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Percorsi

“Giornalismo all’italiana” di Lami: storia di censura

Parlare di un saggio sul giornalismo pubblicato anni fa potrebbe non essere attuale, questo se siamo convinti che la storia del nostro paese non abbia riflessi sulla quotidianità. Tuttavia il ricordo di qualcosa fa riflettere, spesso pone dubbi, ma banalmente ci consola e a volte dà spiegazioni.

Che il giornalismo italiano fosse al 41° posto nella classifica internazionale di attendibilità delle notizie, si poté osservare al G8 di Genova, evento più complesso del piatto di scandali al servizio della televisione, G8 che meglio si riassunse nella cronaca di giornalisti che dal campo trasmettevano alle radio.

Probabilmente oggi i pochi lettori di quotidiani stanno già pensando al gadget del mercoledì o al posticipo del campionato piuttosto che interessarsi alla notizia; altri nostri compatrioti sono colpiti dall’immagine della disgrazia che come briciola di mondo e di verità i tg lanciano sulla massa e sui numeri dell’audience.

Meditando su questa situazione mi viene in mente quel che scrisse Cioran, intellettuale rumeno, nel suo libro Storia e Utopia: gli uomini non hanno mai composto una rivoluzione esclusivamente a causa delle condizioni in cui vivevano; gli uomini si sono sollevati, toccati dalla sola possibilità di realizzare una idea (cosa estremamente diversa da quella “Utopia” irrealizzabile e poco umana di un Tommaso Moro) anche piccola.

Così le rivolte agrarie del Mezzogiorno negli anni ’50 del secolo scorso hanno la dignità di una rivoluzione — c’è da dire che il governo De Gasperi fu costretto a riformare il comparto dell’agricoltura, e se consideriamo la consapevolezza che i contadini ebbero della democrazia, pur spinti dal partito comunista, giungiamo alla comprensione che la possibilità di cambiare attraeva molto di più questi ultimi che non i senatori che avevano redatto la Costituzione Italiana, tra l’altro validissima, ma che non fermava il latifondo.

Trascurando le riforme mai impeccabili nel nostro paese (con la riforma agraria furono distribuite le terre peggiori, cioè quelle di cui i latifondisti si erano sbarazzati volentieri) la situazione del giornalismo italiano vorremmo che deflagrasse, perlomeno rivoluzionando la nostra individuale coscienza…

Mi anima il sospetto che la disgrazia serva a tenerci sedati esorcizzando la paura, mi scuotono le parole di Chirac e Jospin nella campagna elettorale francese attorno un episodio di cronaca, ma non mi scuote l’uccisione di quel padre di famiglia da parte di una banda di ragazzini di periferia, a Parigi, padre il cui unico intento era quello di difendere suo figlio dagli insulti e dalle ruberie; mi scuote il sospetto che le parole dei politici siano sprecate perché già ce ne dimenticheremo e se ne dimenticheranno e saranno sostituite da altri fatti. Prima di parlare di tragedie c’è un principio da conoscere, “la banalità del male”, cioè la banalità che spesso accompagna atti terribili, principio ben espresso dal giornalista Francesco Merlo su Sette, male che non si può prevedere.

Il sospetto che le affermazioni delle autorità, che pare conoscano perfettamente gli ingranaggi della vita e della morte tanto che il controllo diretto o indiretto dei media diviene strumento per non farci vedere, è banale. Ma non sono solo le autorità, è un sistema che trascura le intelligenze del nostro paese, relegando il pensiero in archivi polverosi.

Riesumato allora il pensiero potremmo convincerci che una idea possa impercettibilmente riformare lo stato di cose? E commentando il giornalismo, da lettori ci accontenteremmo del ritorno di un romantico Hemingway?
Oppure desideriamo la cronaca degenere per scaricare le tensioni e appropriarci dei simboli della vita e della morte?
“Per l’audience, il giornalismo non serve”
si risponde ad un ipotetico Montanelli. La televisione ci appassiona e non serve che i numi preservino, anche se lo considerano noioso, un Enzo Biagi.

Infatti l’epoca del giornalismo pare essersi eclissata, e non solo quella epica. Lucio Lami in Giornalismo all’Italiana (Ed. Ares, 1997 Milano, pp. 120)  denuncia la situazione, tipicamente italiana. Parlo del Lami, corrispondente di guerra, che ha lavorato al Giornale di Montanelli. Si dice che abbia vinto il premio Hemingway con Morire per Kabul (Bompiani 1982, De Agostini 1987, Asefi 2001, pp. 140).
Eppure quella lunga marcia attraverso l’Afganistan durante l’occupazione sovietica, libro che sfiderebbe pure i nostri migliori alpinisti e che è stato recentemente ristampato per questi altri ultimi romantici (i grandi reportage non interessano più secondo i nuovi direttori editoriali); eppure quella lunga estenuante marcia è stata volutamente dimenticata.
Certo, l’ex direttore dell’Indipendente – chissà perché il suo giornale è fallito? — ha sì tenuto corsi di Storia del giornalismo all’Università Cattolica di Milano: i cervelli se non li si può controllare è utile archiviarli all’Ateneo.

