Il clima culturale che darà origine a tutto questo coinvolge, anche se forse non direttamente, Palazzeschi: certamente, i contatti coi crepuscolari prima e coi futuristi poi hanno inciso su certe sue scelte.

Battute ed epiteti pronunciati in presa diretta svelano la loro radice teatrale: il processo di spettacolarizzazione avviato da Palazzeschi ha lo scopo di “alleggerire” il testo, avvicinandolo nello stesso tempo ad una resa orale.

Palazzeschi gioca con il linguaggio, non tanto con il contenuto, quanto con la forma. Ama sgretolare radicalmente le strutture narrative, liriche e descrittive del discorso tradizionale. E per lui il segno linguistico non è più il segno saussuriano, unità di significante e di significato.

Posto infatti che normalmente nel linguaggio poetico il significato globale del messaggio è affidato non solo al significato delle parole, ma anche al significante, possiamo constatare che questo in Palazzeschi vale più che mai. Anzi, il rapporto significante — significato, convenzionale nella lingua comune, qui si rinnova, si ri-costituisce: ogni elemento del significante si semantizza. L’attenzione è dunque spostata quasi interamente sul piano del significante, inteso come quell’insieme di elementi ritmici, fonico — timbrici e morfosintattici.

Smontato il linguaggio, Palazzeschi gioca coi fonemi e lavora sui significanti puri e astratti.

Una certa inclinazione alle forme della ripetizione è una caratteristica che si ritrova comune a molti crepuscolari, in rapporto alla riduzione lessicale. Così come l’iterazione e l’uso dei ritornelli concorrono alla funzione di sliricamento, che è ottenuta a livello sintattico contravvenendo alle regole dello stile tradizionale.

Accanto allo sforzo di sostituire il descrittivo col dialogato e il rappresentativo, in Palazzeschi c’è quindi la ricerca di questi effetti onomatopeici, talvolta anche elementari. Si veda ad esempio il ritornello con cui ripete lungo tutta la poesia Comare Coletta il passo zoppicante della vecchia:

(…) Saltella e balletta

Comare Coletta!

Saltella e balletta!…(…)

Palazzeschi ha un forte senso del ritmo, quasi un istinto: con insolita spontaneità distribuisce nel verso le sedi dell’accentazione in modo da ottenere un certo accompagnamento musicale e una certa vibrazione sonora. Il poeta collega le parole al ritmo, regolando la lunghezza dei versi che sono uniti spesso tra loro solo da vaghe assonanze.

In Palazzeschi si trova anche la scomposizione della parola nelle sue parti significanti e la conseguente ricerca di sonorità. Il discorso linguistico si disgrega, si desemantizza. Sicuramente i frequenti contatti con i futuristi hanno sviluppato una certa tendenza alla comunicazione spettacolare, posto sempre che si tratti di comunicazione!

Immagine articolo Fucine MuteLa ripetizione ossessiva e la punteggiatura organizzata in tal modo conferiscono al testo un ritmo preciso, che rinvia quasi alla ciclicità di un rito. Il legame tra questo e il teatro è fin troppo noto nel suo valore antropologico.

In conclusione, si può notare come, accanto a una scelta di linguaggio volta verso forme colloquiali e dialettali, Palazzeschi affianchi nelle sue poesie una sapiente resa fonica delle parole, alla scoperta proprio del gusto della “fisicità” del parlato.

All’inizio della sua carriera letteraria con “i cavalli bianchi”, Palazzeschi aderisce al futurismo fiorentino e collabora con la rivista “lacerba ” ma, contrario ad ogni forma di interventismo bellico, se ne distacca ben presto pur conservandone i tratti polemici e moderni. La fase giovanile poetica da i suoi risultati più interessanti in una serie di testi beffardi, sarcastici di gusto surrealista, tra la filastrocca carica di volontarie ripetizioni e il deliberato non senso, dove l’artista si diverte ad articolare suoni inesistenti (“lasciatemi divertire”), a creare un fiabesco illusionistito ( “rio bo “) o atteggiarsi a saltimbanco incendiario (“chi sono? “, “l’incendiario “). La stessa poetica del grottesco si trova in “controdolore ” dove Palazzeschi scrive esplicitamente, coltivando una sfrenata allegria anche a contatto con i temi più gravi e severi: “Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello per cui si piange. Bisogna educare i nostri figli al riso più smodato, più insolente”. Questo è il motto dei “romanzi straordinari” (tra cui “il codice di Perelà “) che sconvolge le platee borghesi e fa dell’autore un vero e proprio precursore dell’ironia calviniana, anticipandone la leggerezza e l’arguzia. Se il ritorno all’ordine riduce l’anarchia stilistica dei suoi testi, la sua penna non rinuncia affatto ai toni crepuscolari e agli atteggiamenti eversivi ed iconoclastici.

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