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Palcoscenico

Giancarlo Cortesi

Tra teatro e vita

Cortesi in Finale di partita di Samuel BeckettRiccardo Visintin (RV): Siamo quasi alla fine delle repliche triestine dell’ “Otello” e abbiamo il piacere di incontrare un protagonista dello spettacolo e un amico di Trieste: Giancarlo Cortesi, un attore appunto non nuovo ad esperienze triestine, che poi magari ci racconterà. Partiamo — ed è un piacere — dallo spettacolo: Giancarlo, un bilancio, vista la finale, questa “finale di partita” citando Beckett, ed un accenno sul tuo ruolo, a come tu l’hai vissuto anche da un punto di vista emotivo.

GC: Mah, l’inizio di questa avventura è stato il fatto che Antonio Calenda mi ha chiesto se volevo fare il Doge, che è una piccola parte nella tragedia. Però è  comunque quella politica della situazione, in quanto il Doge è colui che adopera Otello, lo manda contro i Turchi, poi quando arriva a Cipro lo defenestra, una volta usato lo butta. Quindi, dato che Antonio Calenda ha voluto proprio impostare questo “Otello” sulla incomunicabilità dei personaggi e sulla commerciabilità di come vengono adoperati gli uomini (Otello appunto è il puro), a  questo punto il personaggio del Doge acquista una valenza un po’ più profonda, e l’ho vissuto bene, devo dire. Non so perché… Io nella vita sono un essere umano buonissimo, disponibilissimo, e in scena mi fanno fare generalmente i perfidi, non riesco a capire, comunque va bene.

RV: Forse è la legge del contrappasso…

GC: Sì, a volte, facendo sulla scena quello che uno “non è” nella vita, lo si fa meglio.

RV: Senti, Giancarlo, Shakespeare è un autore che non conosce “tempi”, le barriere del tempo.
Lo stiamo vedendo: nell’anno di grazia 2002 “Otello” è uno spettacolo su cui si potrebbero imbastire — e infatti si imbastiscono — saggi e conferenze come quella a cui abbiamo appena assistito, nonché incontri.
Quindi bisogna dirlo, l’attualità di Shakespeare è un dato inconfutabile.

William ShakespeareGC: Sì, facendo teatro da più di quarant’anni, io sono dell’idea che  gli inglesi possono manovrare Shakespeare come vogliono, perché, come diceva oggi Peter Brown, hanno proprio una tradizione di questo tipo. E la poesia di Shakespeare, che noi non possiamo tradurre (il “blank verse” noi non riusciamo a tradurlo), è una cosa particolare: loro lo possono stravolgere, capovolgere, attualizzare. Secondo me,  attualizzare un testo classico — sia la tragedia greca, sia tutte le cose di Shakespeare –  è un discorso che personalmente non condivido molto, perché i contenuti sono già di per sé attuali: se tu pensi ad “Otello”, il parlare dello Stato interno a questa tragedia. È inutile, la Parola è la Parola.
Sai, c’era un mio grande amico, che voi forse non conoscete, si chiamava Giancarlo Sbragia…

RV: Oh, come no, un grandissimo attore…

GC: Ecco, un grande amico… Ho lavorato con lui per dieci anni. Mi diceva: “Mescola che ti rimescola l’uomo poi tira sempre il solito minestrone: una volta viene a galla la zucchina, una volta viene a galla il fagiolo, una volta viene a galla il sedano, però la minestra è sempre la stessa”.

RV: Tu sei un attore che ha più di quaranta anni di carriera alle spalle: c’ è un leit-motiv che in qualche modo  cerchiamo sempre di portare avanti nei nostri incontri con gli attori, specialmente con quelli che hanno molto passato da raccontare, cioè la differenza che esiste tra la vostra generazione (una generazione che ha vissuto un certo tipo di background, di esperienze) e quella attuale.
Tu nominavi prima Giancarlo Sbragia, ma potremmo nominare alcune persone che ci hanno lasciato in questi ultimi dieci — quindici anni, che si chiamano Gianni Santuccio, Salvo Randone, Enrico Maria Salerno, e parecchi altri.
Qualcuno dei tuoi colleghi — Glauco Mauri  per ultimo — in effetti ha confermato: “Forse è vero, noi avevamo un po’ più di capoccia, un po’ più di testa dura, e sanguinavamo di più sui testi. Oggi i ragazzi hanno un po’ la sindrome del tutto e subito”. Io ti chiedo subito una conferma od una smentita…

