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Scrittura

Pino Cacucci

Letteratura e vita

L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare.

Eduardo Galeano

Come l’utopia secondo Galeano, certa narrativa serve proprio a continuare a camminare. Serve a ricordare personaggi che senza mai essere dei vinti, furono sconfitti e dimenticati dalla storia. Serve a trasmettere le loro passioni, quelle necessarie ad andare avanti anche quando siamo da soli, anzi a volte serve proprio a farci scoprire di non essere poi così soli come spesso sembra… un po’ come ha iniziato Pino Cacucci.

Andrea Fogar (AF): Come hai cominciato?

Pino Cacucci (PC): Scrivendo racconti alla fine degli anni ’70, quando in tanti ci siamo rinchiusi da qualche parte a leccarci le ferite, a ripensare agli errori compiuti, pur restando convinti che “loro” non avevano né avranno mai ragione, e a chiederci come si potesse sopravvivere da soli dopo esserci sentiti parte di un tutto… e così, io come tanti altri, abbiamo cominciato a scrivere.
Ma non è durata molto, la solitudine forzata, perché, almeno io, ho cominciato a viaggiare e ho ricominciato a vivere altrove. E, strada facendo, mi è tornata la voglia di scrivere, dopo aver vagabondato senza meta per diversi anni. Pubblicare, poi, è stata dura, come per tutti, o quasi: quando è saltato fuori un editore disposto a farlo ormai mi ero praticamente rassegnato a tenere quei chili di fogli nei cassetti, e invece…

AF: È vera la storia dell’origine del nome “P.D.” Cacucci?

PC: È vera. Il mio primo libro, “Outland Rock”, è stato pubblicato nell’88 da una piccola casa editrice –  Transeuropa — che era gestita da un tipo che aveva sicuramente delle intuizioni nel suo lavoro, ogni tanto azzeccava alcune idee, ma era anche convinto di tante altre cose che non condividevo, come per esempio il fatto che alcuni autori dovessero… cambiare nome, almeno in parte. Così, dopo aver rifiutato decisamente l’uso di uno pseudonimo (secondo lui, Cacucci era improponibile…), è tornato alla carica pretendendo di usare delle iniziali. Ricordo che, al telefono, gli dissi per scherzo: “Sì, come no, allora mettici anche una D. come debosciato”.
La cosa incredibile fu che lo fece davvero! E altrettanto comico fu il fatto che ne risultò “P.D.”, e le poche recensioni uscite allora, sottolineavano che, trattandosi di racconti noir, si era voluto fare un riferimento a P.D. James… Be’, l’editore non solo non sapeva chi fosse, ma addirittura mi chiese: “E chi sarebbe questo P.D.James?”. Neanche sapeva che era una scrittrice e non uno scrittore.

AF: Quali sono stati i tuoi primi modelli e punti di riferimento a livello letterario?

PC: Hemingway era e rimane il “grande amore” letterario d’una vita intera… L’unico che ancor oggi sento il bisogno di rileggere a scadenza più o meno regolare. Poi, Orwell è un altro degli autori che amo svisceratamente, anche se non so se considerarlo un punto di riferimento riguardo ciò che scrivo, sicuramente lo è su tante altre cose, dagli ideali libertari alla visione illuminante del Potere, qualunque sia l’aspetto che assume di volta in volta. Se dovessi pensare a scrittori presi a modello, più o meno inconsciamente, allora citerei Jim Thompson, Patricia Highsmith, di cui ho sempre ammirato l’amoralità rispetto a tanti falsi moralisti della narrativa…
Più avanti, avrei imparato ad apprezzare la profonda passione che anima molti scrittori latinoamericani, innanzi tutto come lettore che aveva bisogno di ritrovare il senso della passione — in tutto: politica, cultura, rapporti, amore, odio, quotidianità… — che in questa asfittica e alienata Italia, e per molti versi nell’intera Europa decadente e algida, sembra si sia congelata, liofilizzata, o “decaffeinata”, come dice il mio amico Paco Taibo II. L’Italia odierna è come la birra analcolica: insensata.

AF: A proposito di PIT II, lui dice che il ruolo della letteratura è far vedere il mondo con altri occhi, dare informazioni sulla società e far sviluppare l’immaginazione, e che lui ha imparato ad essere femminista e antimperialista da Salgari. Quale è secondo te il ruolo della letteratura?

