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Arte

Frida, Diego e Tina (II)

Il Messico dipinto e fotografato, alla grande

Un sogno di domenica nel grande giardino pubblico.

Nell’aprile 1941 la vecchia “casa azul” di Coyoacan è disponibile, con la recente scomparsa di Guillermo Kahlo, il padre di Frida: un grande dolore per lei, affrontato con molto coraggio. Vi prendono dimora i due sposi, trasformando la precedente residenza a San Angel in una sede del loro rispettivo lavoro. E Frida può anche scrivere all’amico dottor Loesser che “el recasamiento funciona bien”: le seconde nozze funzionano bene.

Diego è libero da impegni all’estero; ha rifinito qualche particolare nel grande affresco del Palacio Nacional e si dedica alla pittura su tela che da un po’ di tempo aveva dovuto trascurare. Ma soprattutto dà inizio ad un vecchio progetto: nel suo entusiasmo per le antiche culture del Messico, si è creato con gli anni un suo museo personale di reperti archeologici e di oggetti dell’arte popolare, e ora vorrebbe trovare una loro degna sistemazione.

Nei dintorni di Coyoacan c’è “El Campo del Pedregal”, una specie di vasta pietraia alquanto fuori città a quei tempi. E qui dà inizio ad un edificio monumentale ispirato allo stile azteca, che diventerà la sede del suo grande museo privato, ricco di sessantamila pezzi. Lo chiamerà “Casa de Anahuac” o anche “Anahuacalli” secondo l’antico linguaggio.

Aumentano intanto i riconoscimenti pubblici per i due artisti: vengono richiesti come docenti in un prestigioso istituto d’arte della capitale, “La Esmeralda”, dove Diego può liberamente sviluppare il suo concetto che vuole l’arte non solamente insegnata a scuola, ma anche con la diretta frequentazione delle sue fonti. È il periodo sereno in cui i loro studenti vengono coinvolti in frequenti escursioni archeologiche e culturali, alle quali prende parte anche Frida. E i suoi allievi si definiranno scherzosamente “Los Fridos”.

Rivera può anche produrre molti quadri e disegni del suo Messico è un’attività che lo entusiasma, gli sembra quasi un ritorno alla sua gioventù di artista. È una parentesi senza i grandi affreschi storici o polemici, ma con dipinti che ci confermano ancora, se ve ne fosse bisogno, che Diego è un vero artista, sia nel piccolo formato d’un quadro che nei vastissimi murales ai quali è legata la sua maggiore fama. Nel ’43 tanto per fare qualche esempio, c’è un dipinto con l’esplosione di un vulcano in eruzione nel Michoacan, e l’anno dopo un silenzioso “giorno dei morti” sfumato fra tenui luci ed ombre. E tante altre cose.

Per qualche anno continua a dipingere prevalentemente “in piccolo”, ma nel 1947 è già in corso una delle sue opere “in grande”, che è fra le più famose e conosciute da tutti, un po’ come le due Fridas della sua compagna. Si tratta di un grande dipinto su pannelli trasportabili che misura in tutto 15 x 5 metri, ed è destinato al grande hotel del Prado, nel centro della città lungo la Avenida Juarez, all’altezza del vasto giardino pubblico della Alameda Central.

Oggi il Prado non c’è più, dopo il funesto terremoto del 1985. Ma il grande dipinto si è potuto salvare ed è stato rimontato poco lontano, in un alto edificio prossimo alla Alameda. Se andate a Città del Messico, cercatelo, vale davvero la visita.

Il titolo è “Sueño de una tarde dominical en la Alameda Central” (Sogno di un pomeriggio di domenica: in quegli anni il grande giardino pubblico era la meta preferita dei giorni festivi).

Sappiamo che gli affreschi di Rivera sono sempre molto affollati, e questo non lo è da meno: decine di personaggi che evocano ancora e sempre la storia del Messico, da Cortés a Massimiliano, da Juarez a Madero. Non siamo però davanti ad una qualsiasi lezione di storia patria, perché qui è tutta una rievocazione fantasiosa a modo suo “leggera” : le figure nel grande giardino che è come un palcoscenico alle loro spalle, fra un venditore di palloncini, un padiglione con la banda e una mongolfiera che sta decollando… i personaggi storici sono frammisti con il popolo, e si distinguono soltanto per la loro fisionomia. Ma la cosa più attraente è il gruppo centrale, una specie di omaggio alle persone più care a Rivera, reali o di fantasia che siano. Fra le tante figure, c’è una coppia incredibile: un elegante signore è José Guadalupe Posada, il famoso creatore, alla fine dell’Ottocento, delle stampe a base di “Calaveras”, cioè scheletri in costumi umani e grotteschi. Posada tiene a braccetto una dama molto elegante, anche lei “calavera” in una sua celebre stampa, e la “dama” a sua volta, tiene per mano un ragazzetto grassoccio che è Diego, sorvegliato alle spalle da una giovane donna (o madre?) che è Frida…

Ogni particolare di questo dipinto meriterebbe una valutazione, ma non è possibile. Basterà dire che,avendolo visto una volta, si vorrebbe vederlo ancora: ma direttamente, non attraverso le riproduzioni.

Prima della fine: “Viva la vida”.

Gli anni ’40, iniziati con il secondo matrimonio, proseguono con maggiore tranquillità anche per Frida, come dimostrano molti suoi dipinti: sono autoritratti con qualcuno dei suoi animali prediletti, pappagalli, scimmiette, anche un cagnolino. In altri c’è il volto di Diego come pensiero inserito sulla fronte, oanche un doppio ritratto, ma non più con le due Frida: è dimezzato per lungo fra lei e il marito riconquistato.

