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Fumetto

Computer e fumetto artista perfetto?

I fumetti “fatti col computer” non sono affatto un’invenzione recente, ma risalgono ancora alla prima metà degli anni ’80. Prima di buttarci lancia in resta contro l’uso discutibile che molti autori ed editori fanno del computer sarà opportuno fare dei distinguo.

Alcuni fumettisti sono o sono stati dei pionieri nel loro mestiere e l’importanza del loro lavoro è rilevante indipendentemente dai risultati qualitativi effettivamente raggiunti. Oggi opere come L’impero dei robot o Giovanotti Mondani Meccanici fanno a malapena sorridere ma era necessario che qualcuno facesse il primo passo. Completamente diverso è il discorso per quei fumetti in cui l’uso del computer è stato adottato a livello redazionale. Ma procediamo con ordine.

Il primo esperimento di una certa rilevanza che possiamo indicare come progenitore dei fumetti “al computer” risale al 1984: si tratta di Shatter, opera sperimentale dello statunitense Michael Saenz, una sorta di profeta (quand’anche misconosciuto al grande pubblico) della computer grafica: non a caso la Marvel gli affiderà quattro anni dopo la realizzazione di Crash, graphic novel di Ironman creata al computer (in quest’occasione fu coadiuvato da William Batse, per Shatter ebbe Beno Gillis come collaboratore).

Ma il 1984 è anche l’anno di un altro “computer comics”, realizzato stavolta in Italia: G. M. M. (cioè Giovanotti Mondani Meccanici) di Antonio Glessi e Andrea Zingoni. Anche se probabilmente in pochissimi ricorderanno questo tentativo nostrano di approcciare il mezzo informatico, esso è senza dubbio meritevole di essere ricordato perché dal confronto con Shatter possiamo trarre alcune prime considerazioni su come giudicare i fumetti virtuali. (da segnalare che tra i pochissimi a ricordare i G. M. M. ci sono anche Pallavicini e Dell’Andrea, che intitolano a Glessi e Zingoni addirittura una scuola nella loro deliziosa storia 100% carne virtuale su Bronx n°20/21)

I primi passi che viene spontaneo azzardare su questo terreno teorico sono di tipo concettuale, contrariamente a quanto veniva scritto all’epoca. Alcune riviste a fumetti, principalmente Frigidaire e Alter Alter, avevano infatti già cominciato ad interessarsi di P. C. e computer grafica nei primi anni ’80, ma il taglio dei loro servizi era prettamente tecnico ed ancora pervaso da un certo gusto per l’aneddotica. Oggi, a distanza di quasi vent’anni da quei primi esperimenti, risulta invece abbastanza semplice definire il campo teorico in cui si muovevano riassumendolo in due correnti principali e nel dubbio che tale dicotomia generava. Quando lo utilizziamo per confezionarci dei fumetti, il computer è un “qualcosa” talmente nuovo da giustificare col suo uso il fumetto stesso senza preoccuparsi di rispettare le regole di questo linguaggio (Shatter) o è soltanto uno strumento in più per il disegnatore, il quale è memore della tradizione in cui si inserisce e segue lo spirito della sua corrente di riferimento (G. M. M.)? Il computer è un elemento di spettacolarizzazione autosufficiente o è solo un altro dei mezzi nelle mani dei fumettisti?

Prima di arrivare a metà anni ’90, quando il fenomeno sarebbe stato sufficientemente assorbito, questa domanda trovò delle risposte assai curiose ma piuttosto uniformi.

È innegabile che il fatto di essere realizzato con una tecnologia avanzata costituisce senz’altro un buon motivo d’interesse per un fumetto, ma la strada che i “computer cartoonist” vollero seguire alla fine degli anni ’80 era decisamente più complessa. Il tedesco Michael Götze, per cominciare, scelse di non affidarsi solo alla curiosità verso il nuovo mezzo impiegato ma si impegnò ad imbastire una storia valida messa in sequenza come nella migliore tradizione fumettistica (i primi episodi dei G. M. M., al contrario, erano costituiti da semplici fotografie dello schermo senza alcun lavoro sull’organizzazione della tavola). Il suo L’impero dei robot (comparso in Italia, incompleto, su L’Eternauta) poneva però come contraltare all’efficacia dei tratti geometrici che definivano i perfidi robot la pessima resa degli altri elementi figurativi e naturalisti. Dietro ai tratteggi fortemente seghettati si intuiva l’abilità artistica di Götze, che non poteva però risaltare in tutto il suo fascino visto che i segni originari venivano invariabilmente ridotti a tanti quadratini messi insieme. Decisamente interessante al suo primo apparire, L’impero dei robot non resiste alla prova del Tempo ed è quasi naturale considerarlo, a 2000 passato, un tentativo mancato: l’aspetto informatico era veramente rudimentale e, alla fin fine, il buon materiale grafico e contenutistico che ne era alla base risultava piuttosto svilito e sprecato.