PC: A volte invidio l’inesauribile energia ottimista di Paco… Però mi piace sentirlo dire che se da giovanissimo leggi Salgari, da adulto non potrai essere razzista. Magari. Sarebbe una sorta di antidoto da prescrivere… Poi, la realtà è che qualunque libro, se ti viene imposto come fanno a scuola, finisce per assumere il ruolo di fatica da sbrigare anziché di piacere arricchente. Il ruolo principale della letteratura, anche se preferisco il termine meno serioso di narrativa, è quello di tenere viva la memoria rendendo affascinante l’esistenza di chi ha lottato per far sì che il mondo facesse meno schifo di quanto ne fa… Senza la pretesa di risolvere tutti i mali, ma con la ferma convinzione che ribellarsi è giusto.
La narrativa capace di trasmettere passioni ed emozioni, prima che educativa, deve essere godibile, persino divertente, comunque coinvolgente. Se dovessi tentare di far capire a un ragazzo il valore della ribellione ai soprusi imposti dai potenti di turno, non mi passerebbe mai per la testa di torturarlo con la lettura dei “Promessi sposi”, tanto per fare un esempio scolastico. Infatti il dramma è proprio la scuola: riesce a trasformare la lettura, uno dei più profondi piaceri che l’essere umano possa provare, in qualcosa di insopportabile e ragnateloso, polveroso, asfittico…

AF: In “Héroes convocados” (di PIT II n.d.r.) il piano rivoluzionario di Nestor Roca prevede la partecipazione di eroi della letteratura come Sandokan, Yanez de Gomara, Dick Turpin e di “ribelli!” della storia come Norman Bethune. Quali eroi convocheresti tu? Quali valori ti ha dato la letteratura?

PC: Don Chisciotte. È l’eterno simbolo dell’insopprimibile bisogno di correre verso l’orizzonte senza chiedersi quando si arriva alla meta ma solo cosa ci sia mai dietro, laggiù… Con don Chisciotte contro i draghi di turno, senza prestare ascolto ai grigi burocrati che si prodigano a spegnere i sogni altrui dicendoti che non sono draghi ma soltanto “mulini a vento”… La letteratura che prediligo mi ha dato, tramite certi suoi personaggi memorabili, i valori della dignità come bene supremo, e il rifiuto della resa malgrado tutto e tutti.

AF: Perché ci sono sempre meno eroi nella letteratura?

PC: Ce ne sono, ce ne sono… ma non in Italia né in Europa né negli Stati Uniti, tranne qualche rara eccezione che comunque non va ignorata. Ce ne sono nella narrativa di terre che non hanno perso la capacità di vivere intensamente, di bruciare dentro e fuori, di spronare Ronzinante senza ascoltare la “ragione” ma seguendo le budella e il cuore. La letteratura delle terre “imperiali” ormai produce solo principini emofiliaci che si guardano l’ombelico convinti che sia il centro dell’esistente.

AF: A mio parere sei il più latinoamericano (almeno dei latinoamericani del gruppo del “Red Patito”) degli scrittori italiani. Con libri come Demasiado Corazon e Puerto Escondido (dove letteratura è sia intrattenimento che provocazione e dove tanta cura è data alla critica sociale), ma anche con opere come Outland Rock e In ogni caso nessun rimorso, ti senti di aver scritto dei “romanzi di avventure” (nel senso del “nuovo romanzo d’avventure latino americano”)?

PC: Sì, anche se non l’ho fatto coscientemente, cioè non pensavo di aderire a un qualche gruppo o movimento — che per altro non esiste in tali termini — ma “romanzo d’avventure” è la dicitura che sento più vicina, più congeniale a quello che cerco come lettore e come raccontatore di storie. Scappo istintivamente da qualsiasi classificazione, ma “avventura” mi piace, come parola: evoca l’essere disposti a rischiare per il piacere e la soddisfazione di rompere le palle ai potenti, agli ipocriti, insomma, ai “moderati”… Non che io ci riesca, magari: i libri sono poca cosa, sono un mezzo troppo limitato per sperare che rovinino la festa a qualcuno. Ma aiutano a scoprire che non siamo poi così soli come a volte temiamo di essere…

AF: Esiste in Italia un gruppo di scrittori come il “Red Patito”?