Come abbiamo già visto, Frida partecipa volentieri al lavoro di insegnante alla scuola di pittura della Esmeralda, comportandosi da amica e confidente verso gli studenti. Riferisce uno di loro: “Ci insegnava soprattutto per la gente e per l’arte popolare, e diceva poco sul modo e sullo stile del dipingere, come faceva invece il Maestro Rivera”.

Purtroppo, dopo qualche tempo Frida ha una violenta ripresa di dolori alla schiena e alla sua povera gamba destra: le viene prescritto il riposo completo, oltre a un busto di acciaio che in un autoritratto del ’44 viene evidenziato come uno strumento di tortura, con una colonna ionica rotta in più parti al posto delle vertebre: è la sua tragedia fisica che riaffiora.

Nel 1946 deve andare in America per una laboriosa operazione ortopedica, e al suo ritorno si autodipinge, con addosso il suo ricco abito “tehuano” tenendo in mano una bandierina che dice “Arbol de la esperanza, mantiente firme” (albero della speranza, mantieniti saldo…). E poi, proseguendo nei suoi quadri simbolici, crea “La Venauita” (la cerbiatta), dove un animale trafitto da tante frecce, ha la testa di Frida.

Si apre un periodo di alcuni anni in cui quasi tutta la produzione artistica di Frida è dominata da questo suo sofferto surrealismo. La figura di Diego si fa sempre più frequente, sotto una sua vigile protezione o anche al centro dei suoi pensieri: sembra veramente che il figlio mai avuto si identifichi con l’uomo della sua vita, con un “Diego mio padre, mio sposo, mio figlio…”. Oppure, in qualche momento di amarezza, si può leggere in un suo diario: “Perché lo chiamo il mio Diego? Non lo è mai stato e non lo sarà mai, egli appartiene solo a se stesso!”.

I suoi quadri, per esempio “Diego e io” oppure “Pensando a Diego” riprendono ancora il tema dell’uomo amato, il cui volto sta in mezzo alla fronte di una Frida che indossa i suoi soliti costumi e che appare sempre triste o piangente. Uno di questi quadri aveva un motivo preciso: nel ’49 Rivera aveva una relazione con la “star” messicana Maria Felix, che aveva fatto scandalo per l’accoppiamento fra quell’omaccione famoso e la “Maria Bonita” del cinema, bellissima e capricciosa come sempre. Del resto, la questione extra coniugale era già convenuta prima…

Nel 1950 Frida è in pessime condizioni. Il piede destro minaccia una cancrena e viene operata d’urgenza all’ospedale inglese di Città del Messico. Vi trascorrerà tutto l’anno, fra cure e operazioni, ben sette in tutto. Questa volta ha un medico messicano, il dott. Juan Farili che, come tutti i sanitari che l’hanno assistita, è conquistato dalla sua resistenza al dolore e dal suo desiderio di vivere. La sua stanza d’ospedale è piena di immagini, quadretti e fotografie che le portano i suoi tanti amici e ammiratori. E lei, appena può, dipinge ancora: al dottor Farili regala una sua tela intitolata “Viva la vida” e poi anche un autoritratto nel quale è intenta a dipingere l’effigie del medico.

Dimessa nel ’51 dall’ospedale, è comunque costretta all’uso quasi permanente della sedia a rotelle, e deve anche sopportare un busto di gesso che le regge la colonna vertebrale. In qualche rara occasione può permettersi qualche breve percorso a piedi, sempre però con le stampelle. In questo periodo c’è anche una sua svolta artistica, perché dipinge ormai pochi autoritratti per dedicarsi alle nature morte, con la frutta come tema principale. In uno di questi quadri, del 1952, si possono ravvisare molti elementi già presenti nei suoi dipinti di prima, come il sole, la luna, le tenebre, la luce. E questi frutti hanno delle radici, che si intrecciano per formare le due parole “Naturalezza viva”. Vita, e non morte, dunque: forse per opporsi al triste presagio che sente ormai incomberle addosso. È frequente anche una colomba bianca, e in un quadro successivo ci sono ancora le radici, che tracciano la parola “Luz”, luce, sotto un sole dorato…

Nel 1953 viene allestita la sua prima mostra personale in Messico, per interesse della sua amica fotografa Lola Alvarez. La sera dell’inaugurazione non riesce neppure ad alzarsi, e le portano un letto nei locali della mostra, dove giunge in ambulanza. Il successo è enorme, e non solo per ovvi motivi di solidarietà umana.

Purtroppo le cose peggiorano ancora, e i dolori diventano atroci, malgrado l’uso inevitabile di forti analgesici e stupefacenti. Diego le è accanto costantemente, e lei resiste dicendo agli amici che combatte “perché non gli vuole mancare”.

Nell’estate del ’54 subentra una broncopolmonite, e il 2 luglio, ancora convalescente e contro il parere dei medici prende parte, sulla sedia a rotelle, ad una manifestazione politica contro il regime reazionario del Guatemala. È la sua ultima apparizione in pubblico. Pochi giorni dopo muore improvvisamente, per una embolia polmonare. È il 13 luglio: alle sei del mattino l’anziano autista dei Rivera corre ad avvisare Diego, che dorme poco lontano. “Señor” — gli dice — “murio la niña Frida”. È morta la bambina Frida… ha compiuto pochi giorni prima i quarantasette anni. Se fosse vissuta fino ad agosto, avrebbe festeggiato con Diego le loro nozze d’argento. Il loro era stato un matrimonio assolutamente speciale, fra due grandi artisti che erano anche due irregolari della vita. Ma in ogni caso, un matrimonio d’amore.