Qualche anno dopo, nel 1991 (la prova di Götze risale al 1988), l’”enfant terrible” Pepe Moreno si lancia nell’interpretazione digitale del paladino di Gotham. Il risultato, Batman — Digital justice (in Italia su Corto Maltese), si muove praticamente sulla stessa scia di Götze: l’impatto visivo tipico del computer c’è, ma Moreno non si affida soltanto ad esso per imbastire il suo fumetto e si sforza addirittura di dare una nuova lettura, più cruda e quotidiana, del personaggio. L’evoluzione della tecnologia si fa sentire. Digital justice è a colori e l’impiego di due programmi diversi per rendere le macchine e le figure umane permette di superare quella impressione di statica uniformità che era uno dei difetti principali de L’impero dei robot. Complessivamente il lavoro di Moreno è apprezzabile (e poi, come si fa a non amare istintivamente un disegnatore spagnolo che, transfuga e celebrato negli States, si ricorda del Maestro Victor De La Fuente e gli fa un sentito omaggio?) ma in fondo rimane ancora una “curiosità”, una perla rara occasionale senza seguito e senza un effettivo riscontro nel mondo del fumetto. Il computer è ancora qualcosa di distante dal mondo delle nuvole parlanti ed il suo impiego è dovuto quasi esclusivamente ad artisti isolati e pionieri del settore: utilizzarlo a livello industriale è utopistico.

Ancora pochi mesi e tutto cambierà.

Nel 1992 sette disegnatori americani (Jim Lee, Mc Farlane, Liefeld, Silvestri, Valentino, Portacio, Larsen) “fuggono” dalla Marvel e si improvvisano editori in proprio. Il processo non è esattamente così lineare (Mc Farlane, ad esempio, passa in un primo momento alla Malibu) ma porta da subito alla creazione della etichetta Image, “terzo polo” dei comici book americani dopo Marvel e D.C. Comics. Il nome della neonata casa editrice non lascia dubbi sui contenuti dei suoi prodotti: supereroi anabolizzati che puntano sulla modernità del tratto (all’epoca Jim Lee era il disegnatore più a la page) e la spettacolarità del disegno come unici motivi d’interesse. Come ulteriore stimolo all’acquisto, e per far passare in secondo piano l’imbecillità cronica dei testi, viene introdotto massicciamente l’uso di tecniche digitali nella colorazione. Il passaggio dai vecchi newsprint alle tinte brillanti ed espressive di Steve Oliff e Joe Chiodo è decisamente traumatico ed un lettore statunitense non può che restare stupefatto: con i prodotti della Image si intensifica la pratica del collezionismo a scopi speculativi e molti albi vengono acquistati in triplice copia fino a toccare le vette di un milione di venduto!

I colori al computer sono una conquista importantissima (salvo poi scoprire che in realtà vengono dati normalmente ed il computer si usa solo per gli effetti speciali) che costringe gli altri editori ad adeguarsi ai tempi e a modernizzare quindi in tal senso i loro albi. Il mercato fumettistico mondiale (costa dirlo, ma con esso anche la Francia) si trova in debito con l’Image da questo punto di vista, ed anche in America viene riconosciuta dignità professionale al colorista. Figurarsi che pochissimo tempo prima, quando il colorista di comic book era poco più di un tipografo con velleità creative, Todd Mc Farlane colorò in prima persona la quarta parte del suo Spiderman — Torment!

È doveroso segnalare anche gli ottimi esperimenti fatti da autori spagnoli quali Jaime Martin e Monica y Bea, che nei primi anni ’90 seppero usare con naturalezza ma efficacia il Macintosh nella colorazione dei loro fumetti erotici.

