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Cinema

Daniele Auber

Sandwich

Daniele Auber, noto nell’ambiente per la sua specializzazione in effetti speciali, si presenta al festival Alpe Adria in veste di regista. Il suo cortometraggio Sandwich ha riscosso un enorme successo tra il pubblico triestino.

Martina Palaskov Begov (MP): Parliamo del corto, tua prima esperienza da regista. Com’è nata l’idea e come l’hai sviluppata?

Daniele Auber (DA): Di solito a me piace pianificare tutto il mio lavoro, questo invece è nato per puro caso. Mi è stato richiesto di girare una cosetta di trenta secondi. Avevo pensato ad un’idea con un effetto speciale, poi, non conoscendo che cosa stava succedendo in Italia, mi è stato riferito che la mia idea era già stata usata per una trasmissione “orrenda”, e ho quindi dovuto lasciar perdere. Mi restava poco tempo per pensare ad un progetto alternativo. Importante è sottolineare che mancavano i soldi, come al solito. Per fortuna sono stato aiutato dai miei amici che sono: Giulio Kirkhmayr, suo figlio Nicolò di due anni e mezzo, e mio papà. Ho scritto una cosa in quattro e quattr’otto. Abbiamo girato la scena in trenta secondi (era buona la prima) così è nato il corto. Si tratta infatti di una gag d’azione, e per fortuna è risultata buona la prima. Girando la scena, ci siamo poi accorti che era molto divertente. Abbiamo toccato l’apice della nostra carriera cinematografica perché c’è stato il momento magico di quando giri una scena e tutto funziona perfettamente. Per caso, ma anche per bravura degli attori. La situazione è abbastanza “fisica”, non si tratta di una recitazione a parole, quanto a movimenti. Fa morir dal ridere, io mi scompiscio ogni volta che lo vedo. Apparentemente fa lo stesso effetto su tutti quanti, come abbiamo visto, ne sono contento. è la mia prima esperienza ufficiale di regia, anche se in realtà cinque anni fa ho girato un cortometraggio in 16mm prodotto da Sergio Stivaletti, girato in stop motion. Effetti speciali dunque, ma effetti speciali tradizionali che si usavano anche negli anni trenta. Lo abbiamo girato ma poi il progetto si è un po’ arenato perché proprio in quel periodo sono partito per Londra. I negativi delle pellicole c’erano. Stivaletti mi ha poi detto, pochi mesi fa, che ha riesumato le pellicole, ha fatto ristampare quello che mancava, ha fatto un premontaggio con il computer e sembra sia carino. Quindi, credo di aver capito,  riusciremo a proporlo per Alpe Adria del prossimo anno.

MP: Per curiosità… quanto ti è costato il corto Sandwich?

DA: Il costo della benzina da Trieste a Sistiana. Non è costato nulla.

MP: Anche perché non lo hai montato, si tratta di una scena unica…

Sì, si è girato in presa diretta, senza montaggio, senza post-produzione né pre-produzione. Il tempo breve di trenta secondi, questo è quanto effettivamente dura il corto, ci ha molto agevolati. L’unica spesa vera, e per questo motivo ho infatti dovuto chiamare un produttore, è stato il riversamento da digitale (il film è stato girato con una mini DV) a 35mm. Questo è un po’ il paradosso del corto. Infatti il digitale offre un immagine più famigliare, da filmetto domenicale. Noi abbiamo optato per questa scelta proprio per “provocare” il sistema cinematografico di produzione. Alpe Adria è il primo festival che ha accolto il nostro progetto, ma abbiamo intenzione di mandarlo ad altri festival, infatti non può che funzionare come provocazione. è un po’ una vergogna partecipare assieme ad altri cortometraggi meravigliosi che hanno richiesto magari anni di preparazione e di lavorazione. Spero di non vincere mai perché mi sentirei troppo colpevole nei confronti di chi ha lavorato molto più di me.