Il congedo dalla “Niña Frida”

Il funerale di Frida fu un avvenimento spettacolare. La salma venne esposta al pubblico nel grande Palacio de Bellas Artes, a pochi passi dalla Alameda Central, e al corteo funebre parteciparono cinque o seicento persone. Le ceneri sono tuttora conservate nella Casa Azul, che Diego ha lasciato, nel ’58, in eredità ai suoi concittadini, insieme all’edificio — museo di Anahuacalli.

Rivera ha sessantotto anni, e molti impegni da portare a termine. Il suo fisico appare provato da quanto ha sofferto per la malattia di Frida: è sempre obeso e pesante, ma molto depresso. Gli è però di conforto il fatto che viene riammesso, dopo parecchie sue richieste, nel Partido Comunista Mexicano: il fatto che la salma di Frida, su proposta dello stesso Diego, fosse stata esposta avvolta nella loro bandiera, era stato molto apprezzato.

Intanto deve completare parecchi quadri su commissione: sono soprattutto ritratti di belle signore della borghesia locale. Notevole una “Doña Elena Flores”, molto elegante e sorridente, accanto a un vassoio di frutti che possono anche rievocare un ricordo degli ultimi dipinti di Frida. E poi c’è un ritratto in piedi della prima figlia avuta da Lupe Marin, una bella Ruth raddoppiata da uno specchio. E altri ancora.

La sede fissa del suo lavoro è sempre il suo studio di San Angel, destinato in seguito a diventare anch’esso un “Museo Diego Rivera”. E il 29 luglio 1955 si sposa con Emma Hurtado, un’abile gallerista e collezionista di quadri di Diego, per i quali ha avuto l’esclusiva dei diritti di esposizione. Lo stesso anno fanno insieme un viaggio a Mosca, dove lui viene sottoposto a un’operazione e un trattamento al cobalto per un tumore (non bene precisato nelle biografie).

Sulla via del ritorno, sostano in alcune città della Mitteleuropa, e al loro rientro in Messico, Diego è ospite presso amici di Acapulco, dove può concedersi un periodo di sano riposo. Da un terrazzo sul mare dipinge dei quadri, sempre in piccolo formato, con esperimenti cromatici che costituiranno una sua ultima esperienza d’arte.

I suoi settant’anni vengono festeggiati dalla moglie Emma con un’esposizione di tutte queste opere: sarà la sua ultima mostra, e potrà finalmente realizzare, appena libero, un suo grande desiderio, recandosi a Guanajuato a vedere la sua casa natale.

Il 24 novembre 1957 muore improvvisamente per un infarto. è sopravvissuto solo tre anni dalla scomparsa di Frida, e come era stato per lei, vi sono centinaia di persone al suo funerale, con sepoltura alla “Rotonda degli Uomini Illustri” nel grande cimitero della capitale.

Difficile, se non impossibile, esprimere il significato per l’arte del suo paese e del mondo, di tutto il lavoro compiuto da Rivera: la sua lunga esperienza giovanile in Europa, i suoi rapporti con le scuole pittoriche della Spagna, di Parigi, dei Paesi Bassi. E poi lo studio dei modelli storici di ogni epoca, non esclusi i grandi affreschi dell’Italia… Ne era derivato quel suo stile particolare, dove la figura umana era l’abitante d’un mondo di cose e persone, quasi sempre del suo Messico. E inoltre, la sua vita accanto a una grande e sfortunata artista dolce e tragica insieme, fra amori e tradimenti: sposati, divisi, ricongiunti, mentre la loro Patria era sempre e ancora alla ricerca della sua strada giusta… E tutto questo è lì, a portata di mano, fissato nel colore di quei muri famosi oppure semplicemente su tanti quadri suggestivi o drammatici,spesso surreali, d’una donna di raro talento.

Gracias Diego, Gracias Frida. Alla vostra memoria, che in questi nostri anni si sta concentrando su una enorme quantità di mostre, libri, articoli di giornalisti d’ogni specie, talvolta intrigati per la giusta collocazione di quella benedetta “h” nel cognome di lei…


Ricordo per due.

Meritano un breve cenno, dopo Rivera, altri due grandi pittori di murales messicani, Orozco e Siqueiros. Ve ne furono anche degli altri, senz’altro meritevoli di attenzione, ma questi due sono importanti, sia per la loro arte, sia per avere condiviso insieme a Diego un periodo storico travagliato della loro nazione.

José Clemente Orozco (1883-1949), quasi coetaneo di Rivera, è soprattutto il grande muralista di Guadalajara, grande città nello Stato di Jalisco, dove ha dipinto i suoi capolavori all’interno dei vasti locali dell’Hospicio Cabafias, un istituto fondato da un vescovo spagnolo. Juan Ruiz de Cabañas, e passato poi alla città.

Le sue pitture sono meno “solari” rispetto a quelle di Diego, e la sua revisione della storia messicana passa attraverso temi traumatici e anche visionari. Sorprendente il suo “Uomo in fiamme” del 1939 che si libra ignudo, salendo in alto con il fuoco, all’interno della cupola del “Cabañas”: una lucida allegoria dell’uomo che, consumandosi nelle fiamme, riceve l’energia per redimersi e rinnovarsi. Sempre a Guadalajara, nel Palazzo del Governo, in cima a una scalinata, c’è una grande immagine di Hidalgo, il sacerdote — patriota animatore della Rivoluzione che, dall’alto, disperde i nemici, ispirato e minaccioso.