PC: No, ma esistono vari scrittori che si riconoscono, almeno da qualche tempo, nella comune ricerca di memoria viva, di lotta contro l’oblìo, di uso del genere “avventuroso” o come vogliamo chiamarlo, per narrare la realtà presente e passata.

AF: Il subcomandante Marcos è forse il più letterario dei ribelli dei nostri giorni: in lui tutti hanno osservato la centralità della comunicazione e della narrazione (che è affidata a un connubio fra la cultura indigena, una certa cultura di sinistra e i più moderni “mezzi” di comunicazione). Possiamo dire che anche lui (anche in quanto rivoluzionario) sta facendo letteratura?

PC: Persino Octavio Paz, che è stato tra i più forsennati nello scagliarsi contro il fenomeno zapatista nella fase iniziale, poi ha corretto diverse sue affermazioni e a un certo punto ha ammesso che, comunque la si veda al riguardo, Marcos resta uno degli scrittori e poeti più interessanti che il Messico abbia recentemente prodotto… Peccato che Paz sia morto quando cominciava a manifestare un crescente interesse e a rendersi conto che il neoliberismo stava devastando il suo paese non solo economicamente, ma soprattutto culturalmente. Però bisogna non perdere la visione complessiva di tutto questo: Marcos è uno straordinario comunicatore, sa trasmettere profonde emozioni attraverso la narrazione, ma lui per primo ci ricorda che sono state le culture indigene a insegnarglielo. Il problema è che tali culture non hanno accesso ad alcuna forma di diffusione. Ecco perché, tra i grandi meriti dello zapatismo, c’è anche quello di aver permesso alle culture indigene di riprendere la parola con l’esterno, con il resto del mondo che li ignorava.

AF: Prima hai detto che il ruolo della letteratura è tener viva la memoria, a proposito di memoria: parliamo dell’11 settembre, cosa rappresenta per te quella data?

PC: L’11 settembre rappresenta la fine di un progetto che riusciva a essere anticapitalista senza finire nell’abbraccio mortale con il socialismo reale, e l’inizio della sventura per miliardi di esseri umani con il primo laboratorio di applicazione delle teorie neoliberiste partorite dai cosiddetti Chicago Boys. L’11 settembre 1973 ha visto il “premio Nobel per la pace” Kissinger imporre un colpo di stato militare in un paese allora strategicamente rilevante, sia dal punto di vista politico (un esempio pericoloso per le nazioni oppresse, quanto lo sarebbe stato più tardi il Nicaragua sandinista) che economico (primo produttore mondiale di rame, quando il rame era preziosissimo per le comunicazioni e l’industria bellica), e oltre al dolore per il massacro di tante persone degne, tra le quali alcuni scrittori e musicisti indimenticabili, in Cile quell’11 settembre ha preso avvio un progetto di sistematica devastazione del pianeta attuata in questi tre decenni dalla cosiddetta “globalizzazione”, che in realtà è l’imposizione di un modello politico-economico al resto del pianeta che ha gradualmente distrutto il tessuto sociale dei paesi più creativi e vivaci sotto tutti i punti di vista.
Soltanto oggi, a trent’anni di distanza, è finalmente sorto un movimento mondiale che tenta di arrestare un processo che ci sta portando al caos totale, provando a immaginare e costruire un mondo meno spietato, dove la solidarietà e i rapporti umani tornino a prevalere sulla logica (illogica) del profitto distruttore. Sebastiao Salgado, in un recente incontro all’università di Città del Messico, ha detto: “Prima ero più ottimista sul futuro di questa strana creatura che è l’essere umano; oggi, mi resta solo la speranza. Non sono sicuro che sopravviveremo come specie. Per quello che stiamo facendo a noi e al pianeta, forse non meritiamo neppure di sopravvivere”.

AF: Cosa stai facendo adesso?