MP: Parliamo di tuo padre; è un tuffatore professionista, ha partecipato a delle gare?

DA: Mio padre è un grande tuffatore. Ancora oggi, nonostante abbia sessantaquattro o forse sessantacinque anni, partecipa ancora a un sacco di gare e competizioni in giro per il mondo. Si allena molto ed è stato insegnante di ginnastica attrezzistica per moti anni. Da quando ha compiuto cinquant’anni ha deciso di dedicarsi completamente ai tuffi. La richiesta di farlo partecipare mi è nata quasi istintivamente perché non avendo effetti speciali, mi sono rivolto a lui che è una sorta di effetto speciale vivente.

MP: Il successo che hai avuto a Trieste ti spingerà a lavorare di più come regista e in particolare qui a Trieste?

DA: Spero di sì. Sono rimasto molto stupito dall’atmosfera che ho ritrovato a Trieste. Io mancavo da Trieste da quasi dieci anni. Tornavo regolarmente una volta all’anno, ma mai per più di una settimana. Non mi ero reso conto dei cambiamenti. Oltre ad essere cambiata esteticamente, noto che a Trieste ci sono molti focolari di ottimismo che ti spronano a creare. Fino agli anni novanta Trieste dava l’impressione di essere una città deprimente e scoraggiante.

MP: Il famoso “no se pol” (“non si può” in dialetto triestino, ndr).

DA: Esatto! Il famoso “no se pol” che si sta trasformando sempre di più in “fazo mi” (“faccio io”, ndr). Questo deve essere il nuovo motto della città. Questo cinismo, questa voglia di scoraggiare gli animi appartiene a delle generazioni che non hanno più niente da dire; non avevano entusiasmo, non si sono dedicati alla creatività. Non so perché gli abitanti fossero così; per motivi storici forse, la geografia, l’isolamento della città per molti anni. Loro hanno combattuto la guerra, forse hanno avuto tanti casini da giovani che poi hanno voluto riposarsi e basta, da vecchi. Invece c’è bisogno di energia, bisogna farle le cose. Non occorre pensare troppo, basta agire. Questo è un fattore che non manca in altre città, si tratta di giovani insomma… si fa, si gioca, senza cinismo e senza credere che chi ha entusiasmo sia bizzarro. Anzi, bisogna essere anticonformisti per creare cose nuove, bisogna accettare le novità.

MP: Infatti, girando, creando, ascoltando, ci si accorge che ci sono molti gruppetti spaiati che si interessano molto di cinema… non siamo soli?

DA: Infatti, tanto più che nella nostra epoca siamo agevolati dai nuovi media; Internet ci fa sentire molto più collegati al resto del mondo. Possiamo avere amici ovunque e sentirli senza spendere troppo. Tutto è più facile in questo modo, e quindi ci si sente più protagonisti, un motore della creatività.

Mentre i miei coetanei sono rimasti a Trieste, io sono invece scappato da Trieste impaurito e indebolito da questo cinismo. Loro però non si sono rassegnati, hanno continuato a costruire, a creare. Adesso sono diventati grandi, stiamo diventando grandi insieme. Il bello di diventare grandi e che non ci si aspetta tale solidarietà. Quindi, si, mi sento molto ottimista da questo punto di vista. Sono sicuro che si farà molto. Io continuerò a vivere all’estero ma intendo venire a Trieste sempre più spesso.