L’altro artista importante è David Alfaro Siqueiros (l896-l974). Con Rivera, aveva diviso molte esperienze artistiche in gioventù: Istituto San Carlos di belle arti, viaggio in Europa alla scoperta dei Maestri. Poi era stato esule in America e aveva anche partecipato alla guerra civile in Spagna. In Messico aveva proseguito una intensa attività politica, con qualche temporaneo soggiorno in carcere che non gli aveva impedito di continuare il suo lavoro. Dal 1965 la sua vita si era fatta più tranquilla: nel 68 lu nominato presidente dell’Accademia di belle arti del Messico, e negli anni successivi il consenso si fece sempre più solido. Era un po’ più giovane degli altri due colleghi, di bell’aspetto e pieno di iniziative tra il politico e il culturale. Una grande mostra gli è stata dedicata nel 1976 a Firenze , dove il suo celebre “mural” dal titolo “Cuauhtémoc contro il Mito” , di 95 metri quadrati, è stato riprodotto, su misure reali, nella Sala d’Armi di Palazzo Vecchio, insieme ad. un ancora più grande “Ritratto della borghesia”. Abbiamo accennato in precedenza alla sua amicizia con Rivera, per nulla incrinata da vedute politiche talora in disaccordo.

Breve conclusione per un revival.

Ancora qualche appunto sulla vita di Frida. Giornali e riviste si sono occupati in varia misura di questa eccezionale figura femminile, e parecchi volumi ne hanno tracciata una biografia, da quella molto dettagliata della messicana Hayden Herrera (prima edizione nel 1985), a quella molto didascalica ma accurata di Andrea Kettenmann (2001) , che ha pure scritto su Rivera nel 1997, e a quella infine di Raquel Tibol, sua amica e confidente, da poco nelle librerie (2002), ricca di testimonianze sulla sua casa, le sue abitudini, la sua infermità.

Sulle tracce di questo enorme “revival” cartaceo si è fatto avanti pure il cinema con un film di imminente uscita, “Frida”, prodotto da una società a basso budget, ma supportata dalla Miramax, con un gruppo di interpreti alquanto eterogeneo. Per la parte della protagonista era già caduta una velleità di Madonna ex — incerta Evita canterina, ma comunque devota ammiratrice di Frida. E ora restiamo in attesa della quasi — latina Salma Hayek, con l’appoggio di Banderas (Siqueiros), della Golino (Lupe Marin), di Alfred Molina (Rivera) e di tanti altri. Si era candidata anche Jennifer Lopez come possibile protagonista, ma la cosa non ebbe seguito.

Un tributo alla Kahlo è venuto anche dall’Italia con due mostre, nel corso del 2001, una a Venezia e una a Roma (vedi bibliografia) . In entrambe è stato dedicato un interessante riconoscimento a molti altri pittori del Messico e ai loro capolavori.

comunque devota ammiratrice di Frida. è ora restiamo in attesa della quasi-latina Salma Hayek con l’appoggio di Banderas (Siqueiros) , di Valeria Golino (Lupe Marin) di Alfred Molina (Rivera) e di molti altri. Si era candidata anche Jennifer Lopez come possibile protagonista, ma la cosa non ebbe seguito.

Un tributo a Frida Kahlo è venuto anche dall’Italia con due mostre nel corso del 2001: una a Venezia e una a Roma (vedi bibliografia), e in entrambe è stato dedicato un utile riconoscimento ad altri pittori del Messico e ai loro capolavori.


Storia americana di un’emigrante povera.

Al di là del confine meridionale degli Stati Uniti si sono puntati, per molti anni, obiettivi fotografici d’ogni marca e provenienza. Il fascino del grande paese ha costantemente stimolato una quantità di professionisti della lastra o della pellicola, attirati dai suoi ambienti carichi di storia e di folclore ed esaltati dalla scultorea fotogenia di molti suoi abitanti. Per non dire degli altri obiettivi, quelli della cinematografia, con i suoi storici maestri: Tissé per Eisenstein , e Figueroa per Fernàndez e Buñuel.

L’immagine del Messico ha anche avuto una splendida evidenza per merito d’una donna eccezionale: molto bella, molto devota al suo lavoro, e per di più italiana, che sacrificò la sua arte, e forse anche la sua vita, ad un ideale politico. Questa donna era la fotografa Tina Modotti.

Era nata a Udine nel 1896: da una famiglia numerosa: il padre era muratore, i figli sei in tutto. Giuseppe Modotti, come tanti altri del suo Friuli, era partito per l’America in cerca di lavoro, e si era fermato a San Francisco con la figlia maggiore. La seconda, Assunta (Tina, per tutti), compiuti i diciassette anni si imbarca su una nave piena di emigranti e raggiunge in America il padre e la sorella.

Trascorrerà negli Stati Uniti quasi dieci anni, e sarà per lei una scuola di vita piuttosto complessa. All’inizio, lavora di cucito a domicilio per le signore benestanti, che apprezzano la sua precisione.

Poi è il contatto con una modesta filodrammatica di immigrati italiani a rivelarle una passione per il teatro che lei stessa ignorava, insieme a un grande desiderio di uscire dal ghetto degli stranieri poveri. Nel 1915, visitando un’esposizione, conosce il poeta e pittore Roubaix de l’Abrie Richey detto “Robo”. Di origine franco-canadese, vive a Los Angeles, ed è un intellettuale magro, con i capelli lunghi e lo sguardo un po’ smarrito, come stregato dalla severa bellezza della ragazza italiana.