Cortesi e Osvaldo Ruggieri nelle CoeforeGC: Guarda, i ragazzi ci sono e ce ne sono di molto bravi. C’è un problema grosso secondo me, cioè un po’ di superficialità, ma quella l’abbiamo avuta tutti da giovani.
Perché da giovane hai questa irruenza, questa volontà di fare, credi di poter fare tutto, no? 
Però quello che io credo è che oggi ci sia una grossa offerta di attori e troppe scuole di teatro: alcune sono ottime, altre sono proprio da evitare. Poi oggi c’è un discorso molto serio che è quello della televisione, che tutti cercano di fare, perché la televisione è quella che ti dà poi la fama, comunque, oltre che il soldo, a volte.
Per quanto riguarda gli attori, alcuni sono mediocri, ma in genere molti giovani sono bravi: qua (nel cast di “Otello”, ndr) per esempio c’è Braidotti che è proprio bravo: è giovane e irruente, però la stoffa c’è, come in Sergio Romano; Rossana Mortara è molto brava: la Desdemona è il primo ruolo importante che fa ed ha lavorato molto, e — come dice Mauri — ha lasciato veramente sul testo il sangue, povera… Devo dire veramente che è stata molto brava, e molto seria. Infine bisogna vedere anche con chi lavori, perché lavorare con Calenda è un discorso, poi magari lavori con un regista di minor valore e la questione è un’altra, capito?

RV: Senti, Giancarlo, avvicinandoci anche un po’ alla chiusura di questo incontro, si dice — anche questo è un dato inconfutabile — che il teatro è scritto un po’ sull’acqua, è un’arte che vive nel suo esserci.
Vuoi regalarci qualche souvenir di questi quaranta anni di carriera? Ad esempio i ricordi del tuo primo spettacolo, qualcuno dei tuoi colleghi che ti è rimasto nel cuore, qualche bella rappresentazione alla quale pensi quando hai bisogno di vincere la malinconia che capita a tutti…

GC: Devo dire che la persona che mi è rimasta nel cuore è Giancarlo Sbragia, che mi ha insegnato moltissimo. Infatti quando è morto sono rimasto tre anni fermo perché non volevo più lavorare. 
E gli spettacoli che io ho amato di più… È stato uno che ho fatto molti anni fa con la Compagnia Majakovskij,  per la regia di Luciano Meldolesi: si trattava  “Anatol” di Schnitzler. Adoro Schnitzler, adoro la Mitteleuropa.
Un altro personaggio invece che mi è rimasto nel cuore è un “cattivo”: Lhereux della “Madame Bovary”, sempre con Giancarlo Sbragia, dove ero veramente un serpente.
Però devo dire che più o meno tutti i personaggi mi hanno dato qualche cosa. Non so, prima hai citato “Finale di partita”: io l’ho fatto che avevo ventisei anni, ero giovanissimo… Beckett è un altro  grande, così come Shakespeare. Attento: secondo me Beckett è un classico, ormai.
E poi altri, altri… Sai, ne ho fatti parecchi. Ne ho fatte tante di cose nella mia vita: ho fatto le regie, ad esempio “Il drago” di Schwarz. Tra tutte le mie esperienze però. devo dire che la più importante per me è stata l’incontro con Giancarlo Sbragia. Come ti ripeto dopo la sua morte mi sono fermato tre anni perché non volevo più lavorare, poi ho ricominciato ma è stato veramente un dolore molto grande.

Cortesi in Madame Bovary

RV: Questo secondo me è importante: il rapporto che si crea con dei grandi attori è la dimostrazione che l’amicizia e la conoscenza, o l’amore, in certi casi, partono dal palcoscenico, e una volta scesi dal palcoscenico vanno avanti fino a queste belle dimostrazioni di affetto reciproco.