Gli anni ’90 sancirono quindi, finalmente, l’incontro tra computer e fumetto. Con l’ulteriore sviluppo della tecnologia si può ben dire che il matrimonio tra questi due mondi sia alla portata di tutti (anzi, decisamente di troppi…) e, tanto per fare solo un esempio, le autrici dei fumetti di Fika futura avranno perso sicuramente meno tempo e meno fatica di quelli che spese Saenz nel confezionare il suo Donna Matrix, pur se i risultati complessivi sono quasi identici.

Se l’impiego del computer risulta essere un naturale corollario alla carriera di Fred Beltran (comunque, nel suo Megalex viene usato meno di quel che si pensa) e di Marco Patrito, appare invece quasi stupefacente che la conversione alle nuove tecniche digitali abbia contagiato anche i Maestri classici, come il Solano Lopez de Gli Internauti e il Segrelles de Il Mercenario, la cui ultima avventura (La Fuga) è stata interamente realizzata col computer. È presto per stigmatizzare il tutto dicendo che si tratta solo di una moda, e solo tra qualche anno sapremo se la rapidità d’esecuzione garantita dai software moderni potrà sopperire agli ammanchi dovuti all’impossibilità di vendere le tavole originali, di fatto inesistenti. Ma di certo, nel bene e nel male, il computer è entrato stabilmente nell’editoria a fumetti. Per cui, dopo aver parlato del “bene” vediamo di considerare anche il “male”.

Anche in questo caso vanno fatti dei distinguo. Il caso di un autore indipendente che ricorre allo stesso “effetto speciale” per abbellire o mascherare i difetti del suo albo autoprodotto è ben diverso da quello dell’editore che si incaponisce a ripetere gli stessi errori per risparmiare sul tempo o sul denaro.

E, ovviamente, non tutti i fumettisti sanno usare gli stessi strumenti con la stessa abilità: Saenz, Götze e Moreno sono solo la punta di un iceberg che comprende anche i terrificanti esperimenti che furono ospitati su Frigidaire accanto ai G. M. M.

Ma tornando alla questione dell’utilizzo discutibile del computer a livello redazionale vanno segnalati in particolare due ambiti veramente “maledetti” dalla nuova tecnologia: la colorazione e il lettering.

Senza accanirsi troppo sugli obbrobri perpetrati dall’Eura (anche se il peggio è passato qualche perla di squallore persiste ancora: vedi Falka di Juan Zanotto attualmente in corso di pubblicazione su Skorpio) vanno segnalati quei casi in cui, in teoria, l’uso del computer nella colorazione non dovrebbe essere subordinato alla logica del risparmio o della produzione seriale. E invece casi di incapacità o sbadataggine (eccellenti e non) sono all’ordine del giorno. Basterà citarne due per esemplificare il fenomeno.

Quebrada, l’affascinante saga di Matteo Casali, esordisce nelle librerie col volume Ogni uomo per se stesso. I disegni sono opera di diversi autori mentre la colorazione viene sempre eseguita dal duo Aliprandi-Turotti (eccetto che nel gran finale). Il risultato complessivo del volume è decisamente ottimo ma prendendolo in mano per una seconda lettura o solo riguardandone alcune immagini viene spontaneo chiedersi perché la Innocent Victim è ricorsa al computer se poi la resa finale non rende giustizia all’impegno profuso. Gli stessi cromatismi si potevano ottenere con strumenti canonici quali il pennello e l’aerografo, senza essere poi costretti a sfocare e “seghettare” le immagini come è avvenuto invece nel passaggio dal supporto informatico a quello cartaceo.

Forse una tappezzeria come quella che decora le pagine 21-26 non sarebbe stata altrettanto efficace, ma perlomeno ne avrebbe guadagnato in leggibilità.

È un vero peccato che un prodotto validissimo come Ogni uomo per se stesso abbia questo spiacevole difetto (che, comunque, non ne diminuisce il valore complessivo) ma c’è chi ha fatto molto, molto peggio.