Tina lascia il suo mondo povero di San Francisco con tante speranze non realizzate, e si trasferisce con lui a Los Angeles, dove poi si sposano. La nuova casa è ampia, e lei può anche dedicarsi a qualche lavoro di sarta per signora, con un certo successo. Ma gli anni che trascorrerà con Robo sono soprattutto caratterizzati da un tenore di vita molto intellettuale e bohème. Lo studio di lui diventa un ritrovo per esperienze artistico-culturali, specialmente quando la fine del conflitto in Europa fa rinascere anche in America un più intenso desiderio di cose nuove. Alcuni amici di Robo si occupano di arte fotografica, e uno di questi è l’olandese Johan Hagemeyer che sta a San Francisco. Tina lo incontra ancora quando va per un certo tempo in quella città a trovare i propri parenti, ormai tutti trasferiti dall’Italia in America. E lui in quell’occasione le farà delle fotografie che sono reputate fra le migliori del suo lavoro.

Arriviamo ora al luglio del 1920. Quasi stupefatta che tutto ciò possa avvenire tanto facilmente, Tina riceve una richiesta da Hollywood per una interpretazione nel cinema. Forse qualche produttore è stato colpito dalla sua personalità nella cerchia di Robo o forse qualcuno l’ha segnalata a San Francisco nelle sue precedenti recite da dilettante: in quel periodo la strada aperta dal grande successo dei film con Rodolfo Valentino è molto favorevole agli interpreti italiani.

E nel novembre dello stesso anno si proietta nelle sale “The Tiger’s Coat” (Pelle di tigre), con Tina Modotti fra i principali attori, diretto da Roy Clements: un dramma nel gusto dell’epoca con qualche tiepido spunto razziale, dato che lei vi interpreta un’avvenente danzatrice messicana.Il successo è discreto, e subito dopo, nel 1921 un altro film “Riding with Death” (cavalcando con la morte), un western nel quale Tina è ancora un personaggio messicano. Infine, nel ‘22, il terzo e ultimo film, “I can explain” (Posso spiegare), e lei ancora è una ragazza “latina” in una commedia brillante e senza drammi.

I due ultimi non sono reperibili, mentre di “Tiger’s Coat” esiste una copia restaurata che in qualche occasione si è anche potuta visionare grazie all’interessamento della Cineteca del Friuli e del suo presidente Livio Jacob, la cui amicizia e disponibilità meritano un sincero riconoscimento.


Weston e Modotti: amore e fotografia.

Abbiamo visto come nello studio di Robo a Los Angeles vi fossero, fra gli artisti, anche alcuni fotografi, come il validissimo Hagemeyer, trasferitosi poi a san Francisco. Un altro fra loro, è Edward Weston , considerato un autentico maestro dell’obiettivo: ha una fama ben meritata e una vasta clientela in America. Ha trentaquattro anni, è orfano di madre fin dall’infanzia, e ha vissuto col padre e una sorella in varie città degli States prima di fermarsi in California. Entusiasta della sua professione, ha raggiunto il successo con tanti anni di sacrifici, senza mai desistere. è sposato, ha quattro figli e una vita coniugale senza storia ma con molte responsabilità.

Conosce Tina quando il rapporto fra lei e Robo si sta dissolvendo, a causa della inconsistenza caratteriale del poeta-pittore, che ormai vede quasi volentieri la nascita di una intensa passione fra sua moglie e il celebre fotografo. E decide intanto di andare in Messico, da dove spedisce lettere piene d’entusiasmo per il nuovo paese, proponendo che lei e Weston lo raggiungano

I due considerano con favore la proposta, e parte lei per prima, mentre Weston la raggiungerà appena libero da impegni di lavoro. Ma proprio nei giorni in cui Tina passa la frontiera, Robo muore improvvisamente con un grave attacco febbrile dovuto, pare, ad un contagio da vaiolo. Nella vita di lei resterà solo un patetico ricordo per quest’uomo votato alla solitudine.

“La Bienvenida”, il benvenuto del Messico a Tina, è una cerimonia funebre nell’enorme cimitero della capitale, il “Pantheon de Dolores”. Robo si era fatto parecchi amici, che la accolgono con affetto e simpatia.

Questa nazione sconosciuta è in un felice periodo di rinascita politica e culturale, con il nuovo presidente Obregon e il suo ministro della Pubblica Educazione Vasconcelos, un innovatore amico di: molti artisti, tra i quali anche Diego Rivera. Tina si sente subito fra gente non estranea (è una “latina” anche lei),e suscitano un grande interesse delle fotografie di Weston che ha portato con sé. Viene allestita un’esposizione, e la gente vi accorre: c’è qualcosa di nuovo che colpisce un po’ tutti.

Purtroppo, nel marzo 1922, Tina deve rientrare subito a San Francisco per l’improvvisa morte di suo padre . In due mesi le sono caduti addosso due lutti.

Colpita dolorosamente nei suoi affetti, si dedica alla famiglia e si stabilisce nella casa di sua madre. Non cerca Weston, ma nel bisogno di dedicarsi a qualcosa che la tenga occupata, si rivolge a Hagemeyer, il fotografo che ha conosciuto l’anno prima e che l’ha già splendidamente ritratta. La personalità di questo artista la sollecita a riprendere confidenza con l’apparecchio fotografico, e non tarda neppure a ritrovarsi con Weston, al quale può subito riferire il grande successo della recente esposizione messicana.

Accanto a Tina che desidera tornare oltre confine, lui esita: si sente incapace di lasciare i suoi figli ed è impegnato con le offerte di lavoro che ha tuttora negli States.

A questo punto, Tina sarebbe anche decisa a partire da sola, ma per fortuna l’ottimo esito di una mostra a New York organizzata da Weston lo riporta ad un buon livello di sicurezza economica, e così partono insieme, portando anche un figlio tredicenne di Edward.