PC: Tante cose contemporaneamente. Traduzioni, soprattutto: mi appassiona, tradurre, specie se mi capitano romanzi che sento affini, e il piacere più grande, è arrivare in fondo a una traduzione e scoprirmi a dire: che peccato che questo romanzo non l’ho scritto io… però l’ho tradotto, quindi, un po’ di me ce l’ho messo comunque. Poi, sto scrivendo una cosa che mi sta molto a cuore: una ricostruzione in forma narrata (non romanzata, termine che potrebbe essere frainteso) della rivolta di Parma nel 1922 contro i fascisti venuti da mezz’Italia per reprimere quella città irriducibile che non voleva saperne di chinare la testa… Non so ancora se diventerà una sceneggiatura o un libro o, meglio ancora, entrambe le cose.

AF: Quali romanzi ci consiglieresti di leggere?

PC: Be’, tantissimi… come fare a limitarmi a tre o quattro… Insomma, provo a nominare almeno quelli che negli ultimi tempi mi hanno lasciato un segno dentro, e che consiglierei senz’altro. “Il lapis del falegname” di Manuel Rivas, storia di un medico combattente antifranchista narrata all’interno di un carcere, anzi, di un campo di sterminio, perché uno dopo l’altro verranno fucilati e lo sanno… Ma lui si salva, e un giorno racconterà la sua storia, parallelamente al punto di vista narrativo del suo carceriere, che finirà a fare il guardiano di un bordello in Galizia… Struggente, senza essere mai patetico, con una fierezza e una dignità rare, di questi tempi e in questo continente (ecco, hai visto che alla fine ho trovato qualcosa di valido anche nell’odierna Spagna…).
Poi, romanzi a parte, uno qualsiasi (meglio ancora: tutti!) tra i molti libri scritti da Noam Chomsky, irrinunciabili per capire tante cose del Mostro che sta distruggendo il pianeta (e due: Chomsky è statunitense… anarchico, per fortuna). Anche di Eduardo Galeano, consiglierei di leggere tutto: e soprattutto, “Le vene aperte dell’America Latina”. Infine (devo finire, in qualche modo, o riempio pagine e pagine di “consigli per gli acquisti”), per chi non l’avesse ancora letto, il romanzo di Bruno Arpaia scritto qualche anno prima del più recente “L’angelo della storia”, cioè “Tempo perso”. A riprova che persino in Italia, ci sono romanzi scritti con passione e cuore gonfio…

AF: E infine di strettissima attualità, cosa pensi del Forum di Porto Alegre?

PC: Tutto il bene possibile. Certo, è solo un inizio. Ma rappresenta una straordinaria presa di coscienza, che ancora una volta nasce in America Latina e lancia richiami da quelle terre appassionate e sensibili.
Però si sente già incombere la presenza dei “moderati” e dei pompieri “realisti”, degli incapaci di sognare, come per esempio certi tromboni europei (francesi e italiani, in particolare) che subito si mettono a fare distinzioni tra i buoni e i cattivi, pretendendo di tenere fuori chi ha impugnato le armi contro situazioni di violenza intollerabile (mi riferisco alle FARC colombiane, sul cui operato non sono certo d’accordo totalmente, ma non si può negare che lottino per i diritti della propria gente, né si può giudicare certe situazioni standosene a pancia piena in un angolo privilegiato del mondo; rispetto invece ai separatisti baschi, condivido qualsiasi censura nei loro confronti: chiunque combatta con motivazioni etniche, oggi fa il gioco dell’Impero, senza contare la deriva fascistoide presa ormai da certi gruppi che un tempo erano sorti su ideali di sinistra).

Secondo certi distinguo, allora gli zapatisti non hanno diritto di parola perché portano qualche vecchio fucile in spalla? Sarebbe assurdo, considerando oltretutto che sono stati i primi in assoluto a parlare di globalizzazione e neoliberismo quando questi termini erano sconosciuti o ignorati dagli odierni contestatori. Insomma, il Forum è un’esperienza positiva sotto tanti punti di vista, e la presenza di loschi figuri neoliberisti legati alle scelte scellerate che ben conosciamo (bombardamenti di civili e atteggiamento prono ai voleri delle multinazionali, per fare due esempi semplici e concreti) non è riuscita a incrinare l’aspetto sano e costruttivo dell’incontro. Ma, ripeto, è solo l’inizio. La strada è lunga e irta di ostacoli, i più insidiosi sono quelli “vicini”, cioè i vassalli dell’Impero camuffati da “progressisti”.

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