Memore forse del lavoro analogo svolto da Angus McKye su Martha Washington (povero McKye: da autore di prima grandezza sul vecchio Heavy Metal degli anni ’70 è passato a semplice colorista delle infantili denunce di Frank Miller), Stefano Tognetti ha adottato un metodo bislacco di colorazione per Come la vita, di Carlos Trillo e Laura Scarpa. Già penalizzato da un pessimo lettering, questo fumetto (annunciato da anni insieme ad un numero zero forse mai uscito) si presenta funestato anche da una colorazione schizofrenica che coniuga forzatamente elementi iperrealisti e tinte classiche (vittime però, ovviamente, delle solite sfocature tipiche del p.c.).

Il tratto molto personale di Laura Scarpa risulta svilito dall’elaborazione che ne viene fatta e che a tratti interpreta anche in modo assolutamente arbitrario i suoi segni. Tanto per fare un solo esempio, è chiaro che l’ombra dell’ombelico a pag. 11 è stata erroneamente associata ad un altro segno, indipendente, che si trova sotto l’ombelico stesso. L’estrema versatilità della disegnatrice, che spesso nei suoi fumetti ricorre a collages e ad un’alternanza originale di tecniche e stili, risulta particolarmente svilita dal trattamento banalizzante che subiscono i suoi disegni a causa de computer. Inoltre, alcune immagini sono palesemente degli schizzi appena abbozzati: materiale che forse Laura Scarpa normalmente avrebbe scartato o rifinito in seguito. A nulla valgono gli “effetti speciali” del colorista per elevarne la dignità o “recuperarli” esteticamente.

Come la vita ci pone davanti ad un’inquietante prospettiva: oltre a dover sopportare un lettering ed una colorazione al computer decisamente scialbi e fastidiosi, saremo anche costretti a subire la tracotanza di chi li realizza? (lettering e colori vengono infatti accreditati in seconda di copertina al pari degli autori, quasi a voler “normalizzare” il fenomeno e a suggerire che, comunque, questi due ambiti sono destinati allo stesso trattamento in futuro).

Eccoci giunti quindi a trattare del secondo elemento grafico pesantemente penalizzato dal computer: il lettering. Benché in Francia la “grafia” manuale (così la Milano Libri traduceva il termine sul colofon di V for Vendetta) fosse già ritenuta importante e caratteristica di un autore, in Italia abbiamo dovuto aspettare che venisse soppiantata da quella informatica per capire quanto era migliore. Certo, sarebbe stato meglio evitare situazioni in cui il baloon veniva allargato artificialmente per contenere tutte le parole (casi del genere hanno riguardato l’E.P.C.) come la vecchia editoriale Corno), ma di certo la naturalezza con cui una mano traccia dei segni è irriproducibile dal computer. E bisogna rilevare come, talvolta, non vi sia nemmeno lo sforzo di creare un font specifico per ogni autore, ma si ricorra a freddi ed insipidi caratteri commerciali. E sulla stessa questione del lettering “personalizzato” ci sarebbe da discutere; possibile che i cervelloni che hanno sviluppato il software per registrare la scrittura degli autori non abbiano riflettuto sul fatto che comunque nessuno scrive mai una lettera sempre alla stessa maniera? Così se in un dialogo troviamo una “t” o una “s” doppia l’inganno salta subito agli occhi: è proprio impossibile registrare due o tre versioni di una stessa lettera e poi stabilire quale usare in modo casuale? Pochi lettering fatti col computer non fanno pesare la propria artificialità e la maggior parte è ancora troppo lontana da una resa ottimale che tolga il sapore di sintetico alle tavole. Alcuni passi in avanti sono stati fatti (vedi il recente volume Dopo l’Incal edito da Alessandro Editore) ma la strada è ancora lunga.

Le edizioni Di meriterebbero la canonizzazione per gli sforzi fatti per mantenere il lettering manuale, ma ora che Mauro Paganelli è tornato al vecchio marchio del Grifo anche questa encomiabile casa editrice ha dovuto capitolare davanti alla comodità ed al risparmio.