Viaggiano per mare, dalla California fino a Manzanillo, porto messicano sul Pacifico, e poi proseguono con la ferrovia verso la capitale: quasi un viaggio turistico, piuttosto lungo. Li attende una comoda abitazione nella zona urbana di Tacubaya: dal loro tetto si possono vedere i campanili della grande cattedrale del Zòcalo, e in lontananza i due maestosi vulcani.

Questa volta la grande città ha dato davvero il benvenuto ai suoi due ospiti. Tina, nella sua breve permanenza precedente, ha già conosciuto parecchia gente, e dopo pochi mesi è già allestita una nuova mostra per Weston: ancora un successo.


Dalla “Still Life” alle donne Tehuanas.

Durante i mesi tra il 1923 e il 24 Tina vuole dedicarsi a questa novità che la sta affascinando: la fotografia. Edward è ovviamente il maestro, ma molte idee scaturiscono anche dal talento e dall’entusiasmo dell’allieva. La quale, intanto, è il soggetto di alcune splendide fotografie. come alcuni nudi sulla “azotea”, la loro terrazza di casa in pieno sole, e la serie dedicata al suo volto in “Tina che recita”. E poi ancora le “teste” famose, come quella di Lupe Marin, moglie di Rivera.

Intanto i due si trasferiscono in pieno centro, dove in poco tempo la loro casa diventa la sede preferita per artisti, pittori, scrittori. Tina è affascinante, ammirata e corteggiata malgrado la sua consueta austera personalità: è proprio qui che avviene la famosa scenata della Lupe Marin che la accusa di essere l’amante di suo marito Diego. Non vi saranno conseguenze.

I mesi trascorrono veloci. Tina, con il solito impegno che dedica al suo lavoro, si sta rendendo indipendente da Edward nel campo della fotografia: è riuscita a procurarsi una “Korona”, macchina fotografica abbastanza maneggevole in quell’epoca, e va in giro da sola per la metropoli cercando immagini e impressioni. Lui appare lieto di questi suoi progressi, ma Tina sa anche coglierlo in momenti di inquietudine, come assente, e sa che la causa è tutta nella profonda nostalgia che prova per i suoi tre figli lontani. Il figlio che è con loro in Messico è molto affezionato a lei, ma quando Weston decide di andare, almeno provvisoriamente, in America, lo segue.

Adesso Tina è sola. Siamo alla fine del. 1924, e Rivera, in un suo articolo, scrive che “l’allieva di Weston, con il suo temperamento italiano, si armonizza pienamente con le nostre passioni messicane…”

Diego ha ragione: Tina, immigrata di origine proletaria, e senza Weston (che in fondo è più “straniero” di lei rispetto al Messico), sente una speciale attrazione per le persone e le cose con le quali è a contatto, sempre meno superficialmente. Da lui ha imparato la splendida tecnica, ma il lato profondamente umano delle sue immagini non glie lo ha insegnato nessuno. Comincia a fotografare con la sua “Korona” dapprima immagini fisse: particolari di costruzioni industriali, geometrie di fili elettrici, gradinate di stadio, bicchieri…. Ma dal 1925 ci sono anche motivi di fiori, sorprendenti per la loro fisicità, come le sue rose deformi e quasi compresse, e soprattutto i suoi prediletti fiori di “alcatraz”, quelli che da  noi si chiamano “calle”, eretti verso l’alto come sfide provocanti ma tristi. Scrive il suo biografo Cacucci: “Chi sarà mai stato così cinico da dare il nome di un fiore tanto sensuale al carcere di San Francisco?” E Tina, quell’isoletta triste in mezzo alla baia se la ricordava di certo. Gli “alcatraces” torneranno frequenti davanti al suo obiettivo, come pure in molti dipinti di Rivera.

Dal 1926 le sue fotografie si concentrano in massima parte sul materiale umano. Ha potuto procurarsi una macchina “Graflex” che offre maggiori capacità d’impiego, e i suoi lavori acquistano un nuovo livello di espressività, superando i pur bellissimi saggi di natura morta o “Still Life” come dicono gli americani… Sono i suoi anni di gloria: c’è la serie di immagini della “Fiesta a Haichitlàn”, una kermesse di gente povera ma piena di serena allegria (le poche facce sorridenti nella carriera di lei) C’è un altro angolo di “fiesta”, nel 1928, con dei pupazzi di cartapesta che ci richiamano certi particolari del grande film “Que viva Mexico” di Eisenstein (1931), e ancora dei sorprendenti “campesinos” attorno a una ragazza che suona la chitarra, o gli uomini che aggiustano le reti, o un particolare di mani su un badile, e uno scaricatore di banane o un “uomo che legge il “Machete” (che era il giornale comunista del Messico). E tanta vita ancora, senza rigurgiti folcloristici, vita per davvero.

Il meglio dell’arte di Tina si manifesta, a mio parere, nel periodo 1929-30, quando i soggetti sono in massima parte le donne e i bambini. Le donne, in specie, sono le abitanti della regione dell’istmo di Tehuantepec, alte e dignitose nelle loro fatiche, e i loro abiti di festa (che però lei non ritrae) sarebbero diventati il modello preferito di Frida Kahlo, quasi sempre vestita da “Tehuana” anche per celare, con la lunga sottana, la sua povera gamba invalida.

Non cantano e non ballano, le “Tehuanas” di Tina : lavorano o badano ai loro piccoli, ed è un mondo affascinante che ci offrono nella loro splendida povertà.