La prigionia oggi è il mondo e l’indifferenza per qualsiasi elemento che non sia vendibile o non faccia piacere a qualcuno è lo strumento di tortura che si sostituisce allo strumento dello scandalo quando lo scandalo c’è veramente.
Infatti in questo mondo mediatico il libro di Lami fa paura e non ha ancora ricevuto — dopo cinque anni — una recensione, tranne quella in corso d’opera… Fa paura come il commentatore radiofonico spagnolo che durante il conflitto Iran — Iraq, seduto in albergo, comodamente schiaccia il pulsante del suo registratore da cui escono suoni di mitraglietta e trasmettendo alla sua testata via cavo telefonico esordisce con un “Estamos aquí, e nel medio de la batalla”!

Ebbene sì, Giornalismo all’Italiana non è un divertente stupidario alla Striscia la notizia, uno dei programmi con più audience da quando la gente si è accorta della falsità dei notiziari, ma spiega senza buonismi e lontano da ogni ideologia il processo storico che ci ha portato qui.
Ma qui dove? Al 41° posto.

Innanzitutto, cosa che preoccupa di più del libro di Lami, è il concetto che le grandi firme del giornalismo siano scomparse perché o non si piegano al regime, che c’è ma è cosa più subdola rispetto all’idea generale di regime, o perché non si autocensurano.
Quindi c’è la preoccupante assenza di deontologia professionale.

Altra cosa è la rincorsa dei giornali a quello che è il modo televisivo di fare notizia.
Viene osservata anche l’attrazione fatale che certi giornalisti o editori hanno per il potere, che è tutt’altro che gossip, ma è storia del nostro paese e attuale testimonianza lucida che non risparmia i diffusori delle nostre illusioni!
All’inizio del saggio si parla infatti dell’overdose di notizie, il diluvio — meccanismo azionato con grandi ripetitori come se ci trovassimo in un film di Carpenter, all’italiana però, dunque uno Spaghetti — Carpenter (è oramai credo che un George Orwell o un Philip K. Dick o un qualsivoglia autore di science fiction avrebbero potuto scrivere un grande romanzo tragicomico sulle vicende del nostro giornalismo e il potere).

Tralasciando il fatto che in tutto questo marasma Striscia la notizia è la cosa più vera che abbiamo, una riforma del sistema giornalistico non farebbe comodo a nessuno — ai partiti no di sicuro poiché sono garanti per i finanziamenti pubblici dei giornali.
A questo proposito altro non dico affinché possiate scegliere di essere indifferenti.
La situazione è quella che è, ma stavolta non ci saranno agitazioni o rivolte.
Tuttavia dispiace che i reportage, le grandi inchieste non ci siano più; è un sottile ma strisciante dispiacere il livellamento verso il basso della scrittura nei giornali. Certo, potremmo non interessarcene… Tra poco si affermerà che è nell’ottica democratica.

Leggendo il libro di Lami, che sconsiglio a tutti coloro il cui unico desiderio è vivere in pace senza pensieri, ho provato un certo godimento intellettuale misto a dolore: la formazione attraverso alcune letture, quelle di grandi scrittori e poeti che sono stati grandi giornalisti, questa educazione che ho ricevuto frutto della spinta dei miei predecessori, questa voglia di cultura e di saggezza e di libertà intellettuale, esce provata dai fatti e dalle vicende di più di un trentennio di scelte pessime in tutti i settori del giornalismo italiano.
Ma è la testimonianza, sono i fatti, nel Giornalismo all’Italiana di Lucio Lami.

Immagine articolo Fucine Mute

Lucio Lami, milanese, ha iniziato l’attività giornalistica nel 1960. E’ anche scrittore. Ha lavorato al Giornale di Montanelli come inviato speciale e corrispondente di guerra. Per la sua attività giornalistica ha vinto il Premio Max David (1980), il Premio Hemingway (1986) con Morire per Kabul, premi riservati agli inviati speciali; il Premio Estense (1981) con il volume Il grido delle Formiche sul dissenso sovietico. Ha pubblicato libri di storia: Isbuscenskij, l’ultima carica; La signora di Verrua; Garibaldi e Anita corsari. Di saggistica oltre ai volumi vincitori di premi: La scuola del plagio; Dai confini dell’impero; Giorni di guerra; Cuba libre era solo un cocktail. E il romanzo La donna dell’orso nel 1996.

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