Si può a ragione parlare di “sforzi”, “comodità” e “risparmio” perché i motivi che spingono gli editori a sostituire coloristi e calligrafi con un computer sono quasi esclusivamente di natura economica (e d’altronde come si fa a credere che Eura, Mare Nero e compagnia giudichino qualitativamente valido il lavoro dei loro tecnici informatici?). se le considerazioni estetiche fossero minimamente tenute in considerazione dagli editori si potrebbe presentare loro il caso dell’ultima fatica di Moebius: Sra, quinto capitolo delle saga di Edena, presenta dei colori quasi dolorosi per gli occhi nella loro esasperata psichedelia. Questi colori, eccessivi ma pienamente coerenti con il fumetto che decorano, sono stati fatti col computer (Moebius è un pioniere nel campo: le sequenze animate del film Tron, 1982, le aveva realizzate lui col computer) ma per il lettering il Maestro di Nogent-sur-Marne ha usato il vecchio sistema della scrittura manuale: un perché deve pur esserci, no?

Ed anche limitandoci a considerare le differenze economiche di un tipo di lettering rispetto ad un altro, non esistono poi troppe controindicazioni per gli editori. Le tirature dei volumi a fumetti per le librerie sono talmente esigue da definire con chiarezza il pubblico come un piccolo nucleo di appassionati che non si tirerebbe certo indietro se dovesse spendere un euro in più per un buon prodotto. E l’impiego di letteristi di professione non graverebbe certo di più sul prezzo di un volume.

Tirando le somme di questa lunga e noiosa disamina, possiamo definire alcune semplicissime regole: un Autore (che si assume tutta la responsabilità di ogni fase del lavoro) può permettersi di sperimentare e di usare il computer come meglio gli aggrada: se si rivolge ad un pubblico popolare non dovrà però mascherarsi dietro la presunta “artisticità” del suo lavoro per giustificarlo, mentre un’opera sperimentale dovrà accettare di essere avanguardia con tutto ciò che ne consegue. Ma nessun editore dovrebbe soprassedere sulle scelte dei propri “impiegati dell’industria culturale”, soprattutto quando va a toccare elementi di natura creativa.

Ed anche chi è preposto a svolgere una funzione integrativa dell’opera dovrebbe porsi una chiara deontologia in merito: se sono Fred Beltran, allora posso colorare un fumetto col computer, sennó il p.c. è meglio usarlo per fare calcoli, andare sui siti porno, giocare a Tomb Raider.

O leggere Fucine Mute ¸ ovviamente.

Una precisazione a proposito del titolo: “Computer e fumetto artista perfetto?” non è frutto di demenza precoce o umorismo pieraccionesco, ma vorrebbe essere un piccolo omaggio a Pablo Echaurren per il quale, come forse qualcuno ricorderà, “pittura e fumetto artista perfetto”. In tempi tormentati come quelli che sta vivendo attualmente il fumetto è giusto (anzi, quasi doveroso) ricordare chi ha contribuito ad emancipare questo linguaggio e ad accrescerne la dignità culturale.

Un bel po’ d’anni fa esistevano degli individui che non tolleravano l’uso del rapidograph nei fumetti. Non che avessero fondato associazioni proibizioniste, ma era un pensiero comune e maledettamente diffuso quello secondo cui questa penna a china usata dai geometri non potesse garantire la stessa efficacia degli strumenti canonici, gli unici degni di essere maneggiati dai professionisti. Poco importa che Hermann e Solano Lopez ne avessero fatto un uso magistrale in molti dei loro fumetti (che, anzi, dichiaravano di aver disegnato solo col rapidograph) e che comunque come tecnica di complemento fosse tra le più usate (il compianto Alexis lo usava per le rifiniture e persino Vittorio Giardino ci mostra la sua collezione di rapidograph nella breve storia Ultimatum di cui è protagonista). Il rapidograph (o isograph, o Rotring) dà un segno uniforme e non modulabile, troppo freddo e regolare per essere veramente utile ai fumettisti… anche Luca Boschi lo sottolineò (speriamo ironicamente) in una sua storia.


Ora, sarebbe proprio il caso che i signori di cui sopra si rifacessero vivi sfoderando la vecchia supponenza contro un dannato marchingegno che merita, questo sì, il loro livore: il computer.


Certo, è strano e paradossale che a lanciare un pamphlet contro i calcolatori elettronici sia una rivista che è fatta di algoritmi e si legge solo su un monitor, ma speriamo che un rapido excursus sull’utilizzo maldestro ed improprio che ancora oggi si fa del computer nei fumetti possa far capire quanto tempo ed entusiasmo siano andati sprecati per seguire la moda o la comodità.

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