MP: Parliamo un po’ della tua formazione e del tuo percorso educativo. Hai incominciato al DAMS, per poi collaborare con Sergio Stivaletti, fino ad arrivare al troll di Harry Potter con la Jim Henson’s company…

DA: Detta così sembra una strada facile e veloce, invece è una gran fatica. è difficile cercare di seguire i propri istinti creativi, ma non solo, difficile è anche scegliere un mestiere che ti piace. Dovrebbe essere una cosa facile da fare nella vita. Invece non lo è. L’unica eccezione è forse quella di essere ricchi, allora non hai il problema degli affitti e se ti piace puoi anche fare lo spazzino. Tante volte ti trovi di fronte alle bruttezze delle vita cercando di consolidare il tuo percorso lavorativo, ma non solo. Trovarsi in una città straniera, da solo, non è cosa facile. Londra è affascinante, ma a momenti disarmante, piena di solitudine. Credo però che superando queste prove si diventa più forti e motivati anche se gli esami da superare nella vita non finiscono mai.

Il comune denominatore del mio percorso è quello di aver fatto quello che mi piace. Il mio interesse per il mondo degli effetti speciali è incominciato quando ero un bambino. Mi piaceva scolpire, disegnare, avere a che fare con i meccanismi, la fotografia. Gli effetti speciali comprendono un po’ tutte queste discipline. Poi in realtà ho tentato, lungo la strada, di cambiare mestiere, poi mi sono un po’ ricreduto. Infatti per costruire un mestiere ci vogliono una decina d’anni. Io ho tentato di cambiare mestiere approfittando del famoso colpo di fortuna, ma anche in quel caso, l’esperienza conta molto. Cerco di combattere la noia del lavoro rigenerandomi in qualche modo; e rigenerarsi può anche significare cambiare ambiente, cambiare città. Ciò è fondamentale per me. Mi riesce difficile fermarmi troppo in una città. Di solito non resisto più di tre anni. A Londra sto resistendo bene perché la città è talmente caleidoscopica che si trasforma da sola, in continuazione.

MP: Vorrei che tu mi citassi e mi parlassi di qualche mostriccio o effetto speciale che hai creato in Italia e in Inghilterra e poi vorrei parlare delle differenze tra il metodo italiano e quello anglosassone di lavorazione.

DA: Tra i film italiani a cui ho collaborato credo che quello che mi ha dato più soddisfazioni sia stato Nirvana di Gabriele Salvatores, per il quale, assieme a Sergio Stivaletti, che in Italia per lo più ha lavorato assieme a lui, ho avuto l’opportunità di fare il design di molti oggetti di scena e poi di costruirli. Bello, molto interessante perché di solito in Italia non si girano film di fantascienza, in quanto per fare un film di questo tipo è necessario avere a disposizione un grosso budget, molti soldi proprio per gli effetti speciali. Non avevamo molti sodi in ogni caso, ma Gabriele, essendo un regista molto attento a quelle che sono le tecniche internazionali, si è concentrato molto sullo storyboard, che sarebbe la pianificazione dei film per immagini prima di girarlo; come un fumetto. Questa fase è fondamentale per la creazione di effetti speciali, in quanto solo così si riesce a capire cosa ci sarà nell’inquadratura, di cosa si avrà bisogno come materiale, che cosa bisognerà costruire. Salvatores è riuscito a costruire il film ad occuparsi di una pre-produzione ben programmata e quindi siamo riusciti a fare un film di fantascienza, di sapore gibsoniano, cyber punk. Io sono un fan della fantascienza contemporanea, e mi sono divertito molto a creare i caschetti per la realtà virtuale, oppure le telecamere attaccate sugli occhi di Sergio Rubini, poi ancora una pistola inalatrice di marijuana liquida.

Un altro film dove abbiamo fatto dei mostri che mi sono piaciuti è stato Dellamorte Dellamore, un film di Michele Soavi con Rupert Everett, anche quello più o meno un fumettone, infatti era un po’ la storia di Dylan Dog. Un film surreale, di zombie, non era male… molto divertente.

E poi un sacco di altri mostri e creature del fantastico. Ho lavorato a molti film italiani nel corso degli anni novanta. Anche con Dario Argento. Mi ricordo di un bellissimo pesce che abbiamo costruito per La Sindrome di Stendhal. Un pesce che abbiamo anche fatto nuotare, siamo andati all’isola di Ponza, nel mare e questo pesce nuotava veramente sott’acqua.