Lei, accanto a queste donne di un altro mondo, mentre esalta con la sua arte la loro vita faticosa, le sente come sorelle, ed è ancora per un momento la ragazza povera, al lavoro nella “filanda” un po’ grigia, alla periferia di Udine.

Conviene adesso tornare su alcune altre vicende di vita privata. C’è ancora un altro incontro con Weston, tornato per l’ultima volta. Viaggiano per il Messico: Guadalajara, Puebla, Oaxaca. è stata anche inaugurata una mostra “a due” delle loro fotografie, annunciata al pubblico con richiami enfatici, che non piacciono a Tina: un ottimo successo, in ogni caso.

Molte cose stanno però cambiando: le feste con tanti invitati si fanno meno frequenti, anche se è proprio in questo periodo che si rinsalda l’amicizia fra Tina e Frida Kahlo, cancellando alcuni malintesi.

La fine dell’anno è anche la fine degli incontri fra Tina e Edward che torna in famiglia, promettendo un ritorno che entrambi sanno impossibile. Ci sarà una lunga relazione epistolare, e nient’altro: il maestro e l’allieva non si vedranno più. L’ultima lettera che lei gli manda è del gennaio 1931: uno scritto pieno di significato, perché lei gli chiede se conosce qualcuno interessato alla sua macchina fotografica Graflex che vuole vendere. Nella vita di lei, evidentemente, stanno accadendo delle cose molto serie.


L’obiettivo si sta oscurando.

Il congedo da Weston non sembra provocare, al momento, delle serie conseguenze sulla sua produzione artistica. Lei continua, negli anni precedenti il 1930, a fissare sulla pellicola le sue donne povere con i loro bambini e la loro eterna vitalità.

Guardiamo ancora una volta quel braccio di giovane incinta, con l’altro figlio nudo, a cavalcioni sul fianco della madre, oppure quel ragazzo avvolto in una enorme coperta davanti a dei cactus. La polemica sociale, almeno in forma diretta, è quasi sempre assente, ma ecco un’eccezione: un lacero mendicante seduto sul marciapiede, con alle sue spalle un grande manifesto pubblicitario sul “Vestir elegante para un caballero”. E le foto di Tina riscuotono ancora successo, come per esempio una mostra allestita per lei nei locali della “Universidad Autonoma” della capitale.

Abbiamo accennato però a delle cose serie che si stanno presentando nella sua vita: di donna e di artista.

Da alcuni anni è iscritta al “Partido Comunista Mexicano” e fa parte della redazione del “Machete”, proprio il giornale che è intento a leggere quel contadino nella sua famosa fotografia del 1927.

Il suo lavoro le permette una vita abbastanza tranquilla dal punto di vista economico, però i suoi interessi, dopo il distacco da Weston, si vanno sempre più orientando verso il settore politico e sociale. E si apre nella sua vita un periodo piuttosto tormentato, fra nuove persone e nuovi orizzonti.

Conosce Vittorio Vidali, un italiano che, sotto falso nome, è sfuggito all’arresto negli Stati Uniti per attività sovversiva, e poi, qualche tempo dopo, Juan Antonio Mella, un giovane esule cubano che, dal Messico sta lavorando per la rivoluzione del suo paese.

Con Mella ha un’appassionata relazione sentimentale destinata a concludersi tragicamente: il giovane viene abbattuto a colpi di pistola in un agguato notturno, proprio mentre cammina al suo fianco per una strada della capitale. L’episodio scatena su Tina una serie di indagini della polizia: la accusano di “attività rivoluzionaria” e di preparare un attentato contro il Presidente della Repubblica. Viene espulsa dal Messico nell’aprile 1930.

Un lungo viaggio la porta a Berlino, dove la sua collega di lavoro Lotte Jacobi la ospita con molta generosità. Così può riprendere per poco tempo la sua attività di fotografa e organizzare anche una piccola esposizione a casa dell’amica.

C’è una fotografia, “Due anziani allo Zoo” , triste e umoristica insieme, dato il notevole volume corporeo della coppia: un ricordo, forse, per Diego Rivera? Ed è l’ultima sua foto.

Così si può considerare conclusa la storia di Tina Modotti, artista. Tutte le altre vicende, che costituiscono la dura fase conclusiva della sua vita piena di delusioni, sofferenze e vagabondaggi, non vedranno più la grande fotografa con l’occhio al suo obiettivo.

Seguiamola ancora: a Mosca: convocata da Vidali, si impegna nel “Soccorso Rosso Internazionale” per i profughi politici, e nel 1936 è a Madrid, in piena guerra civile, dove conosce Hemingway e rivede Pablo Neruda, già conosciuto in Messico. Conosce anche Robert Capa, il grande fotografo, addolorato per la totale rinuncia al lavoro di quella che è per lui la più illustre collega. Insisterà, senza esito, per convincerla a ricominciare: l’ultima occasione svanisce nel nulla.

Nel ‘39 la guerra di Spagna finisce con la sconfitta di coloro nei quali Tina sperava. Riesce ancora a tornare in Messico dove alloggia in un modesto appartamento della capitale e si guadagna da vivere facendo delle traduzioni: il regime politico è cambiato, e viene pubblicato anche qualche suo articolo.

Il 4 gennaio del 1942 è invitata a cena da un gruppo di fedeli amici, ai quali raccomanda di non presentarla ad estranei: appare molto stanca e invecchiata, e non ha neanche cinquant’anni… Nel corso della serata non si sente bene, e prega che le mandino un taxi per tornare a casa.

Quella notte, la polizia trova un taxi abbandonato in una strada del centro, e sul sedile posteriore c’è il corpo senza vita di una donna. Pare che l’autista sia scappato vedendo che la sua passeggera è morta, e il referto medico è di “arresto cardiaco”. La ridda di ipotesi (suicidio, avvelenamento predisposto, e così via) viene rapidamente messa a tacere.