GC: Oltretutto con Giancarlo c’è stata prima una intesa proprio artistica, perché concepiamo… vedi, ne parlo al presente… Concepivamo l’emissione della battuta in una certa maniera, facendola cioè passare attraverso il cervello.
Più che essere emotivi, passionali, eccetera, passavamo attraverso il cervello.
Quindi c’era un’intenzione ed un’intesa proprio artistica quando ho cominciato nel 1983 con lui. Poi lentamente — dopo un anno, dopo la Bovary appunto — è nata un’amicizia. Ti racconto questo episodio: per Lhereux, avevamo fatto la “Professione della signora Warren” dove io facevo Breed, e mi dice: “Leggiti per favore la Madame Bovary perché il prossimo anno facciamo Madame Bovary”.
Allora mi sono letto Madame Bovary e mi sono detto: “Mmm… qua sicuramente mi fa fare Lhereux… va be’, vediamo…”.
Vado a parlare con lui, e immaginavo Lhereux completamente glabro, proprio completamente pelato, come una salamandra.
Sono andato da lui, abbiamo parlato, e mi ha detto: “Hai letto?”, e io “Sì l’ho letto, be’, è sempre bello, l’avevo letto da ragazzo…”
E lui: “Che personaggio credi di poter fare?”
Io ho detto: “Io lo so, vediamo se è lo stesso che pensi…”.
Mi risponde: “Io ho pensato che tu dovresti interpretare Lhereux”.
Ho detto: “Anch’io… e sai come me l’immagino?”.
Dice: “No”.

Il disegno originale di Lhereux“Lo immagino glabro, completamente pelato, con “l’occhio americano” — c’è una battuta che lo dice — come una salamandra”.
Lui è stato un momento zitto, ha aperto un cassetto, mi ha tirato fuori un disegno che aveva fatto lui e che poi mi ha regalato: era esattamente quello che dicevo io. Pensa a quando accennavo all’intesa artistica.

RV: È un episodio molto bello: lo mettiamo nello scrigno di Fucine Mute, tra le perle dei racconti teatrali.

GC: Se vuoi con lo scanner ti mando anche la foto…

RV: Ma ben venga…

GC: Un disegno di Giancarlo Sbragia, e ci ha scritto sopra: “da GC a GC”.

Particolare del disegno di Giancarlo Sbragia

RV: Come ho detto all’inizio Trieste è una città che non ti è del tutto sconosciuta.

GC: No, Trieste è una città che io adoro. Mi piace stare a Trieste, mi piace vivere a Trieste, mi piace passeggiare sul Molo Audace, per le rive…
Trieste è una città che adoro perché è città di confine, ed io adoro sapere che dall’altra parte c’è qualche altra cosa. Poi è una città multiculturale, è una città di gente di varie estrazioni, ed anche mescolata proprio con l’ Austria. Infine è una città di cultura.

RV: Ricordi la prima volta che sei venuto a recitare qui?

GC: Sì, la prima volta è stata con Giancarlo, mi pare… O con la Warren o con la Bovary, non mi ricordo bene, però è stato proprio con Giancarlo. Poi sono tornato con Olmi, con “Piccola città”, poi sono tornato…

RV: … Con “La mela magica”, può essere?

GC: Con “La mela magica”, bravo, con Giancarlo… O forse anche prima, con la Compagnia di Bruno Cirino. È possibile, adesso non ricordo, con “Tamburi nella notte” o qualcosa del genere…

RV: Anche Bruno Cirino va messo nel gruppo di attori che non ci sono più. È in qualche modo l’immagine speculare di quello che dicevo prima sul teatro che si scrive sull’acqua, però poi gli attori contano.

GC: Il teatro lo si scrive sull’acqua, perché stasera andiamo in scena per l’ultima volta, ed effettivamente, Riccardo, ieri sera era una cosa, stasera sarà un’altra, e poi a Gorizia sarà un’altra ancora: nel senso che diciamo sempre le stesse battute, però è il “flatus vocis” a passare…

RV: Io ti ringrazio moltissimo e, non solo perché c’è un rapporto d’amicizia tra di noi, ti faccio un apprezzamento sincero: credo fermamente che di attori come te, di persone che amino profondamente il teatro ci sia sempre più bisogno. Siamo sempre più bloccati dagli schermi e dai televisori, in qualche modo dalla tecnologia che pure è il nostro pane in questo momento. Però abbiamo bisogno della parola e della voce dei poeti, abbiamo bisogno che l’evento artistico che si chiama ” teatro” viva, venga fatto conoscere.

GC: Che per carità non muoia… Ma non sono contro la tecnologia, io… Anzi, io sono un fanatico di Internet, proprio un fanatico, però il tutto deve essere adoperato con il cervello.
Io spero che il teatro non muoia: guarda, Riccardo, se muore il teatro significa che l’uomo non ha… 
Pirandello diceva “il teatro è la vita”, ed è la vita. Sul palcoscenico noi rappresentiamo la vita, e tra noi attori si instaura un tipo di discorso che è”la vita”, credimi.

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