Per quanto riguarda l’altra domanda: la grande differenza tra il metodo anglosassone e quello italiano… Le differenze riguardano i soldi e il senso dell’organizzazione che comprende i soldi. Il problema dei soldi riguarda principalmente l’economia di un paese mentre l’organizzazione è una differenza culturale. Entrambi questi fattori possono essere usati in modo costruttivo per la creazione di un film. Vorrei, personalmente, capra e cavoli, ovvero vorrei fare un film con tanti soldi, con un’ottima organizzazione ma anche con un ingrediente del tutto italiano, ovvero il senso dell’inventiva, che va al di là dell’uso spropositato del denaro. Chissà, forse a Trieste riusciremo a farlo visto che siamo un po’ in mezzo a tutto.

MP: A proposito del famoso senso d’inventiva italiana, parlaci un po’ dell’aneddoto che hai raccontato all’incontro con il pubblico di Luca Barbareschi alle prese con un travestimento.

DA: Di aneddoti ne avrei milioni e miliardi da raccontare poiché nel mio lavoro le vicende divertenti non mancano. Sembra però eccitante che il nostro lavoro sia pieno di imprevisti, invece si tratta di problemacci. Questi problemi che devono essere risolti istantaneamente possono essere risolti in modo simpatico mantenendo la calma, oppure ci sono delle persone isteriche con le quali è terribile lavorare. Sergio Stivaletti, per esempio, che all’epoca era il mio capo, e con il quale mi è capitata questa disavventura, è una persona molto calma, con una filosofia dell’arrangiarsi estremamente particolare. Lui non mi fece pesare affatto lo sbaglio che avevo commesso. Insomma, io dimenticai al laboratorio una protesi per trasformare completamente il viso di un attore. La mancanza di questa protesi determinava il fallimento del progetto, dell’effetto speciale. Dovevamo trasformare Luca Barbareschi in un africano; doveva essere irriconoscibile. Bisognava infatti fare una “candid camera” alla madre, quindi il figlio doveva essere un’altra persona. Io mi ero dimenticato la protesi che avrebbe cambiato il naso e le labbra di Luca. Sergio, per risolvere il problema, non facendo capire chiaramente nulla all’attore, facendo finta che fosse tutto in ordine, ha riempito il naso dell’attore con un sacco di cotone, poi ha colorato il cotone bianco di scuro e ha attaccato dei peli finti. L’effetto era perfetto; poi con la dentatura, le lenti a contatto, la parrucca, il colore della pelle e il costume, per fortuna la madre ci è cascata come un pesce. Abbiamo avuto un po’ di paura. Per realizzare quella trasmissione ci siamo divertiti un mondo. Abbiamo infatti fatto degli scherzi a quasi tutti i presentatori della Fininvest, all’epoca, che tra l’altro credo siano ancora gli stessi e saranno sempre gli stessi. Si trattava di scherzi veri, non come io pensavo che potesse essere lavorando in TV. Tanto autentici che sono volati dei licenziamenti. Lo scherzo che abbiamo fatto a Mike Buongiorno è stato fenomenale. Credo che Mike si fosse poi anche opposto alla trasmissione dello scherzo.

MP: Parliamo un po’ di Harry Potter e del troll. Sei contento del film e dell’effetto speciale?

DA: Dell’effetto sono molto contento. Innanzitutto si tratta del film più grosso e costoso a cui io abbia lavorato. Mi sono trovato coinvolto in questo progetto perché i produttori del film si sono rivolti alla Jim Henson’s company con la quale io già stavo lavorando.

