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Cinema

Jan Cvitkovič

Regista per caso

Intervista a Jan Cvitkovic regista di “Kruh in mleko”, vincitore del Leone d’Oro del futuro a Venezia 2001, ospite di Filmakers, manifestazione ospitata presso il cinema Ariston di Trieste, a cura dell’Agis.

Ivan Bormann (IB): Sembra che tu sia diventato più famoso per la tua t-shirt con la falce ed il martello con cui hai ritirato il premio a Venezia, che per il tuo film… Cosa vuoi dire a questo proposito?

Jan Cvitkovic JC: Niente di particolarmente significativo. Quando sono arrivato a Venezia avevo quella maglietta addosso, eravamo un po’ in ritardo, e io volevo farmi un bagno in hotel, ma proprio mentr ero nella vasca hanno cominciato a chiamarmi perché mi volevano assieme a loro nella sfilata. Ho cominciato ad innervosirmi per l’insistenza delle richieste reiterate e allora mi son detto: “va bene, ma a questo punto non mi cambio, vengo così come sono”, proprio con la stessa maglietta che indossavo prima. Solo perché mi piaceva, è un bel simbolo. Questo è tutto, non c’era alcuna connotazione politica in questo mio gesto.

IB: Nessun atteggiamento nostalgico per la Jugoslavia di un tempo in qualche modo, in relazione alla disgregazione degli ultimi anni?

JC: Non proprio, era solo una ragione estetica, mi piace quel simbolo, ma forse c’è un minimo di nostalgia, sai quando lo vedi quel simbolo ti ricorda la tua infanzia e ci sei in qualche modo legato.

IB: Che relazione c’è tra la piccola tragedia familiare raccontata nel tuo film e la tragedia più grande della disgregazione di una nazione?

JC: Io non pensavo propriamente alla tragedia storico-politica mentre giravo il film, assolutamente no. Ero concentrato sulla famiglia, sulla relazione tra l’uomo e la donna, tra il figlio ed il padre e tra la madre ed il figlio. Ma forse c’è qualche collegamento, perché soprattutto per quanto concerne la figura del padre, è capitato spesso durante gli anni novanta, direi in tutti i paesi in transizione, che quando un uomo ha perso il lavoro, ha in qualche modo perso anche l’orientamento, non più abituato ad un nuovo sistema in cui regna imperante il denaro e in oggettiva difficoltà a “nuotare in queste acque”.
Io ho conosciuto molti casi dove il capo-famiglia ha perso il lavoro e non riuscendo a trovarne un altro, e quando questo è accaduto a volte gli altri membri della famiglia hanno perso gradualmente il rispetto nei suoi confronti; pur non essendo un fatto intenzionale, non lo si è più visto come quella figura chiave di riferiemnto per tutta la famiglia che ci si aspettava dovesse essere. Credo sia nella natura umana. E forse parte di tutto questo è presente nel mio film, perché il padre non nuota affatto bene nelle nuove acque, ha solo un lavoro part-time, ecc…

Immagine articolo Fucine Mute

IB: Nella tua famiglia, intendo quella del film, c’è uno strano rapporto tra generazioni: non c’è il solito scontro generazionale cui siamo abituati, sembra piuttosto che le due generazioni s’incontrino in un’attitudine autodistruttiva. C’è qualche elemento autobiografico in tutto questo?

JC: Il film è girato nella mia città natale, Tolmin, vicino al confine italiano, e tutta la seconda parte è girata nella Taverna dove io ho speso la maggior parte della mia adolescenza, così posso dire che questa vita la conosco molto bene. Non posso parimenti asserire che il film sia autobiografico, perché a me non sono successe molte delle cose che accadono nel film. Tuttavia conosco molto bene i sentimenti e le sensazioni descritte sia all’interno della famiglia sia al di fuori nella Taverna.

Questo film in realtà è sulla ricerca dell’amore nel cerchio familiare, tutti i protagonisti tentano di stare assieme cercando, in qualche modo, amore e unità. Ma commettono continuamente degli sbagli, troppi sbagli ed è per questo che tendono all’autodistruzione, perché non riescono a raggiungere quell’unità che in fondo vorrebbero.

IB: Tu hai detto che l’idea della storia ti è venuta ricordandoti la scena di un uomo nella taverna del tuo paese, e da lì hai voluto immaginare un cortometraggio che raccontasse la sua storia. Hai girato in 16 millimetri, poi ad un certo punto si è trasformato in un lungometraggio, trasferito su 35 millimetri. Come mai questa scelta inusuale?

JC: In realtà non è stata una cosa che ho deciso, è successo. Io non ero molto sicuro delle mie abilità di regista — questa è la mia opera prima e non ho fatto scuole di regia —, perciò ho organizzato delle lunghe prove prima di iniziare a girare, con tutta la troupe e gli attori. Ci siamo trasferiti tutti a Tolmin e, vivendo assieme in un Hotel, provavamo ogni giorno. E così spendendo tanto tempo assieme, nascevano nuove situazioni, connessioni, relazioni inaspettate.
Dopo un mese e mezzo che eravamo lì, il film cominciava a crescere. E quando abbiamo girato i primi dieci giorni, una volta al montaggio, mi sono accorto che avevamo 40-45 minuti che avrei voluto utilizzare. Avrei potuto tagliarne una parte, ma facendo così ero sicuro che avrei perso quasi tutte le emozioni, sarebbe diventato una specie di scherzo breve su un ubriaco che torna a casa e ricomincia a bere e non era propriamente quanto andavo ricercando.
Allora, ripensando la struttura complessiva in tutta la sua estensione narrativa, ho capito che avevo bisogno di alcune scene cruciali in più per mantenere l’atmosfera emotiva del film e per sostenerne l’intera narrazione. Dopo aver ripreso e montato quelle scene, la durata di 68 minuti, è diventata quella attuale e definitiva.

IB: Hai studiato archeologia, poi hai iniziato a recitare e ora a curare la regia. Come ti sei avvicinato alla regia cinematografica e, inoltre, ti è risultato facile trovare una produzione?

JC: La prima cosa che ho fatto in relazione al cinema è stata la sceneggiatura di un cortometraggio nel 1995. Si trattava di una questione economica, perché c’era un concorso per sceneggiature con un premio in denaro. Io ero senza denaro e mi ritrovavo con l’automobile in avaria: mi servivano soldi per ripararla e la vincita del concorso me li ha garantiti.
Così ho pensato: “è un bel lavoro, non devi lavorare tanto, guadagni parecchi soldi”… e quindi ho deciso di realizzare, assieme ad un mio amico che studiava Cinema a Praga, un cortometraggio che ha avuto molto successo: V Ieru.
In seguito ho scritto un’altra sceneggiatura per un cortometraggio che doveva essere Kruh in Mleko, e mi hanno dato i soldi probabilmente per il successo della produzione precedente. Ma quando ho deciso di trasformare il corto in un lungometraggio i produttori si sono dimostrati decisamente contrariati perché al Slovenian Film Fund volevano, come era previsto e come s’aspettavano da me, il loro cortometraggio:  volevano che il film fosse ridotto a 15 minuti.
A seguito dell’esperienza di Venezia e dopo altri premi ricevuti, anch’essi hanno iniziato a pensarla diversamente e mi hanno offerto il denaro mancante ancorché necessario per realizzare il lungometraggio nella sua versione integrale da me originariamente pensata.

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