Tina è sepolta nel  grande cimitero, il “Pantéon de Dolores” dove non è molto semplice trovare la sua tomba. Ha trascorso tutto il resto della sua vita sacrificandosi per una causa nella quale ha creduto, ricavandone solo delusioni e una tragica fine.

La lapide porta alcuni versi che Neruda le aveva dedicato:

“Descansa dulcemente, hermana…”. Sorella, riposa dolcemente…


Conclusione.

Delle tre figure sulle quali ho voluto richiamare la benevola attenzione di chi legge, è senza dubbio Tina Modotti la più patetica, quella che ha sacrificato la sua splendida capacità di artista ad un ideale, che l’ha soltanto, profondamente delusa.

Dalla quasi incredibile attrazione verso la vita di una Frida Kahlo, provata crudelmente nel corpo e nello spirito, ma votata alla sua arte oltre qualunque ostacolo, a un Diego Rivera, con la sua cultura e la sua determinazione a realizzare un ideale di bellezza e di orgoglio patriottico, fino a questa nostra irriducibile idealista con la sua macchina fotografica purtroppo abbandonata nel pieno della sua capacità, possiamo soltanto ricevere un grande esempio.

E’ semplicemente enorme la quantità di opere figurative che nel corso dei tempi hanno messo in evidenza ogni possibile aspetto e della cultura messicana. E nel secolo appena trascorso vi sono tanti nomi la cui fama si è sempre più consolidata nel mondo:oggi i loro anniversari sono diventati delle date da celebrare ovunque con mostre, revisioni biografiche, pubblicazioni di ogni tipo.


Bisogna quindi limitarsi ad. alcuni di questi Autori, in particolare a quelli che portano con sé non solo l’originalità e il pregio delle loro creazioni, ma che ci richiamano da un lato alle loro intense vicende esistenziali, non raramente drammatiche, mentre dall’altro evocano l’epoca in cui tali vicende si svolsero nel loro paese, una grande e suggestiva nazione, piena di fascino e di contraddizioni.


Proprio per questo ho voluto riferirmi soltanto a tre di questi famosi protagonisti, ben consapevole delle tante necessarie omissioni, di cui devo scusarmi. Due di loro furono strettamente uniti dalla loro vita e dalla loro pittura, e la terza persona visse una sua esperienza artistica che non era molto diffusa tra il sesso femminile del suo tempo, quella della fotografia.


Solo tre nomi, in sostanza, ma con tanta arte da farci vedere e apprezzare. E speriamo di riuscirvi.


Bibliografia e iconografia. 
Il contrassegno indica dati bibliografici e iconografici nella stessa fonte.


Andrea Kettenmann, Diego Rivera, un espiritu revolucionario en el arte moderno, Ed. Taschen, Koln 1997, trad. in spagnolo.


Andrea Kettenmann, Kahlo, Ed. Taschen, trad. italiana per “L’Espresso”, 2001


A. Bonito Oliva e L. M. Lozano (a cura di), Frida Kahlo e i capolavori della pittura messicana, Ed. Mazzotta, MI, 2001


Hayden Herrera, Frida, una biografia de F. IKahio, Ed. Diana, Mexico, 1994


Raquel Tibol, Frida Kahlo, una vita d’arte e di passione, Rizzoli, MI 2002


Antonio Rodriguez, Arte murale nel Messico, Ediz. La Pietra, Milano, 1967


Bradley Srnith, Mexico, a History in Arts, Ed. Doubleday & C., N. York, 1968


David Alfaro Siqueiros,: Dipingere un murale,. Fabbri Ed. Milano 1976


Mario De Micheli (a cura di), Siqueiros e il muralismo messicano, Ed. Guaraldi, Firenze, 1967


Antonio Haas e Rodrigo Rivas, Messico, Ediz. Touring Club, It., 1982


José Guadalupe Posada, Popular Mexican Prints, Dover Publ., N. York, 1972


Emilio Cecchi, Messico, Adelphi Ed., Milano, 1985 (su Diego Rivera)


Pino Cacucci, Tina, Edizioni “Interno Giallo”, Milano, 1991


Agostinis Valentina (a cura di), Tina Modotti, gli anni luminosi, Ediz. Cinemazero, Pordenone, 1992


Carlos Fuentes, Los años de Laura Diaz, Ed. Alfaguara (Mex.), 1999, pp. 2l9-262


Articoli su periodici:


Ernesto Gagliano, Morte di una rivoluzionaria, La Stampa, 16-2-92


G. Luigi Colin, Voluttuosa Tina, pasionaria della foto, Corr. Sera, 21-8-92


P.B., Tina, fragile cuore d’acciaio, Il Piccolo, 27-8-92


Sebast. Grassof, Dov’è finita l’epopea contadina?, Corr. Sera, 11-6-1901


Fiorella Minervino, Frida Kahlo, il rinascimento messicano, La Stampa, 23-6-01


Laura Laurenzi, Frida, una passionaria a Hollywood, La Repubblica, 8-6-01


Giusi Ferrè, Messico, la rivoluzione surreale, “Io donna” Suppl. Corr. Sera, 8-6-01


Donata Righetti: Il fascino dell’artista che sedusse Trotzki. Corr. Sera,2-1-02


Paola Piacenza, Sul set di Frida Kahlo, “Io donna” Suppl. Corr. Sera, 8-12-01


L.S., Vita della Modotti in un CD, Messaggero Veneto, 18-10-2001

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