Penso inoltre che gli effetti speciali del film siano la parte migliore della pellicola. Per me è stata una grossa opportunità e un grosso onore. Ho imparato molto anche dai colleghi, che sono tra i professionisti più bravi al mondo. Mi sono reso conto, lavorando al film, fino a dove riesce a spingersi il business cinematografico. Durante le riprese mi sono accorto che tutti sapevano fare il loro mestiere, ma ci vuole la convinzione che gli altri ti spronano ad avere per poter essere i più bravi. I più bravi sono infatti bravi come tanti altri, però per la loro reputazione, per il loro curriculum e per come gestiscono la loro immagine, diventano i più bravi. Questa per me è stata una grande e importante rivelazione. Hai fiducia in te stesso e la gente ti consente di arrivare a quei livelli. è una questione di organizzazione aziendale per noi che siamo dei liberi professionisti. Delle conferme insomma che sarebbero rimaste solo delle supposizioni se non avessi lavorato ad un film del genere. La fiducia che ho avuto in me stesso cerco adesso di poterla comunicarla agli altri. La creatività richiede l’azione, l’agire. Dobbiamo creare e basta. Ci sono infatti delle zone del mondo dove si pensa che le persone siano maggiormente autorizzate ad avere idee e a realizzarle. E in altre zone, come Trieste fino a questo momento, dove sembra di essere in una qualche periferia nella quale non si crea nulla. Invece è un puro fatto di autoconvinzione. Si può creare ovunque. Certo ci sono dei luoghi dove il mercato offre più possibilità di mettere le proprie idee in pratica, ma tutto ciò non ha nulla a che fare con la creatività e la qualità del progetto.

MP: Ti pongo una domanda sulla filosofia degli effetti speciali. A mio avviso infatti stanno diventando talmente speciali e ricercati che paradossalmente sembrano alimentare l’esplicitazione della messa in scena. Non credi che si stia talmente tentando di emulare troppo precisamente la natura da renderla fasulla. Mi spiego: più effetti, meno risultato?

DA: Ti do perfettamente ragione. Si potrebbe ritornare sul discorso che facevo prima delle grandi differenze tra l’Italia e L’Inghilterra o l’America per esempio. La mancanza di soldi porta il cinema nostrano verso l’inventiva. Si escogitano dei pretesti per ottenere un risultato valido senza il bisogno di spendere troppi soldi. Solo in questo modo, a mio avviso, si creano le vere emozioni di paura. Pensiamo ai film noir o ai primi film del terrore. C’è un film che si chiama Cat People, di cui è stato girato anche un remake negli anni ottanta con Nastasha Kinski. Paragonando le due versioni, anche se il film degli anni ottanta è una pellicola meravigliosa, e anche innovativo dal punto di vista degli effetti speciali, si nota che il remake manca di inventiva. Ovvero, mentre la pellicola più nuova è molto evidente dal punto di vista degli effetti speciali, nel film originale ciò che incute paura è la presenza del male, del mostro, dell’assassino. Negli anni in cui è stato girato Cat People, gli effetti speciali come li conosciamo noi non esistevano e per simulare la presenza di una pantera, in questo caso, si usavano degli altri tipi di escamotage. Questa è una tecnica usata anche da registi a noi contemporanei come, ad esempio, Dario Argento; è un suo trucco, una sua caratteristica. Dario fa capire che nella stanza assieme al protagonista c’è anche qualcun altro. Non si conosce l’identità della persona e non si sa dove si nasconde. Si percepisce solo la presenza dell’individuo, facendo vedere solo un dettaglio, una mano, un piede. La paura nasce dalla sensazione di trovare o scoprire un qualcosa che non c’è che non si vede; come l’aspettativa, il rimpianto, non c’è, non è tangibile. Quindi per far nascere paura bisogna creare qualcosa che non c’è.

Personalmente, infatti, non vado a vedere al cinema film d’azione con troppi effetti speciali, perché mi infastidiscono molto. Se la qualità degli effetti speciali deve togliere terreno alla storia e all’intreccio, allo spessore emotivo, all’armonia di una sceneggiatura, non mi interessa più il film. Non è quella la mia idea di intrattenimento.

ME: Non credi che le persone, gli spettatori vengano un po’ troppo viziati dagli effetti speciali tanto da ripudiare capolavori come Io ti Salverò o produzioni datate?

DA: Penso che questa sia una reazione abbastanza superficiale di una parte del pubblico superficiale. Il pubblico reagisce all’informazione delle pubblicità e si rifanno ai cliché che stanno dietro all’informazione mediatica. Questa fascia di pubblico, purtroppo per me maleducata, è la maggior parte del pubblico cinematografico di oggi. Si tratta delle persone che portano però i soldini al cinema. Quindi è un po’ un problema, io non dovrei parlare male di questa fascia di persone. Queste persone non sono altro che il cittadino medio, di cui non si dovrebbe parlare male, invece a mio avviso bisogna. Non si può andare avanti accontentando il cittadino medio.

Il discorso è lo stesso se si fa riferimento alla televisione, che impoverisce la qualità del prodotto. Per fare audience si fa quello che si suppone voglia la gente, il pubblico riceve quello che si suppone lui voglia; questa è una reazione a catena che mi ricorda molto il fenomeno della mucca pazza, che viene nutrita con carne di mucca e quindi, mangiando se stessa, ne ricaviamo un vero mostro, non come quelli che progetto io. Secondo me il grande pubblico sta subendo da parte dei media una violenza del genere che non è costruttiva, anche perché in questo modo non si permette più ai creativi, agli artisti di adempiere al loro ruolo sociale. Infatti si tratta di artisti, non bisogna avere paura di dirlo: sono artigiani, non chiromanti che vendono fumo. Il medio, infatti non vuole inventare, ma riproporre, e se si permette di inventare, il fine è comunque l’acquisizione di denaro. Questo è un discorso un po’ difficile da fare, soprattutto per me, che non sono bravo a fare politica. Ma io parlo a nome di tutti gli spettatori di cinema che come me sono infastiditi da questo fenomeno.

MP: Secondo te anche gli effetti speciali possono essere divisi tra commerciali e d’essai?

DA: Probabilmente si, anche se è difficile dirlo. Infatti chi determina la riuscita di un buon effetto speciale è la regia del film e lo stile del film. Se io quindi rappresento una compagnia di effetti speciali che offre un servizio a una casa di produzione cinematografica, mi adatto allo stile che mi viene richiesto. Sta nella mia bravura accontentare l’esigenza del regista. Quindi credo che una buona compagnia di effetti speciali dovrebbe essere in grado di offrire dei buoni prodotti per ogni tipo di film.

Ripensandoci, però,  penso che l’effetto in sé possa essere lo stesso per ogni tipo di film. E forse il design che crea la differenza. Un po’ come un quadro che può essere più o meno raffinato, particolare o di cattivo gusto. Penso alle creature per film di cassetta o per bambini che seguono dei cliché di cinema fantastico di tipo classico. Oppure ci sono creature come il primo “Alien” che è stato un bellissimo esempio di un nuovo tipo di creatura, e  anche il modo in cui il film è stato girato ricorda una pellicola molto raffinata. Questo è un esempio di un grosso film, per un grande pubblico, che però è stato in grado di soppesare con buon gusto le scelte cinematografiche e creative. La creatura non si è rivelata al pubblico subito, e a poco a poco l’alien ha fatto il suo ingresso in scena mantenendo fino alla fine quell’alone di mistero a cui mi riferivo prima. Quello è un film in cui le emozioni e gli effetti hanno un giusto equilibrio.

MP: Con le nuove tecnologie — internet, macchine digitali e via dicendo —, un esperto di effetti speciali deve ancora saper disegnare?

DA: Decisamente sì. Gli effetti speciali sono divisi in diversi campi. Ci sono gli effetti ottici, quelli digitali, ci sono anche le esplosioni e gli spari. A volte l’artigiano dell’effetto speciale non ha bisogno di avere un ricco background artistico, però parlando di creature che è il campo che mi riguarda in particolare, allora si. Bisogna studiare alcuni principi di anatomia, elementi di disegno, la teoria del colore, le forme. è indispensabile avere queste nozioni, in quanto l’avvento del computer è fantastico, ma si tratta pur sempre di un mezzo per facilitare l’espressione delle nostre idee. Il computer non inventa niente per noi; lui è un nostro aiutante, un esecutore, niente di più. Tutto parte da una ricerca individuale e lo studio della storia dell’arte conta molto. La Storia dell’Arte ha sempre degli spunti utili da cui imparare e riutilizzare. C’è infatti un bisogno di rigenerazione e di riportare in vita archetipi e personaggi che già esistevano prima. Vediamo come ogni tanto riappare un nuovo tipo di Frankenstein, un nuovo tipo di Dracula, un nuovo tipo di Oliver Twist, sono tutte cose che ritornano.

MP: Adesso ti stai accingendo a fare un corso: ti senti pronto ad insegnare e cosa hai intenzione di insegnare? Come si svilupperà il corso?

DA: Il corso sarà basato sul design di creature. Perché tra tutti gli effetti speciali ho scoperto che questa è la tematica che più mi interessa e sulla quale forse ho più da dire. Avrei potuto scegliere di fare un corso di make-up tridimensionale o di animatronics, però le creature, a mio avviso, contengono tanti spunti per realizzare la fantasia. Il cinema e gli effetti speciali in particolare hanno il potere materializzare un sogno, un folletto, una creatura appunto. Si tratta di ricreazioni di vita, di reinterpretazioni di vita. Vedere la realtà che imita l’arte o l’arte che imita la realtà sembra essere un punto di vista che interessa maggiormente il critico o lo spettatore. Mentre a creare l’Arte, fai parte dell’atto creativo, costruisci qualcosa. Bisogna credere nella riuscita della creatura, immaginarla viva. Secondo me questo è l’aspetto più affascinante del mio mestiere. Questo è il motivo per cui ho scelto di insegnare a farlo. Solo emozionandoti riesci a trasmettere veramente la tua Arte.

MP: Prossimo progetto?

DA: Ne ho diversi: a breve, a lungo e a medio termine. Il progetto che mi emoziona di più tra questi è uno che riguarda sempre la creazione di creature, ma non per corti o lungometraggi, bensì per la carta stampata. Metterò a disposizione il mio mestiere per fotografare e per assemblare varie tecniche. Farò una mostra e poi un libro. Il motivo per cui ho scelto di avviarmi verso un progetto del genere è perché ho bisogno di avere la totale padronanza sul progetto. Lavorando a un film, infatti si è sempre la rotella di un ingranaggio più grande, soprattutto nei film molto costosi. Ho voglia di fare una cosa completamente mia, scritta e inventata da me. Credo che possa essere un progetto che anche economicamente mi offre la possibilità di esprimermi completamente.

MP: Tu quindi costruisci la creatura, la fotografi e poi? C’è una storia, si tratta di una sorta di fumetto?

DA: Si, esattamente, però non posso dire la storia (ride). Non lo voglio fare perché poi perdo l’emozione di farla e di giocarmela come vorrei. Sarebbe come raccontare un segreto che poi non ha più la forza di un segreto. Devo tenerla segreta per poi continuare a farla crescere.

Una ripresa amatoriale su un pontile in una bella giornata d’inverno. Un giovane uomo e suo figlio ci salutano lanciando ai pesciolini pezzetti di sandwich. Dietro di loro un uomo anziano si gode il sole. Improvvisamente il panino cade in mare, il bambino ne rimane deluso, e il vecchio, in un eccesso di apprensione dovuto alla sua vita solitaria, si precipita per recuperarlo…


(fonte: www.spin.it)

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